Chi vede per la prima volta l’incantevole valle ove sorse Agrigento, per la vastità delle rovine, per la grandiosità dei resti — are, muraglie antiche, costruzioni arcaiche, necropoli, ipogei e templi, templi soprattutto — non può non pensare alle più famose città dell’Ellade.
Sfilano dinanzi all’accesa fantasia Micene, Tebe, Corinto, Atene, dove il pensiero umano fu speculazione altissima, storia, eloquenza; divenne arte e poesia mai più superata; fiori in costume elegante; popolò di statue le agore e i ginnasii, le vie e le palestre di cittadini colti e raffinati.
Della vita luminosa di Agrigento, che fu culla di filosofi e di retori, di artisti, di poeti, nulla nella città moderna.
Dove sicuramente risuonarono i cori di Eschilo e indugia ancora la strofe tebana, nessuna epigrafe, nessun ricordo che accenni alle vittorie riportate dagli Agrigentini a Pito, ad Olimpia. Nessun nome illustre fregia le sue vie, neppure quello di Empedocle, il quale stupì la Grecia intera, quando il rapsodo Cleomene ripeté i suoi versi nell’arena di Olimpia e gli altri rapsodi rinunziarono al certame, disperando della vittoria e domandosi fra loro chi fosse dunque quell’uomo, i cui canti si misuravano con l’universo.
Siracusa, la quale ha esaurito, direi quasi, la toponomastica greca per adornarsene, lo ricorda; Agrigento no. Empedocle esaltato nell’antichità da Lucrezio in quel suo poema della natura che par forgialo con l’ansito d’un dio; glorificato dai moderni — ultimo, in ordine di tempo, Ettore Bignone —Empedocle non ha trovato grazia presso i suoi stessi concittadini.
Chi va ad Agrigento, deve ricostruire da sè la città e la sua storia, mentre la città sarebbe essa stessa una guida, integrerebbe i monumenti, testimonianza muta d’una gloria fulgidissima, se, sboccando in una piazzetta, se giungendo ad una svolta, ci si potesse imbattere in Metello, che fu maestro di musica di Platone, in Pantea, in Teano, in Filino, in Gellia.
Io, sognatore impenitente, viaggiando in treno, nei mesi estivi, verso questa cara cittadina, me la figuro sempre più bella. Immagino di trovare alla porta d’ingresso due targhe di marmo, l’una a destra, con i versi con cui Empedocle, aprendo il suo poema «Le purificazioni », salutava gli Agrigentini
“d’opere buone pensosi”
l’altra con la strofe, con cui Pindaro, nell’ode a Mida, vincitore col flauto, l’additava al mondo come la più bella delle città mortali.
“Te invoco, città di Persefone,
città la più bella fra
quante albergo son d’uomini”.
E sotto le due targhe vedo la via Gioeni mutata in due nuove arterie, con nomi nuovi, «via Pilo e Filino storici Agrigentini » l’una; « via Gellia e Antistene ricchi e ospitali agrigentini » l’altra.
Il movimento del treno, che va tra campagne sonnolente, ora seguendo ora scavalcando il corso del Platani, slabbrato, ghiaioso, con poca acqua, tra giunchi e tamerici, ove scendono ad abbeverarsi i buoi, o strangolato tra rocce a picco, ai cui piedi finisce di rovinare qualche vecchio mulino, seconda questo mio fantasticare. Frutteti variopinti, gruppi di nani oleandri rosa nel greto bianco e tra i ciottoli levigati e il terriccio che la corrente accumula nel centro del letto, dividendosi.
Fruscio di canneti, pioppi ed eucalipti cangianti, cascinali, pagliai in terre brulle, a distanza.
Cantano la solitudine.
Piccole oasi, le stazioncine infiorate: Castronovo, Cammarata, Acquaviva Platani.
Che freschezza di polle limpide, gorgoglianti in quest’ultimo nome !
Tempera l’arido di Contrada Spina che con la sua teleferica per il trasporto del salgemma, è rimasta già indietro. Ora è la volta del pizzo di Sutera, patria di Francesco Salamone, uno dei tredici della disfida di Barletta. « Contrade ricche » mi dice il capotreno Scimè, che ho incontrato a Roccapalumba e viene a trovarmi nello scompartimento, ove ho preso posto, nei ritagli di tempo che il servizio gli concede. Il sogno fluttua in una luce vaporosa. Mi annunzia la scoperta di due case romane con pavimento a mosaico e disegni a rombi. Una è la fabbrica di un figulo si scorge il forno rosseggiante ancora.
Lasciando la stazione di Campofranco, aggiunge ch’è stata scoperta l’ara, e altri telamoni fra le martoriate rovine del tempio Giove, il più grande tempio dorico del mondo greco, di sorprendente effetto paesistico dal lato che guarda il mare. Qui, dov’erano state messe a nudo parte delle fondamenta, continuano le esplorazioni, lavori assai difficili. I telamoni si son trovati tra una colonna e l’ altra.
A Passofonnuto incomincia la salita che porta a Comitini. Salita aspra, il treno si mette al passo, par che punti i piedi
Caldare. Agrigento. La mèta del sogno.
Ho un balzo.
Ma il sogno è sogno, la realtà è diversa. Gli Agrigentini son ricchi signori, le loro ricchezze però, come gli avari nel proprio scrigno, essi le conservano senza servirsene. Nulla di mutato. Perché riesumare tempi così lontani ? Eppure in quel passato sono le radici del presente. Non è possibile concepire interruzioni nello sviluppo dello spirito umano.
Mi si dice che sarà intitolata ad Esseneto la via che condurrà allo stadio. E sta bene: che sotto il nome di questo agrigentino, come usano i moderni, sarà incisa la leggenda che vinse due volte nell’Elide nelle gare col carro, come narra Diodoro Siculo. E sta bene anche questo: così i nomi non rimarranno un mito per chi non sa.
Se stesse in me, se potessi adornare Agrigento come la casa mia, la riempirei di nomi famosi. Piazza Terone il magnifico tiranno di Agrigento, chiamerei la piazza della nuova stazione ferroviaria, e accanto al nome scolpirei i versi di Pindaro che fu alla sua corte. Piazza Senocrate, la piazza Vittorio Emanuele II, e versi di Pindaro. A Mida auleta dedicherei l’ex emiciclo Cavour, dove si svolgono i concerti musicali, e versi di Pindaro, Pindaro sempre, Pindaro dappertutto, Pindaro che ne celebrò le vittorie, celebrando e immortalando la loro patria. E non dovrebbe essere dimenticato Falaride. Perdio dovrebbe figurare con la terzina dantesca accanto:
Come il bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima…
E con essi Diodoro Siculo, Polibio, Livio, Virgilio, Cicerone. Ma ad Empedocle, a questo grande, che Lucrezio presentò ai posteri con il superbo esametro :
Ut vix humana videatur stirpe creatus,
dedicherei la via migliore, il Viale della Vittoria, che guarda sulle rovine millenarie, e lungo il viale ,arborato, elegante, i busti di Carcino, di Dinoloco, di Feace.
E piazza Vittorio Emanuele ? e la statua del Cavour ? e il Viale della Vittoria ? Viale della Vittoria dovrebbe essere il proseguimento del Viale Empedocle, a partire dalla palazzina Sinatra, col monumento ai caduti nella grande guerra, e i altri busti di uomini del nostro Risorgimento nazionale, primo quello del Crispi, agrigentino di Ribera, non ultimo quello del tenente Messina, caduto nelle ambe africane. Piazza Vittorio Emanuele, la piazza che si estende dinanzi la casa del Balilla. Il monumento del Cavour andrebbe collocato nella Villa Garibaldi con quelli di Michele Foderà, di Nicolò Gallo, che vi figura senza nome, dove non dovrebbe mancare quello di Giuseppe Picone, autore delle « Memorie agrigentine », di cui Vincenzo Bonfiglio e Antonio De Gubernatis, bibliotecario della Comunale, in questo fervore di rinascita, curano la pubblicazione e l’aggiornamento. Ma raderei dal Viale le catapecchie che vi son sorte, bizzarre fantasie di artisti trogloditi, venute su in base a progetti presentati e non eseguiti e su un piano regolatore abbandonato al capriccio. O rammodernarle, o giù tra le sterpaie e i fichidindia.
Di fronte alla visione dei gloriosi templi dorici palazzi artistici devoti sorgere, con atrii, fontane, statue, scale marmoree, e villini verdi fioriti, in nome della bellezza che il genio dei nostri padri venne creando e che a nessuno dovrebbe esser lecito di deturpare.
Gli Agrigentini, scrive Diodoro Siculo, fabbricavano come se non dovessero morir mai.
Di sogno in sogno vedo questa città scendere al piano, fino alla marina e chiudere nel suo largo abbraccio i resti della città scomparsa. Altri occhi più fortunati vedranno realizzarsi tale sogno, altri cittadini si aggireranno inebriati per le sue vie che la terra leggera per ora custodisce. Agrigento, la signora splendidissima, ritornerà quale la vide Pindaro, quale la vide Empedocle, quale Virgilio, con felice anacronismo, volle che la vedesse Enea veleggiando il Mediterraneo.
Gerlando Lentini in Italia Giadino del Mediterraneo, Palermo 1936