Tra le volontà testamentarie del conte di Caltabellotta, Don Nicolò Peralta, era ancor questa: le tre figlie, Giovanna Margherita e Costanza, non potevano andare a marito senza il consenso del re Martino, del cardinale Pietro serra, di Giovanni Perollo signore di Castellammare del Golfo, e di altri nobili dell’epoca.
Un giorno, trovandosi di passaggio da Sciacca Don Artalo di Luna, nobile cavaliere parente del re, conobbe la bellissima Margherita e ne chiese la mano. Il cardinale serra, il barone Giovanni Perollo e altri nobili vi si opposero; ma le nozze si celebrarono per espressa volontà del re. Da quel giorno fatale si accese la scintilla degli odii e delle rivalità implacabili tra i conti di luna e i baroni Perollo.
La prima aperta esplosione degli odi malcelati si ebbe tra gli eredi delle due famiglie Antonio di luna e Pietro Perollo. Forte delle prerogative di Conestabile del regno di Sicilia, il conte Antonio, offertasi l’occasione, privò Pietro Perollo della sua baronia di San Bartolomeo.
Arse d’ira il Perollo, è un giorno, alla presenza di alcuni nobili, giurò di non togliersi la camicia prima di aver dato la morte al suo odiato rivale. Infatti, accordatosi con il conte di Geraci, pure nemico di Antonio di Luna, tramò la vendetta, e doveva avere il suo tragico epilogo durante la processione della sacra spina a Sciacca.
Il conte Luna scampa alla morte
Il 6 aprile, giorno in cui quell’anno (1455) ricorreva la detta celebrazione, il Perollo corse a Sciacca con uno stuolo di cavalieri scelti e si mescolò alla folla dei devoti, accorsi dai castelli e dalle città vicine. Appena la processione si snodò nella via tra San Nicolò e Santa Caterina, seguita dal conte di luna e dai rappresentanti del viceré, il Perollo si fece largo tra la folla, e con mossa fulminea, colpiva ripetute volte il suo rivale, il quale cade immerso nel proprio sangue.
Credutolo morto, il Perollo ne calpestò il corpo esanime assieme ai suoi satelliti: poi si allontanò con essi su veloci destrieri, trovando rifugio presso il conte Enrico Ventimiglia.
Per miracolo il conte di Luna scampò alla morte, e appena guarito, preparò la vendetta. Assoldò alcune bande di malviventi e di facinorosi, e corse alla casa del Perollo. Trovato l’assente, sfogò la sua ira contro i servi, gli amici e alcuni parenti del suo rivale facendone orrenda carneficina.
Ma la giustizia non tardò a piombare sul capo degli autori di così orrendi delitti: essi furono privati dei loro beni, posti al bando. Dopo molti anni i due rivali si riconciliarono, almeno in apparenza, per opera del re Alfonso, e riebbero i loro beni. Ma io odi e le rivalità non si spensero mai tra i due casati.
La vendette di Sigismondo Luna
Più volte si destarono, finché ebbero la più crudele espressione nelle stragi compiute dal conte Don Sigismondo di Luna nel 1529, anno in cui fioriva Sciacca il nobile e potente cavaliere Giacomo Perollo, barone di Pandolfina e Portulano.
Amico d’infanzia del viceré, il Perollo esercitava Sciacca pieni poteri: nominava i ufficiali, amministrava la giustizia e dirigeva le sorti della ridente cittadina. Stimato venerato dalla maggioranza dei cittadini per munificenza, era odiato da molti nobili per la sua straordinaria potenza.
Dimorava infatti nel castello vecchio con sfarzo regale e usciva scortato da 150 cavalieri e da quattro giganti, armati di spadoni. Come eliminare un personaggio così potente stimato dai viceré? I nobili di Sciacca volsero il loro pensiero al giovane ardente conte di Caltabellotta, Don Sigismondo di Luna, memori delle secolari rivalità tra le due famiglie, soffiavano sulla cenere e attesero il maturare degli eventi. Un giorno 30 cavalieri, capeggiati da Michele Lucchese, si recavano a Sciacca per incarico del conte Sigismondo.
Giunti nei pressi della città, ne trovarono l’accesso sbarrato dei soldati di Giacomo Perollo. Ne seguì una scaramuccia con feriti da entrambe le parti; e l’agenda del conte fu costretta a rientrare a Caltabellotta. Ne andò orgoglioso il Perollo; ne rimase indignato il conte, nipote di due pontefici, Leone X e Clemente VII, e imparentato alle più potenti famiglie dell’epoca, è giurò in cor suo vendetta.
Altri motivi, altre occasioni acuirono sempre più la rivalità e i propositi di vendetta, che irrorò di sangue la città di Sciacca. Giunto il momento di agire, si adunarono a Caltabellotta molti cavaliere vassalli, amici del conte e nemici giurati del Perollo, oltre ad un’accozzaglia di gente malvagia indurita nel delitto, assoldata dal conte.
E, siccome non era facile cosa prendere il barone, chiuso nel suo castello fortificato e ben difeso, si stabilì di spedire a Sciacca 100 cavalieri scelti col mandato di ucciderlo. A notte, i cavalieri penetrarono Sciacca attraverso la finestra del traditore Infontanetta, che dava all’esterno della città.
Ma lo stratagemma non ebbe buon esito: le spie tennero sull’avviso il Perollo, il quale rimase chiuso nel suo castello. Allora il conte si manifestò a Sciacca e con alcune rappresaglie mostrò le sue perfide intenzioni di vendetta. Giacomo Perollo si affrettò a spedire corrieri al viceré onde informarlo di quanto avveniva Sciacca per opera del conte Sigismondo.
Il viceré inviò allora Sciacca con funzioni di capitano d’armi il catanese Statella, barone di Mucellino, per indurre il conte a più miti consigli. Giunto a Sciacca, lo Statella declinò l’invito del Perollo di alloggiare col suo seguito di consultori e prodi cavalieri nel castello, e preferì fermarsi nella casa di Stefano Lauro, onde esercitare con maggiore libertà le sue funzioni.
E, mentre il conte si ritirava per il momento in Caltabellotta, egli poneva al bando alcuni seguaci di lui e ne faceva impiccare qualcuno per ristabilire il prestigio dell’imperatore. Il Perollo , stimandosi ormai al sicuro, spedì il suo primogenito al viceré, scortato da 50 dei suoi migliori cavalieri. Accortosi di ciò, i nemici del Perollo, ne tennero ravvisato il conte: il momento di agire era propizio.
Il 19 luglio 1529 un piccolo esercito di 770 uomini tra cavalieri e fanti, mosse alla volta di Sciacca. Una parte delle forze assediò il castello dall’esterno della città; d’altra parte l’assediò dalla porta di Santa Caterina. Al sorgere del novello giorno il conte, lasciati molti soldati intorno al castello, si affrettò ad assalire lo Statella, affacciandosi dall’alto della torre, fece comprendere che ciò si faceva contro l’autorità dell’imperatore.
Assalto al Castello
Tutto fu inutile. La masnada degli assalitori con scale e con altri strumenti di guerra penetrò nell’interno della casa, e compiì una strage crudele dei difensori, gettandone i cadaveri dalle finestre e dall’alto della torre. Anche lo Statella, colpito da una stoccata al cuore seguì la stessa sorte. I soldati del conte fecero strage dei pochi difensori, invano imploranti pietà. Intanto il conte penetrava nella torre e si trovava di fronte a Giovanni Perollo e alle donne dei difensori, tra le quali era la consorte del barone.
Al pianto delle donne il conte si commosse, perdonò al prode cavaliere Giovanni Perollo e condusse nella Badia delle Giummarre la baronessa. Mentre ciò avveniva, dalla parte opposta delle mura Giacomo Perollo riusciva a porsi in salvo, calandosi con una corda insieme al servo Andrea Carosello. Durante la fuga il Perollo si imbatté in un certo Luca Parisi e in tale Antonello da Palermo.
Il Parisi altre volte beneficato, condusse il Perollo nella sua casa, gli offrì da bere e lo fece nascondere assieme al servo in una specie di fossa. Antonello ricevette dal barone un pugno di scudi, purché non rivelasse ad alcuno quel nascondiglio improvvisato. Ma il perfido uomo si presentò al conte di Luna e gli disse: – signore, o la lepre nella tana, che ne volete fare? Venite e ve la dò nelle mani – il conte mandò il Loria con 100 uomini, perché gli conducessero l’odiato rivale.
Ma il conte, per salvare il servo, balzò fuori dal suo nascondiglio e fu ucciso dagli uomini del conte. Il suo cadavere venne trascinato per le vie della città.
la vendetta
La notizia della barbara uccisione, arrivò al figlio Federico che giurò che avrebbe ucciso il conte Luna e che gli avrebbe “strappato il cuore dal petto”. Il conte Luna scappò a Roma per cercare di ottenere, grazie all’intercessione di Papa Clemente VII, la grazia del re Carlo V.
Le truppe di Federico Perollo attaccarono Bivona e i sostenitori del conte Luna furono squartati. Tanti bivonesi furono uccisi e le loro case saccheggiate.
Federico Perollo si reinsediò a Sciacca, mentre Sigismondo non ottenendo la grazia dal re Carlo V, che lo aveva condannato a morte, decise di porre fine alla sua vita buttandosi nel Tevere. Suo figlio Pietro Luna fu invece graziato dal re a condizione che una volta ritornato a Bivona avrebbe pagato a Federico Perollo i danni da lui patiti a seguito dell’azione del padre.