Il popolo agrigentino, come del resto tutti i volghi siciliani, è assai religioso; lo dimostra il gran numero di chiese e di preti che godono universale considerazione, le tante edicole, tabernacoli, nicchie con statuette e dipinti di Santi e di Madonne, con Crocifissi dinanzi a cui ardono ceri votivi, lampade ad olio o lampadine elettriche.
I buoni fedeli non mancano di ornare tali altarini di fiori e di corone, e in occasione di feste, li abbelliscono con trofei di candele e di ghirlande, con drappi e tappeti di seta, ed innanzi ad esse fanno suonare minuscole bande e l’immancabile tamburo. Non c’è popolano che non abbia in casa la statuetta di S. Calogero, o di S. Giuseppe, o del Santo Protettore S. Gerlando; innanzi ai loro quadri o immagini fanno altarini, accendono ceri e lampadine, e recitano canti religiosi.
In talune chiese dove si venera il Cuore di Gesù, il parroco imbussola dei cartellini portanti i nomi di quei devoti che desiderano avere il privilegio di tenere in casa per qualche giorno la sacra immagine.
Il fortunato, il cui nome è stato sorteggiato, prende dalla chiesa la statua, e la porta a casa sua in processione, preceduto dal solito tamburo; invita parenti ed amici a pregare in una determinata ora, accende candele e lampade innanzi all’altare ben preparato, e dopo i canti e le invocazioni dispensa dolci e gelati. Dopo una settimana o un mese che ha tenuto la statua in casa, la riporta in chiesa con la stessa cerimonia, perchè sia consegnata ad altro devoto.
Le processioni sono variopinte, rumorose, interminabili, e si snodano principalmente in Via Atenea, che è pavesata da bandiere di tutti i colori, da festoni di verdura tirati ad arco da una casa all’altra; un gran numero di cordicelle lega una casa con l’altra, e sorreggono una miriade di lampioncini di carta variopinta che danno l’idea di una luminaria alla veneziana; dopo il passaggio della processione i monelli strappano bandieruole, orifiamme e lampioncini e ne fanno grandi falò. In onore del Protettore S. Gerlando e di S. Calogero celebrano feste assai chiassose e caratteristiche.
In diverse epoche dell’anno si compiono riti e cerimonie sacre, che non sempre ‘trovano riscontro in altre città dell’isola.
Per esempio il giorno della festa di S. Giuseppe i devoti dei diversi rioni vanno alla questua di legumi, riso, farina, pasta, e preparano il pranzo ai poveri in pubbliche piazze. In vicinanza di talune chiese si usa offrire il banchetto alla Sacra Famiglia, che è rappresentata da un vecchio vestito come S. Giuseppe, da una povera, che raffigura Maria, e da un fanciullo, cui danno gli attributi di Gesù. Mentre i tre poverelli mangiano, serviti da signorine e popolane, suona continuamente l’immancabile tamburo, ed i monelli si abbandonano a grida chiassose.
Assai grande è il culto che il volgo ha per l’Immacolata, alla quale fa la novena, accende lumi e recita preghiere. Il giorno della vigilia oltre al digiuno esso « fa il viaggio alla chiesa ove si venera l’immagine, cioè ognuno alle quattro va a sentire la prima messa, per cui nessuno va a letto la sera precedente e passa la notte in veglia e preci. La sera si costuma mangiare i « muffoletti» , che sono pani nel cui mezzo si mette della ricotta con « frittuli » cioè residui di carne suina, da cui è stata estratta la sugna.
Sempre piena di dolce poesia è la festa del Natale, quando i pastori vengono dalle campagne a suonare la cornamusa, la ciaramedda, l’acciarino, i cerchietti di legno o di metallo con sonagli di ottone, e cantano i Ninnareddi. Gli zampognari per nove sere si fermano a determinate ore sotto le icone illuminate, ed innanzi ai presepi, nelle case, trilla la cornamusa tra le preghiere dei vecchi e l’allegria dei fanciulli, che li circondano estasiati. Alcuni devoti radunano pezzi di legna, fascine, paglia, e accendono dei grandi falò; mentre le donne recitano le novene o mormorano preci, i monelli fanno un chiasso assordante, e saltano in mezzo alle fiamme.
Oltre agli zampognari girano per la novena in onore di Gesù Bambino anche minuscole bande musicali accompagnate da cantanti, che recitano particolari filastrocche dinanzi a Tabernacoli o ad effigie sacre. La novena si riprende a Capo d’anno, e dura sino alla Pasqua Epifania, quando i cantanti, ricevuta la mercede pattuita tornano alle montagne.
Le cerimonie della settimana santa non hanno nulla di caratteristico; solo il venerdì, durante la predica dalle tre ore dell’agonia, quando il sacerdote schioda Gesù dalla croce, ad ogni chiodo che toglie, i popolani si battono fortemente le guance in atto di pentimento, e per la chiesa echeggiano suoni lamentevoli ed accenti di dolore.
Il sabato, appena il celebrante dà il segno della resurrezione, si sparano colpi di fucili e di rivoltelle, i monelli armati di grosse mazze, battono dietro le porte delle case, gridando: « nesci, diavulu, e trasi Maria ». Le mamme mettono i bimbi di faccia per terra, sicure che così essi imparano presto a camminare. Anche gli uomini si buttano di faccia a terra, e ognuno bacia la persona nella quale si imbatte.
In quel giorno si mettono da banda le inimicizie, e tutti si stringono la mano.
Come a Natale le donne preparano il cenone, con manicaretti c dolci d’occasione, così a Pasqua si mangia « lu cucciddatu » che è una torta con fichi e zucchero, «la cassata» torta succulenta fatta di crema, uva passa, fichi, ricoperta di frutta candite, il « panareddu » che è una torta fatta di pasta, zucchero e uova a forma di cesto con manico.
Accenniamo a qualche usanza particolare. La notte fra Ognissanti e i Morti le famiglie usano fare delle sorprese ai fanciulli, ai quali danno a credere che i defunti portino loro dei doni; perciò nascondono dietro gli stipi o armadi bambole, giocattoli, vestitini, dolci, monete, e dicono loro di cercare « i cosi ri morti ».
I bimbi cercano affannosamente d’ogni parte, e finalmente trovano un oggetto sotto un cassettone, un altro dietro una mensola, c sono felici d’aver ottenuto quello che desideravano dai morti, ai quali nei giorni precedenti indirizzano letterine affettuose scritte dalle mamme.
Il giorno di S. Lucia non si mangia pane nè pasta, ma si costuma preparare le « panelle », che sono un impasto di farina di ceci con riso, oppure «la cuccia» che è una torta rustica fatta di ceci, fave, granturco o frumento, tutto bollito con miele, cioccolato o crema.
Si dice che tale nome derivi dal seguente aneddoto, che un anno essendovi grave carestia, il popolo attendeva il grano da paesi lontani. L’attesa era assillante, ma non arrivava mai il grano desiderato; finalmente un glorioso di quelli che erano in vedetta, scorsero un bastimento, ed esclamarono: «cuccia», «cuccia», che vorrebbe dire: «Eccola finalmente!».
Saverio La Sorsa tradizioni popolari di Agrigento, in Lares, vol.VI n.3, settembre 1935