L’analisi dell’alimentazione nella Sicilia dell’Ottocento mette in luce, una volta di più, la tradizionale capacità delle classi subalterne nel definire strategie di sopravvivenza con la «complicità» di una cucina povera in grado di sfruttare tutto quanto offrono la natura e l’ingegno umano…
Varie fonti ci consentono una puntuale informazione sulle caratteristiche dell’alimentazione dei ceti subalterni nel secolo scorso. Tra queste le relazioni mediche, le testimonianze letterarie (basti pensare all’opera di Verga o alle relazioni di viaggio) (1), le testimonianze orali degli anziani dei piccoli centri rurali, fonti etnografiche come l’opera di Giuseppe Pitrè, di cui le Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani ci consentono di verificare il rapporto tra alimentazione e immaginario popolare.
Quanto alle fonti mediche, interessanti notazioni troviamo in Algeri Fogliani che nel settembre 1835, scrivendo un trattato sul colera (2), affronta anche il problema dell’alimentazione, rilevando la qualità dei generi di largo consumo e denunciandone le sofisticazioni pericolose alla salute.
Relativamente al pane, «l’alimento cui più di tutto noi siamo avvezzi», l’autore scrive che spesso vengono panificate, specie nelle grandi città, enormi quantità di frumenti o di farine «umide, germogliate o guaste da mali diversi e da vermicciuoli».
Nocivo, per le frequenti diarree che procura, appare il pane formato «da farina d’orzo in gran copia e da quella di frumento in piccola proporzione»; «rea» la costumanza dei panettieri di bollire il pane rimasto invenduto, duro, o muffito e «così mescolarlo alla farina nel fare il nuovo pane».
Nei piccoli centri la preparazione del pane avviene a casa secondo una precisa ritualità, specialmente il sabato perché una buona parte di esso dovrà «servire di provvisione al padre di famiglia e, in generale, agli uomini che il lunedì dovranno andare in campagna a lavorare. ( 3 )
La novella Gli orfani di Verga ci offre un magnifico -interno» di una casa contadina, nel momento in cui viene preparato il pane. Al riverbero del fuoco del forno – che si trova dentro la casa – le «comari» impastano assieme il pane; una di esse si allontana dal bugigattolo del forno, «rossa» come un pomodoro; un’altra lavora «di pugni nella madia colle braccia nude sino al gomito». Comare Sidora per consolare una bambina, le prepara una focaccia (che si ottiene schiacciando e arrotondando un po’ di pasta) e la leva dal forno ripulendola della cenere. Tulle le donne hanno le mani intrise di farina e aspettano con trepidazione il momento in cui si finisce di sfornare il pane caldo, che viene in quella circostanza offerto a compare Meno «su di uno scanno» «colle olive nere, un pezzo di formaggio di pecora, e il fiasco del vino» ( i).
L’alimentazione della povera gente, scrive Pitrè, è sempre a base di pane, «quando fino, di buona qualità, quando murino, di qualità inferiore; pane scusso, pane con cipolla e, secondo le stagioni, con pomidoro non maturo con fave verdi o con frutta fresche o secche, o con olive, o con formaggio della peggiore qualità, con copiose libagioni di acqua o con un gotto di vino quando l’aveva» (5).
Abbiamo detto che il pane è spesso mangiato da solo. Non a caso tra i proverbi siciliani troviamo pani schittu cala drittu. pani accumpagnatu cala affucatu (= pane schietto si mangia facilmente, pane accompagnato [da companatico] si mangia con difficoltà ), Pani e cuteddu jnchi lu vudeddu (= pane e coltello riempie lo stomaco). Quest’ultimo allude alla gestualità lenta ed avara con cui il contadino, non avendo nient’altro con cui accompagnare il proprio desinare, affettava il pane.
Quanto alla carne, l’Algeri Fogliani sottolinea l’abitudine diffusa di mettere in commercio o di mangiare le carni di animali uccisi mentre si ammalavano o di quelli morti naturalmente. Per ciò che riguarda il pesce, secondo le stagioni e le circostanze, si consuma anche baccalà e tonno (specie a Palermo), che «copiosissima essendone la pesca e del tutto mancanti i mezzi di esportazione, andava svilito al prezzo di un baiocco il rotolo ( i cent, di lira, g. 800) e che chiamavasi perciò carni di puvureddu e sciala, poviru (godi povero, gridavasi dai venditori per le piazze).
Diffuse in ogni stagione sono le zuppe d’ogni maniera di legumi e verdure. Al di sotto delle zuppe vanno altri cibi: fave lesse non sbucciate minestre ed erbaggi, che «costavano solo la cottura e non sempre i vano condimenti di olio, bastando il vilissimo sale di Cammarata o c migliore di ‘trapani ed il pepe selvatico della città (6).
E se in Verga comare Nunzia «con una manata di finocchi selva preparava una minestra, da leccarcene le dita-, Pirandello, in una novelle girgentane, ambientate nel mondo rurale, ricorda l’abitudine famigliole contadine di mangiare, ogni sera, «la minestra nel cortile al della lucerna… in rozze scodelle di terracotta» (7).
Dall’agosto al dicembre i fichi d’india rappresentano la provvidi quanti non hanno di che sfamarsi.
Durante hi vendemmia nelle campagne di (.urgenti, prima di m al lavoro, agli operai si fa fare un’abbondante colazione a base di fichidindia, per evitare che gli stessi mangino l’uva.
Il vino, genere di largo consumo, subisce varie adulterazioni.
Una particolare pratica durata a lungo nel tempo è quella di m in commercio «vino museale». Questo – si legge in una lettera dell’ dente di Palermo – «non è altro che il succo dell’uva recentemente espresso, (…) di abbondante gesso intriso» in modo da ottenerne poco vino vecchio che vi si mescola o del «così detto vino cotto» l’immediata chiarificazione filtrandolo in appositi cappucci di tela (8). Se ne ricava una bevanda di pessima qualità e di elevata gradazione.
L’acqua, infine, è di qualità scadente, gli acquedotti e le fonti comuni sono senza controllo e soggetti a incrostarsi di materie eterogenee nocive, quando non capita come a Vallelunga e a Canicattì che una mefesima sorgente in cui si lavano i panni, alimenti, poi, altre fonti nelle quali attinge acqua per bere, con le tristi immaginabili conseguenze.
E veniamo all’alimentazione nell’immaginario, attraverso l’analisi di fiabe e dei racconti popolari siciliani.
Si tratta di più di 400 componimenti, raccolti dalla viva voce del popolo e pubblicati alla fine del secolo scorso da Pitrè, in alcuni dei quali è possibile reperire riferimenti all’alimentazione (9).
Intanto possiamo dire che il quadro che emerge da questa fonte, conferma come nell’immaginario popolare l’idea di cibo e di alimentazione resti legata alla realtà concreta, al quotidiano, con tutti i suoi aspetti di miseria e di precarietà.
Così, per esempio, nel raccontino Lu Turcu di Santu Nicola, c’è un poveraccio, un turco, che ogni giorno si sfama con una pagnotta calda e «pri cunsarisilla» (per condirla) va a rubare in chiesa l’olio del lumino del Santo.
Nella fiaba Li tri belli curuni mei, compare una lavandaia che, prima di recarsi in ospedale, lascia alla figlia «un gitastidduni e ’na buttigghia d’ogghiu», l’occorrente per mangiare: pane e olio. In Mandruni e mandruna è possibile cogliere i desideri, i gusti, i bisogni del popolo: «Si grapi la cuccagna ’na funtana cu dui cannola a lu Chianu di lu Palazzu: una mannava ogghiu e n ‘antru vinu; la spisa mircata, senza tassi e scialibbia pri tuttu Palermu».
Si dice cioè che ha inizio la «cuccagna» e nella piazza antistante il palazzo reale c’è una fonte che da una parte manda olio e dall’altra vino; che nei sette anni di cuccagna i viveri sono a buon mercato: non vi sono tasse e c’è festa e allegria (scialibbia) per tutta la città di Palermo.
L’eccezionalità della mamma draa (la donna drago), che può in teoria divorare «cristiani, pecuri, crapi, voi, come viscotta» (uomini pecore, capre, buoi come biscotti), si precisa in maniera più concreta e forse, credibile, nella sua capacità di mangiare anche una «menza pecura» (mezza pecora) «sei guastidduna» (sei pagnotte) «ricotti e primusali».
Del suo mangiare si dice «tussichiari» che significa mangiare, ma è quasi una imprecazione che faccia veleno o tossico.
Ne Lu re d’amuri la donna drago mangia «una maidda di pasta, un porcu sanu, ‘na furnata di pani (e un varrli di vinu si vivi)»: una madia di pasta, un maiale intero, una infornata di pane e beve un barile di vino.
Per esperienza diretta so che il narratore, quando la sera, intorno al fuoco, raccontava le sue fiabe, indugiava su questi particolari, suscitando l’aspettazione, la meraviglia e talora l’invidia degli astanti (10).
Anche nelle fiabe in conseguenza di un cattivo raccolto ( «l’annati cci su ’ sempri scarsuliddi») due popolane vanno a rubare «quarchi cavuliddu» (alcuni cavoli).
A volte però si può mangiare, ma sono i sette ladri, «carni a stufatu», per premiare le apprendiste una maistra di cusiri promette «na bella manciata di gnocculi»,- «la solachianeddu» (il ciabattino) mangia «pasta e ficatelli e vinu», i monaci «favi cu li vrocculi» ( fave con broccoli), o anche pisci di ciumi (pesce di fiume); i preti «ricotta, tuma. capretti… picciuna e spizzateddu».
Più frequente, come si può intuire, è il richiamo alla minestra: un genitore che «nun avia comu campari» i propri figli «stimpuniava la so vita iennu a minestra» (tirava alla meglio la propria vita raccogliendo verdure per la minestra).
Ma non sempre si riesce a trovarne perché può capitare che tutta la campagna sia «comu un cozzu munnatu» (una nuca rasata), «senza mancu ’na cavulicedda, senza un finocchiu, senza na gira».
I personaggi delle fiabe e dei racconti, nei quali il popolo si riconosce si connotano per la parsimonia e mangiano un «pizzuddu» (pezzetto) di ventri di vacca (trippa); quatturana (quattro grani, una piccolissima quantità) di pani e un pocu di sangunazzu (sanguinaccio); «quattru fila di pasta» o più semplicemente «un bellu pezzu di pani e na botta d’acqua» (un bel pezzo di pane e un lungo sorso d’acqua).
In possesso di una tovaglia magica Petra lu massariotu, cumanna di mangiari (comanda di mangiare). E «ddocu vidistivu! (a questo punto avreste potuto vedere; anche in questo caso l’esclamazione, che in siciliano è al passalo remoto crea un’intensa attesa da parte degli astanti): «pasta, carni, costi, sasizza» (pasta, carne, cotolette, salsiccia) «… ccu vinu di tutti li sorti di maneri» (vino di ogni varietà) e «’nsina lu gilatu e lu cafè» (perfino il gelato e il caffè): è il massimo che si può chiedere all’immaginazione popolare.
Nella società rurale del secolo scorso l’alimentazione dei contadini è condizionata e scandita dalle stagioni e dalla produzione agricola, dalla povera, feriale quotidianità e dalle festività. Le feste sono importantissime perché si può finalmente mangiare qualcosa di diverso; perciò le principali feste dell’anno sono scandite da un preciso calendario alimentare legato alle produzioni stagionali.
Cominciamo col Capodanno.
Una specialità culinaria di questo giorno sono certe «larghissime lasagne incannellate, dette scibbò o sciabbò (pappardelle) condite con ricotta. In Palermo come nella più parte della Sicilia. L’uso è generale e le botteghe dei pastai tengono in mostra queste pappardelle per rallegrare i loro negozi e attirare avventori».
Per S. Sebastiano, il 20 gennaio, si consumano pizzareddi (ciambellette) di pasta cotta al forno nella ricorrenza di S. Biagio, il 3 febbraio, piccoli pani a forma di gola: cannaruzzeddi di S. Brasi.
Durante la Settimana Santa, è la volta di picureddi (agnellini di pasta reale), cassata, pupu cull’ova (pane a forma di pupazzo con le uova).
Nella ricorrenza di S. Giuseppe si prepara la minestra con ogni sorta di verdure. A giugno, nel popolare quartiere della Kalsa di Palermo, il giorno di S. Pietro si festeggia con babbaluci a picchi-pacchiu, lumachine cotte in un saporito soffritto di aglio e pomodoro. Il pranzo o la cena con lumache (babbaluci. aglini, o scataddrizzi) e già un pranzo ricco.
Per la ricorrenza della Madonna Assunta, è la volta di ‘u yelu di muluni (gelato al melone) e frutta.
Pasta mescolata di miele e farina si prepara a settembre nella ricorrenza dei Santi Cosimo e Damiano.
I «Morti» conoscono il trionfo dei papi di zuccaru e della frutta martorana; Santa Lucia quello delle panelle e della cuccia (frumento cotto).
Sfince, pasta caciata, anguille, paste di vinu cottu e l’immancabile maiale, accompagnano le festività natalizie (11).
(1) Cfr. P. Brydone. A Tour through Sicily and Malta. London, 1773. II 1806, trad, italiana a cura di V. Frosini. Milano, Longanesi, 1968 – J. Galt Voyages and travels ecc. conteining ohseivations on Gibralier, Sardinia. Sicily Malta ecc. Second editions, London 1813 – G. Falzone. Viaggiatori stranieri in Sicilia tra il 700 e 1800. L’Europa scopre la Sicilia. Palermo. 1963-
(2) G. Algeri Fogliani, Sul Cholera che minaccia l’Italia e che può inaspettatamente introdursi in Sicilia in -Giornale di Scienze Mediche per la Sicilia». Palermo. 1835, I. 9. p 5 e segg.
(3) G. Pitie Usi e Costumi. Credenze e Pregiudizi (hi/>o/>olo siciliano. Palermo, 1<S,S9. p. 331.
(4) Verga. Tutte le novelle. Milano, Mondadori. 1977, I. p. 2~8.
(5) G. Pitrè-, La vita in Palermo cento e piu’ anni fa. Palermo. A. Reber. I, p. 365.
(6) Ibidem.
(7) L,. Pirandello, Novelle per un anno, Milano. Mondadori, 1986, I. p. 12 41 e 43
(8) A.S.P. – S.G.S.. Intendenza della Valle di Palermo, Rip. 2, n. 256. Lettera dell’Intendente ai componenti il Magistrato Supremo di Sanità in data 10 settembre 1837, vo. 333
(9) G. Pitrè. Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, 1873, voi. I-IV ; Idem. Fiabe e leggende popolari siciliane, Palermo 1888.
(10) Sull’arte di narrare dei suoi «contatori e contatrici, tra cui eccelleva Agatuzza Messia, e sulla «mimica delle narrazioni” si veda quanto il Pitrè scrive nella prefazione alle Fiabe, novelle etc, (p. XII e segg.). La mia esperienza si riferisce al modo di raccontare di Michele Sciara, un vecchio gnuri (cocchiere) di Favara che riusciva con grande suggestione a intrattenere il vicinato nella portineria di un palazzo nobiliare, quello dei Cafisi, in cui ho abitato nella mia infanzia.
(11) Cfr. G. Ptrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, 1889, passim.
di Carmelo Vetro
Da Calendario del Popolo n. 555, Milano 1992