
Le miniere più importanti si trovavano nell’Ottocento in provincia di Agrigento in particolare nel territorio dei centri di Aragona, Comitini, Grotte, Campobello di Licata, Favara, Girgenti, Cianciana, Cattolica Eraclea, Casteltermini. Le miniere siciliane producevano annualmente i 4/5 di tutto lo zolfo che si estraeva nel mondo e le provincie di Girgenti e Caltanissetta sin dalle guerre napoleoniche (durante le quali massiccio fu l’impiego della polvere pirica) contavano in esercizio il maggior numero di miniere di zolfo. Tutta l’industria chimica europea (francese ed inglese) dipendeva dallo zolfo siciliano.
Nel 1862 – secondo la relazione presentata dal prefetto di Girgenti Carlo Bosi in occasione dell’inaugurazione del Consiglio provinciale di quell’anno- le miniere nel territorio agrigentinom erano 277 e impiegavano 12 mila lavoratori. E nel 1863 lo smercio dello zolfo fu di chilogrammi 144.373.907, dei quali 22.190.303 andavano in Italia e il rimanente all’estero. L’estrazione del minerale avveniva ancora in forma primitiva, a mano, ad opera del picconiere, ed il trasporto a spalla ad opera dei carusi (i ragazzi anche sotto i 15 anni che lavoravano nelle miniere). Le macchine per l’estrazione dello zolfo erano inesistenti almeno fino al 1885 e lentamente ne vennero introdotte alcune, ma ancora nel 1891 si trattava di pochi esemplari.
Nella provincia di Girgenti nel 1890 non esistevano che tre impianti per l’estrazione meccanica, due pozzi, un piano inclinato di 38 cavalli di forza motrice, su 234 miniere attive. La quantità di zolfo prodotto con minerale estratto meccanicamente era stata di 8285 tonnellate sopra una produzione complessiva di 126,804 tonnellate. E negli annali di statistica industriale sopra citati nel 1894 sono indicati come attivi otto impianti, sei pozzi e due piani inclinati, disponenti di una forza complessiva di 157 cavalli vapore (rimase inattivo un piano inclinato con 10 cavalli di forza) e furono prodotte 17, 871 tonnellate di zolfo con minerale meccanicamente estratto sopra una produzione complessiva di 130,898 tonnellate.
Il modesto sviluppo che ha sempre avuto l’estrazione meccanica nella provincia agrigentina dipendeva soprattutto dal fatto che le numerose miniere erano per la maggior parte di poca importanza, così che riuscivano troppo costosi gli impianti. Molte erano di entità minima e venivano coltivati da due picconieri che spesso ne erano anche i proprietari. Altre, infruttuose, assorbivano capitali rilevanti nelle ricerche di nuovi strati o di strati smarriti. Di tali miniere ve ne erano soprattutto nel territorio compreso tra Girgenti e Aragona. In tutta la provincia poi non esisteva un solo stabilimento per la raffinazione dello zolfo.
Le condizioni tecniche delle zolfare siciliane hanno sempre lasciato a desiderare per la rudimentale attrezzatura e per i metodi arretrati di coltivazione dei giacimenti e trattamento del minerale. Moltissimi erano i disastri, crolli, incendi, esplosioni di grisù che provocavano più volte perdite dolorose di vite umane. Solo alla fine ai primi del Novecento si adoperarono i carrelli per eliminare il penoso e antieconomico trasporto a spalla. Ma ciò avvenne solo nelle miniere più grandi e i risultati pertanto furono scarsamente apprezzabili. Non migliore è certamente la situazione se si analizzano i metodi che allora venivano usati per il trattamento del minerale: i calcaroni.
“Il calcarone era un enorme cumulo quasi conico di minerale coperto di rosticci cioè minerale già sfruttato e poteva avere un diametro variabile dai cinque ai trenta metri. Attraverso gli interstizi veniva acceso il fuoco; con la lenta combustione il primo zolfo liquido raggiungeva il foro di colata dopo 8-20 giorni. Dopo trenta o più giorni, a seconda della grandezza del calcarone, si compiva la fusione del minerale che cadeva e poi veniva fatto solidificare, per raffreddamento, in balata o pani del peso di 50 o 60 Kg. Del materiale che restava sul posto, dei rosticci o ginesi cioè, da cui lo zolfo era stato tolto col riscaldamento, veniva fatto largo uso: una parte di esso, infatti, veniva riportato all’interno della miniera e serviva per riempire i vuoti lasciati dallo zolfo estratto. Un’altra parte di questo ginesi veniva utilizzata anche per lastricare le strade di accesso alla miniera, e addirittura ne fu proposto largo uso per la pavimentazione di strade vere e proprie nel territorio isolano, date le sue buone proprietà leganti ed il suo basso costo” (Filippo Cannistraro, La questione zolfifera nel secondo dopoguerra, Agrigento, 1990, pp.27-28).
Molti sostenevano che la vera ragione delle periodiche crisi a cui l’industria dello zolfo era soggetta in provincia erano da ricercarsi nei cattivi metodi di estrazione, nella quantità degli oneri che il proprietario spesso imponeva al gestore della miniera, nelle spese dovute ai trasporti. Ma ben poco si faceva. Si osservava giustamente che, quando il dazio era di una lira al quintale, il trasporto da Lercara a Palermo costava ben due lire e quaranta centesimi. Tuttavia, quelle strade ferrate che, congiungendo i maggiori centri zolfiferi di Agrigento e Caltanissetta con i porti d’imbarco, avrebbero potuto ridurre di molto la spesa, venivano costruite assai lentamente o non venivano costruite affatto.
Nel gennaio 1867 il Consiglio Comunale di Girgenti chiese al governo di attivare i lavori ferroviari nella linea Girgenti-Palermo. Per molto tempo si temette che la linea ferrata avrebbe collegato Palermo a Catania per la via delle Caldare o per quella di Montedoro senza quindi arrivare a Girgenti e a Porto Empedocle. L’inaugurazione di un primo tratto di ferrovia tra Girgenti e Comitini, centro minerario, avvenne solo il 17 ottobre 1871.
miniera di santa luciaminiera di zolfo santa lucia
Il 29 giugno del 1876 giunse a Girgenti lo stesso ministro Zanardelli per valutare la situazione e finalmente dal 16 dicembre 1876 solo sei ore di treno separavano Girgenti da Palermo, mentre il 2 febbraio 1887 il Consiglio superiore dei lavori pubblici e il Consiglio di Stato approvarono il primo e il secondo tronco di una nuova linea da Aragona Caldare a Canicattì che attraversava numerosi centri minerari. I lavori vennero inaugurati dal ministro Perez il giorno 11 settembre 1881. La produzione dello zolfo in provincia di Agrigento subì sostanzialmente la stessa sorte dell’intero settore siciliano in quegli anni.
Nel 1830 lo zolfo che veniva prodotto in tutta la Sicilia ammontava a 65.000 tonnellate e si mantenne all’incirca su questi livelli sino al 1843, anno da cui ebbe inizio una veloce ascesa. Nel 1851 la produzione superò le 100.000 tonnellate e dieci anni dopo era a 150.000. Nel quinquennio 1867-73 la produzione media andò poco oltre le 180.000 tonnellate. Per quanto riguarda il prezzo invece esso era di L.120,40 per tonnellata nel 1851, al momento in cui esso veniva venduto nei porti d’imbarco. Ma nel decennio successivo il prezzo andò diminuendo per arrivare a L.70 nel 1855 e poi risalire nel 1859 quando una tonnellata veniva venduta a L.140. Soprattutto dal 1870 tornò ad oscillare variando da L.120 a L.140 sino al 1880 quando cominciò a scendere sotto la soglia delle L.100 per arrivare nel 1889 a L.65,36. Nel 1892 riprendeva fiato salendo a L.95,17 (queste cifre sono tratte dalla relazione del Regio Corpo delle miniere, pubblicata per cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1893).
Per quanto concerne poi il contratto di lavoro nell’industria mineraria in provincia di Girgenti alla fine del secolo la misura del salario era così determinata, secondo il rapporto della Camera di Commercio ed Arti di Girgenti: “Si usa dare a cottimo ogni specie di lavoro separatamente, e così si determina la mercede: per la estirpazione, estrazione e catastazione del minerale; per il carico dei calcheroni; per la fusione; per lo scarico dei calcheroni. Si usa pure dare a cottimo (ossia a partito) l’esecuzione di tutti i lavori di produzione ad una o più persone cui si dà il compenso che varia da L. 3,50 a L. 5,50 per ogni carico di zolfo fuso, composto di rotoli 152 siciliani, pari a chilogrammi 120,550.
Il cottimista poi a sua volta dà anche a cottimo alcuni dei detti lavori, e riserba di far eseguire da operai a giornata, quelli che gli riesce agevole di sorvegliare.
La misura delle mercedi e dei salarii segue con legge costante il prezzo dello zolfo in comune commercio. Epperò quando il prezzo dello zolfo è alto, i lavoranti nelle miniere sono trattati meglio che gli operai e i lavoranti in tutte le altre industrie, compresa l’agraria. Il pagamento delle mercedi e dei salari si fa ogni quindici giorni e talvolta a periodi lunghi, a seconda si tratta con cottimisti e lavoranti a giornata” (Regia Camera di Commercio e Arti della provincia di Girgenti, Condizioni delle classi lavoratrici nelle provincie di Girgenti, Girgenti, 1893,p.13).
Il documento però non si esprime sul contratto di lavoro stipulato con i carusi, quei fanciulli con meno di dodici anni impiegati nelle miniere di zolfo per otto e anche dieci ore al giorno in condizioni che conosciamo molto bene perché la letteratura sul loro conto è ampia e conosciuta.
Ad Agrigento già nel 1863 il Prefetto Carlo Bosi per sollecitare i padroni delle miniere a introdurre le macchine per l’estrazione del minerale ricordava “l’improba fatica” di quei ragazzi, “che nuoce al loro sviluppo e altera la loro fisica costituzione, in guisa che gli zolfatari muojono giovani ancora” (Consiglio provinciale di Girgenti, atti dei lavori del 1864,p.13).
Anche l’inchiesta parlamentare Sonnino del 1876 rilevava che i fanciulli nelle miniere “percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate con pendenze talora ripidissime…Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute e senza pericolo di storpiarsi” (Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, La Sicilia nel 1876, Firenze, 1925, pp.349-350).
Con un certo raccapriccio leggiamo anche la relazione del 1880 di un medico di Girgenti al consiglio sanitario: “I modi che gli imprenditori di questi fanciulli (n.d.r. che erano i picconieri) adoperano per sollecitarli nel trasporto dello zolfo sono dapprima i più crudeli pizzicotti, tali da lasciare nelle carni delle livide suggellature per molti giorni; poscia, quando questi non bastano bruciano, o fanno bruciare dai commessi, per mezzo delle lucerne accese i garretti o i polpacci delle gambe dei poveri fanciulli sino a produrre delle scottature sulla cute. Io sono stato chiamato parecchie volte dagli istruttori e dai pretori per riferire sulla natura e sulla causa di siffatte maniere di violenze. Io ne posso fare testimonianza” (documento citato in Luigi Valenti, Le miniere di zolfo in Sicilia, Torino, 1925, p.79).
Tra le fonti principali che possono meglio delineare le condizioni di vita materiale di questi disgraziati ragazzi che lavoravano nelle miniere agrigentine troviamo l’inchiesta disposta dal Prefetto di Girgenti nel 1881 realizzata attraverso l’ispezione di 72 miniere della provincia. Il più alto numero di lavoranti nelle miniere – come si può rilevare dall’allegato 2 – era costituito da carusi, per lo più di età compresa tra i 7 e i 20 anni. Ben 2626 su 3875 operai contati nelle 72 miniere prese in esame. ” le loro condizioni igieniche, economiche e morali sono delle più infelici – si legge nell’inchiesta – La media del salario giornaliero non raggiunge la lira” (Vittorio Savorini, Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo e degli agricoltori nella provincia di Girgenti, Girgenti, 1882, pp.12-13).
Ma si tratta di un salario nominale perché da esso “lo spirito d’ingordigia e di usura dei picconieri, dei capi mastri, e spesso anche degl’imprenditori di solfare fanno delle enormi sottrazioni” (Ibidem). Viene inoltre spiegato dettagliatamente il famigerato metodo del soccorso morto, attraverso cui il caruso veniva ingaggiato: “E’ esso, sotto lo aspetto di un anticipo di lire cento, duecento, trecento sborsato dal picconiere nell’atto di arruolare un caruso, una vera e propria compera del fanciullo, perché esso soccorso morto è quasi sempre dato ai genitori dei fanciulli, e massimamente se questi sono minorenni” (Ivi, p.14).
Nelle miniere si trovavano anche alcune donne, poche in verità, impiegate al trasporto degli zolfi dalla bocca della zolfara alla catasta del minerale. Si tratta soprattutto di giovani dai 9 ai 16 anni, molto spesso a contatto con operai che in genere sono nudi o seminudi. ma anche gli altri rapporti di lavoro erano caratterizzati da bieco sfruttamento. Il rapporto principale era quello che veniva fatto per una squadra di operai con un sistema di compenso a cottimo. “L’esercente della miniera dava in cottimo il lavoro di estrazione di una sezione della miniera a chi disponeva di qualche migliaio di lire ed era in grado di formarsi una “ciurma”, una squadra cioè di un certo numero di picconieri e di carusi”, osserva lo storico Salvatore Francesco Romano.
Il picconiere riceveva il salario in base ad ogni cassa di minerale estirpato. “La paga veniva spesso, soprattutto nelle miniere della provincia di Girgenti, ogni tre o quattro mesi” (S.F. Romano). Durante questi mesi gli operai erano costretti a fare appello alla bontà dei gabelloti per qualche aiuto in denaro o per poter prendere gli alimenti di prima necessità dalle botteghe presso le miniere che gli industriali avevano aperto ovunque, sia per evitare che i minatori perdessero tempo per andare ad acquistare i generi alimentari in botteghe lontane; sia per ricavare ancora denaro con lo strozzinaggio praticato nella vendita a prezzi molto elevati : l’olio costava 30 o 40 centesimi in più del prezzo corrente nelle altre botteghe di paese. Quindi il lavoratore era perennemente in debito verso il proprietario. Inutile forse aggiungere che il picconiere non godeva di alcun diritto al riposo, che abitava in miseri alloggi presso la miniera perché questa distava spesso molti chilometri dai centri abitati, che non v’erano leggi che lo proteggevano dalle disgrazie, non era assicurato sul lavoro e che l’ambiente della miniera era generalmente ambiguo e “misterioso”, quasi fatto apposta per coprire il delitto e ognuno provvedeva da sé quando voleva ottenere giustizia.
di Elio Di Bella