Il Settecento siciliano s’apre nei primi vent’anni (1713 – 18) con una serie di conflitti e di lacerazioni interne al Regno di Sicilia determinati dal secolare problema dell’Apostolica legazia (antico privilegio concesso dal Papa Urbano secondo nel 1097 ai Normanni e ai successori che da allora si considerarono legati del pontefice e quindi rappresentanti diretti) che pose ancora una volta di fronte il clero siciliano (protetto dalla Curia romana e aspirante alla autonomia) e la monarchia, il cui tribunale rivendicava la supremazia giurisdizionale e l’autorità del re nei confronti del clero siciliano.
Nel corso degli anni successivi, che vedono la Sicilia passare da Vittorio Amedeo II di Savoia – dopo l’attacco mosso dalla Spagna di Filippo V all’isola per tentarne la riconquista della pace dell’Aia – all’imperatore austriaco Carlo VI, doveva essere ancora viva l’eco dei gravi fatti della “controversia liparitana” che scoppiò il 22 gennaio 1711, creando scissioni all’interno del clero siciliano che fu in parte colpito da scomunica e parte costretto dal tribunale della monarchia ad evacuare la Sicilia per Roma.
I vescovi di Girgenti Ramirez e di Mazara guidati dal Riggio vescovo di Catania si rifiutarono di sottoporre ad “exequatur regio” le lettere pontificie per cui subirono l’espulsione dall’Isola, e, prima di partire, lanciarono l’interdetto sulle loro diocesi (Lipari era l’unica diocesi siciliana che ricevesse il vescovo di nomina pontificia. L’incidente sorse in modo banale: sequestro da parte degli ufficiali daziari di ceci appartenente al vescovo).
Il braccio di ferro tra la monarchia e la Chiesa attirò l’attenzione internazionale sulla situazione siciliana creando anche una nuova coscienza cattolica attraverso dibattiti culturali (particolarmente importante quello tra curialisti e anticurialisti) che denotano il bisogno del nuovo pur tra vecchie polemiche ed esprimono fermenti culturali tipici di un’età di transizione.
Il viceré Maffei e Ludovico Antonio Muratori sono tre personaggi di spicco tra quelli che avviarono quest’opera di svecchiamento della cultura siciliana con la creazione di importanti accademie tra cui quella del buon costume e quella di Giustinianea.
Il bisogno del nuovo si esprime attraverso il tentativo di sprovincializzare la cultura isolana e di inserirla nel circuito europeo, agganciandola alle correnti più vive di pensiero che, muovendo dal cartesianesimo, sviluppano tematiche connesse con la religiosità diversa (giansenismo), in un contesto economico e sociale ancora immobile, in cui classi dirigenti, baroni clero, restavano sostanzialmente su posizioni di rigido tradizionalismo.
I baroni – dice il Titoni – si lasciarono quietamente dominare, paghi di essere lasciati tranquilli senza però mostrare alcun desiderio di prendere parte attiva alla politica, alle guerre, alle conquiste di Spagna.
Il fermento culturale toccò diversi settori del sapere giuridico (la polemica curialisti ed anticurialisti) religioso, filosofico, scientifico: Michele Fardella trapanese entrò in contatto con la cultura cartesiana e fu amico dei portorealisti. Ma ricordiamo anche il Campailla autore di un poema filosofico in ottave “l’Adamo ovvero il mondo creato”, la cui opera è da ascrivere ai primi vent’anni del secolo, che fu seguace e divulgatore della filosofia cartesiana. Non è da sottovalutare tuttavia la presenza di una consistente cultura isolana di stampo inglese attivata dall’interesse che parecchi intellettuali inglesi dimostrarono per l’isola; valga per tutti il Brydon nella seconda metà del secolo. La cultura inglese rappresenterà per i più progressisti della classe dirigente isolana la possibilità di conciliare “tradizione modernità” ed un efficace antidoto contro le idee rivoluzionarie francesi, ma essa “consentiva” secondo il De Stefano “di sceglierne gli elementi che sembravano più adatti al progresso materiale e morale, di preparare l’innesto del liberalismo e del costituzionalismo inglese sul vecchio ceppo della costituzione siciliana e sulla nascente pianticina del liberalismo isolano”.
Tale tentativo di rinnovamento fu però opera d’una ristretta elite intellettuale che l’ambiente costrinse spesso ad emigrare altrove. Ma se in parte il seme del razionalismo e dell’eresia (bloccata nel secolo precedente dall’ondata contro riformistica) innescava un processo di rinnovamento anche all’interno degli ambienti cattolici, la cui intellettualità più aperta si imponeva ormai il bisogno di verifiche, la società e la cultura sostanzialmente restavano dominate dall’astrattismo ideologico – scolastico dei Gesuiti che, attraverso il monopolio dell’istruzione dell’educazione dei giovani, perpetuavano “un’alienazione” dal mondo funzionale al potere politico del clero.
Lo Scinà che registrava peraltro il mutamento del gusto, la nuova spiritualità, la tendenza degli studiosi ecclesiastici che bandita la barbarie delle scuole, pigliavansi annoia la teologia contenziosa”, non mancherà di notare che “tutto era polemica e tutto scolastica e si facean dispute non già per lo dogma o per i precetti della morale ma per gli umani pensamenti che spregiavano o imbrattavano la divina dottrina di Gesù Cristo”.
Il clero e gli ordini religiosi erano tutti divisi in partiti e fazioni, i “nomi si onoravano di quei che ostinatamente tra loro pugnavano”.
Famose furono nella prima metà del secolo le polemiche dei gesuiti siciliani con i domenicani ed in seguito con i benedettini difensori della dottrina agostiniana tra cui G. Evangelista Di Blasi, insieme al Rosario Gregorio ed al Balsamo, era tra le figure di eruditi, storici e sociologi attenti alla realtà politica isolana e fautori di un rinnovamento anche religioso.
In quegli stessi anni Agostino de Cosmi, sacerdote, osservava il sistema pedagogico gesuitico fondato sull’esercizio mnemonico e sosteneva energicamente la diffusione dell’istruzione fra le classi più arretrate.
La classe intellettuale ecclesiastica isolana nella prima metà del Settecento in Sicilia cominciava ad operare in senso critico proiettandosi all’ideologia del progresso che inevitabilmente portava a rifiutare le sottigliezze teologiche dei Gesuiti e le loro dispute inopportune.
All’interno di questo movimento si colloca nella zona dell’agrigentino il domenicano Antonio Marullo del seminario di Girgenti.
Come si può comprendere i Gesuiti tentarono di esercitare ancora agli inizi del secolo un’azione di freno sui nuovi stimoli culturali, intrigando disputando ed avviando indirettamente al rifiuto ed alla miscredenza gli intellettuali più vivaci ed accorti. Il loro monopolio sulle scuole sulla cultura siciliana, incrinatosi già nel 1728 per l’apertura delle scuole dei Teatini a Palermo, promotori di un insegnamento più aperto, finirà con la loro espulsione nel 1767.
Ma ritornando alle vicende storiche, l’imperatore Carlo VI, conclusa la vertenza con la Chiesa, riportò al clima da “ancien regime”, approfittando della morte di Clemente XI, il papa dell’interdetto. Con la “concordia benedettina”, il Papa Benedetto XIII nel 1729 riconfermava l’Apostolica Legazia ed il tribunale della monarchia.
Il Giarrizzo sottolinea come, nonostante il dominio austriaco sfiori con una politica riformista il settore economico e quello amministrativo sul terreno più rischioso della vita religiosa e della mentalità collettiva, l’eredità spagnola è stata più tenace”.
Esemplarità d’ortodossia e rigore dottrinale vorrà ancora manifestare la Santa inquisizione protetta in quegli anni non più dalla corte di Madrid ma di Vienna, esibendosi in una delle ultime scenografie degli “autos da fè” tanto lodati dal canonico palermitano Antonino Mongitore autore del famoso “diario”, che riconobbe al Sant’Uffizio il merito di avere separato la zizzania dal frumento e di aver apportato uno dei più pregevoli “benefizi comunicati dalla divina provvidenza del regno di Sicilia”. Ma anche per l’Inquisizione iniziava la parabola discendente che avrebbe portato alla sua abolizione nel 1782 e alla fine delle procedure straordinarie concorrenti rispetto a quelle dei tribunali ordinari.
Molinismo e pietismo furono intanto le eresie del secolo più ferocemente represse durante la dominazione austriaca; nel 1724 in cui furono arsi vivi suor Geltrude Maria Cordovana e fra Romualdo con uno spettacolare “atto di fede”. E’ l’anno che segna la recrudescenza del fenomeno repressivo all’interno di un quadro politico di normalizzazione nei rapporti tra Stato e Chiesa. “Per poter pubblicamente eseguire come riusciva il meglio un atto di fede”- scrive il Giannone – “si risolvette dall’inquisizione di farlo più tragico ed orrendo a bruciar vivi due miserabili scimuniti, ai quali una oscura e stretta prigione di venti anni aveva fatto perdere il cervello e renduti matti spediti ed insanabili”. L’inquisizione continuava a giudicare casi sospetti di stregoneria, commercio col demonio, poligamia, ma soprattutto sottili distorsioni della dottrina cattolica. Vittime dell’inquisizione saranno in quegli anni regolari benedettini (suor Geltrude) riformati scalzi (frate Romualdo di Sant’Agostino) cappuccini (nel 1718 in effigie era stata bruciata la statua del predicatore cappuccino Alessandro Emanuele di Carini e nel 1731 anno dell’ultima auto da fé con rogo un altro cappuccino Michele Rappino, chiamato frate illuminato da Spaccaforno, fuggito dalle prigioni del Sant’Uffizio).
Il periodo borbonico, apertosi con la venuta di Carlo III dopo la guerra di successione polacca, aveva aperto prospettive riformistica ma all’interno di una situazione molto confusa nell’isola che si trovava a far parte ora del Regno delle due Sicilie e teoricamente in una posizione subordinata rispetto al periodo precedente.
La politica borbonica è caratterizzata dal dualismo derivante dalla volontà da una parte di costruire una monarchia centrata che eliminasse vecchi centri di potere, dall’altro dall’impegno del re di salvaguardare la situazione istituzionale vigente. Si trattava di andare allo scontro con baroni e clero e su questo terreno il riformismo si arrestò”. Permangono dunque le vecchie strutture, i vecchi centri di potere, le vecchie compromissioni, perché nonostante i fermenti e le aspirazione rinnovamento non si formò un ceto emergente in grado di sviluppare un’analisi critica del sociale che riscuotesse anche le istituzioni politiche. La pubblicistica del tempo rivela chiaramente questa duplicità ed ambivalenza delle tendenze culturali all’interno dell’attività di editori e stampatori che tentano di spostare i loro interessi dai vecchi modelli “condizionati dalla cattolicità come mondo totalizzante totalitario” verso forme di laicismo di dimensione internazionale. Che il mercato librario fosse invaso da libri stranieri, appare dalla pastorale dell’arcivescovo di Palermo Serafino Filangeri che nel 1770 denunciava che “libri pericolosi” fossero accessibili ad ecclesiastici, nobili e plebei e che persino le donne ne facessero “la loro donnesca occupazione”. Pare che le donne nella seconda metà del settecento fossero in grado di leggere e commentare “ai loro cavalier serventi”, i cosiddetti cicisbei, opere ed autori stranieri; la conferma viene dai versi del Meli sulla villeggiatura: “c’è Voltaire, Rousseau, la signorina li capisci tutti sti libbra ch’aiu dittu ?”.
Paradossalmente si produce all’interno della classe intellettuale dell’Isola un fenomeno culturale derivato dalla compresenza di atteggiamenti ora confessionisti ora innovatori, per cui avremo ecclesiastici libertini educati al cicisbeismo , e laici non del tutto liberi da atteggiamento di tipo confessionale, tra cui il Giannone e il Sarri che, pur partendo dalle posizioni giurisdizionalistiche di Grozio e Pudendorf, finivano per accettare acriticamente “la civiltà cattolica”.
È indubbio comunque che l’espulsione Gesuiti, l’abolizione dell’inquisizione ma anche la parziale liberalizzazione della stampa ad opera della politica del viceré Caracciolo e poi del Caramanico, abbia aperto il varco ad un rinnovamento illuministico attuato attraverso il consenso di intellettuali quali il Rossi, Guerra, F. Paolo di Blasi.
Inoltre lettere ed arti cominciarono ad essere espressione di denuncia di una realtà sociale arretrata che l’istituzione delle scuole normali ad opera del De Cosmi, proiettava in un futuro meno oscuro. Ma passando all’ambito generale della cultura a quello specificatamente letterario, già a partire dalla seconda metà del secolo, testimonianze di grande vitalità vengono dalle dissertazioni e dalle varie pubblicazione dei soci delle accademie, delle pubbliche librerie e dalle opere periodiche che si stampavano. Su questo sfondo si apre il panorama dell’Arcadia. L’Arcadia siciliana va inserita però nel quadro di questa revisione resa possibile dall’attenzione verso le Arcadie regionali, espressioni di “particolari condizioni ambientali e storico – culturali” e di una indagine verticale intorno ad esse. L’interesse dei letterati siciliani per l’Arcadia romana risponde non solo alla necessità di un rinnovamento del gusto e dell’esercizio stilistico contrapposto al barocco, ma anche al bisogno di porsi in modo eticamente diverso nei confronti della realtà sociale. È possibile oggi analizzare con maggiore obiettività che nel passato la letteratura dell’Arcadia siciliana considerata al di là della dimensione fittizia delle “bambolerie” e delle “astorellerie” che sembravano connotarla in modo determinante come espressione d’un modo più civile di porsi di fronte alla realtà e come il bisogno di agganciarsi ad essa.