La sera del 3 febbraio 1893, il Comm. Emanuele Notarbartolo fu ucciso in treno mentre viaggiava da Termini a Palermo. Il cadavere che era stato buttato dal treno subito dopo la Galleria di San Nicola l’Arena fu trovato I’indomani, e portava i segni di numerose pugnalate; portavano traccia di pugnalate anche le mani, per l’energica difesa tentata dal Notarbartolo contro gli assassini.
Sin dalle prime indagini, malgrado ufficialmente si prospettasse la tesi di un omicidio per rapina, apparve evidente che il Notarbartolo era stato ucciso per vendetta e che il delitto era opera della mafia, la quale aveva voluto colpire colui che, nella direzione del Banco di Sicilia, aveva posto termine a tutta una serie di maneggi intesi a farne strumento di privati interessi. La voce pubblica non tardò ad individuare il mandante in Raffaele Palizzolo, deputato al Parlamento, esponente del partito autonomista, e capo riconosciuto della mafia dell’agro palermitano. Egli, avvalendosi della sua posizione politica e della sua qualità di membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, aveva effettuato operatomi di borsa e di sconto, dalle quali aveva ricavato ingenti profitti: a queste operazioni aveva posto termine il Notarbartolo, ma il Palizzolo era riuscito a farlo esonerare dalla carica tornando a spadroneggiare nel consiglio d’amministrazione del Banco.
Dopo la caduta del ministero Crispi e in seguito allo scoppio degli scandali bancari, si era profilata la possibilità di un ritorno del Notarbartolo alla direzione del Banco sicchè la sua eliminazione s’imponeva, sia per togliere di mezzo un testimone pericoloso delle passate attività degli elementi mafiosi, sia per evitare il pericolo di un ritorno a sani criteri amministrativi nel massimo istituto bancario siciliano.
L’istruttoria dell’omicidio durò sei anni e come apparve chiaro in seguito, fu deliberatamente avviata a coprire ogni responsabilità degli esponenti della mafia; si chiuse, infine, con il rinvio a giudizio dei ferrovieri Carollo e Garufì; il processo, per suspicione avanzata dal Procuratore del Re, fu destinato alle Assise di Milano, dove subito inizio nel novembre del 1899, e dove, in seguito alle rivelazioni determinate dal fermo atteggiamento dei giudici e della parte civile, si trasformò in una vera e propria istruzione pubblica contro Palizzolo indicato come mandante, e contro Giuseppe Fontana, come esecutore del delitto. I retroscena dell’assassinio furono illustrati dal figlio della vittima, Leopoldo, il quale era allora ufficiale di marina, ma non fu tanto la sua deposizione a consolidare l’accusa, quanto la scoperta della complicità di pollala e magistratura, che avevano fatto a gara, durante l’istruttoria, per deviare il processo e occultare le prove.
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