Il culto “delle Armi Santi Decollati” trova nell’isola nostra grande fervore e venerazione. Molti centri hanno una cappella votiva dedicata alla memoria dei trapassati per morte violenta. Questa devozione, trova la sua mistica essenza nel concetto che l’anima violentemente strappata dal corpo vitale, magari in cerca della pace interna e pertanto le preghiere di suffragio degli aderenti a questo punto, aiutano gli spiriti ed apprezzano la pace in seno al creatore.
Anche Canicattì, la terra baronale dei principi Bonanno della cattolica, lungo la trazzera regia che conduce in contrada scala, a una piccola cappella detta “delle Armi Santi Decollati” dove ogni lunedì vengono effettuati i “viaggi” da parte di coloro i quali chiedono una grazia alle anime di questi trapassati. Per quanto affievolita, questa tradizione ancora largamente diffuso usa in molti comuni in particolare in Val di Mazara. a Palermo la pia opera delle anime sante dei corpi decollati, eresse una chiesa presso il ponte dell’ammiraglio.
Fred devoti, potremmo dire tre fanatici del culto “delle Armi Santi Decollati” spicca la figura di “masciu” Caloiru Bichino vissuta in Canicattì nel XVIII secolo. Aveva temperamento tendenze artistiche, si era specializzato nello scolpire con fattura personalissima e caratteristica Cristi morenti usando come materia prima ossa umane e in particolare, ossa appartenenti ai corpi dei giustiziati nel pensiero del macabro scultore, il fatto di trasformare la materia in un simulacro, aiutava l’anima del giustiziato a trovare riposo in eterno.
Un altro fattore militava a favore dell’originale artigiano, la facilità con la quale egli poteva procurarsi le ossa, strappandola i cadaveri. Masciu Caloiru Bichimo aveva il ruolo di portatore ufficiale dei morti nel comune di Canicattì.
A quei tempi, in Sicilia, il trasporto dei cadaveri si faceva spalla, una sedia speciale a forma di zaino con cinghie veniva collocata sul groppone del “pratico” addetto, mentre altre larghe fasce mantenevano il cadavere seduto, durante il breve percorso e cioè sino alla parrocchia del quartiere. L’ultimo portatore ufficiale del Comune di Canicattì fu Diego di Lucia, inteso “Librino” morto verso il 1870.
Il mese di maggio 1727 segnò per Mascio Caloiro Bichino il periodo più intenso della sua morbosa passione: per ordine di S. M. cattolica Carlo III di Borbone, fu eletto vicario per tutto il regno di Sicilia S. E. Don Francesco Bonanno principe di Roccafiorita e della Cattolica, barone padrone della terra di Canicattì con l’Alter Ego, per estirpare i lati grassatori taglieggiavano cavalieri e cittadini.
Il principe aveva posto il suo quartiere generale nel suo castello da Palermo aveva portato 25 “visari a cavallo” comandati da un tenente colonnello. Era pure del seguito il signor Don Francesco gravina, giudice della reggia Franco per presiedere ai processi le condanne.
Fra gli altri predoni ne furono presi sette dei più temibili rispondevano ai nomi Don Raimondo Sferlazza, capo bandito, chierico diacono delli Grutti, Don Sigismondo Lauretta di Aragona, Antonio Cacciatore di Girgenti, Francesco Borsellino di Girgenti, Michele Pirricuni di Castrogiovanni, Mastro Giuseppe Chiaramonte di Castrogiovanni.
I malfattori furono rinchiusi nelle carceri del Castello. Nella grande sala d’armi subirono il processo e furono condannati per omicidi e grassazioni alla forza.
Due confraternite ebbero il triste e pietoso compito di assistere i miserandi condannati: quella della SS. Vergine delle Grazie o dei Bianchi, fondata a Canicattì con sede nella Chiesa Santa Rosalia e quella di Maria SS. Degli Agonizzanti con sede nella Chiesa omonima fondata nell’anno 1634 con bolla di monsignor Francesco Traina Vescovo di Girgenti.
I fratelli della Grazia o dei Bianchi presero per tre giorni sotto la loro cura i sette condannati e li portarono in cappella per prepararli ad una santa morte, mentre i confrati degli agonizzanti fecero un triduo a proprie spese, esponendo il SS. Sacramento con prediche e concorso di tutto il popolo e misero nella piazza principale (oggi Piazza 4 novembre) lo stendardo della Confraternita come monito e foriero della imminente esecuzione.
Masciu Caloiru Bichinu faceva la spola fra i due oratori, si interessava all’andamento generale della cosa, al comportamento dei condannati e auspicava alla loro salvezza eterna e al loro esterno riposo. Contemporaneamente aveva messi in vista e puliti tutti i ferri del mestiere.
Da bravo e appassionato artigiano, si preparava al lavoro straordinario. Gli scalpellini, le lime, le seghe e tutto il resto era stato tirato fuori dalle “coffe” (ceste per arnesi) anche le vernici e pennelli erano pronti. Lavoro eccezionale spirito di equità, poiché nella mente del fanatico ogni cadavere di giustiziato aveva il diritto almeno di un Cristo ricavato ed elaborato dalle sue ossa.
I confrati di Maria Santissima degli agonizzanti, sacerdoti secolari, venuto il momento, presi in consegna i sette pazienti portarono la “catenella” ai condannati, scrivendoli nel libro dei fratelli del “grano”, per farli partecipi di tutte le indulgenze che la loro chiesa godeva sin dalla fondazione. Dopo averli professati con la solita orazione, tutti i confrati abbracciarono teneramente ogni condannato. Dei sette ministeri, tre furono afforcati e quattro furono strangolati, secondo le loro prerogative sociali e secondo le condanne.
La confraternita di Maria Santissima delle grazie mandò come era suo compito e quattro fratelli “recordanti”: reverendo Fra Giovanni Testasecco, carmelitano, ex provinciale; Don Gaspare cascio, don Gaspare Palumbo e il sacerdote Nobile Uomo don Rosario Alliata, mansionario della Matrice.
Una terza confraternita, la congregazione di San Giuseppe, iniziò per le vie una questua da servire per la celebrazione di sante messe in suffragio delle anime dei murituri. Il superiore degli agonizzanti non tollerò questa intromissione, né gradì l’iniziativa, sottoponendo la cosa a Sua eccellenza il castellano Don Francesco della cattolica che, consultati gli statuti delle due confraternite, decretò che la congregazione di San Giuseppe può solo occuparsi dei bisogni corporali (sic) e che spetta ai fratelli degli agonizzanti occuparsi dell’anima dei condannati e non del corpo e se questua ci doveva essere sarebbe stata cura e prerogativa degli addetti agli agonizzanti.
Mentre poveri condannati venivano portati alla forca e venivano strangolati, molti dei congregati con i “coppi” per l’elemosina questua davano per le pubbliche strade e dei proventi si fecero celebrare sante messe affinché il signore potesse accettare le fatiche e le attenzioni dei devoti confrati che si cooperavano per il decoro della congregazione ed in suffragio di quelle povere anime che Dio le abbia in cielo.
Così si amministrava la giustizia a quei tempi, la coreografia, i neri cappucci, i lugubri rintocchi, le pubbliche esecuzioni, servivano di esempio venivano poi tramandati infatti i particolari dalle generazioni che temevano e ubbidivano all’autorità costituita.
Il boia, venuto da Palermo a seguito del vicario Regio, eseguì le tendenze dando la precedenza agli inforcati che furono tre addì 5 maggio 1727, strangolandone quattro addì 17 maggio 1727 i corpi dei giustiziati furono sepolti nella chiesa di San Calogero.
Masciu Caloiru Bichino iniziò poco dopo il suo paziente lavoro, inondo la terra Canicattì di Cristi ossei ricavati preferibilmente dagli arti inferiori, cristi che regalava gli abbienti e ai devoti del culto dell’Armi santi decollati
Fausto di Renda pseudonimo del barone canicattinese Agostino La Lomia, Giornale di Sicilia 24 giugno 1952