Santo Calogero era rimasto nell’ombra della Chiesa, nero, barbuto, crucciato, sopra la bara inghirlandata di lampadelle rosse e verdi, col vestito nero, lustro di vernice fresca, ornato da lamine di argento sbalzato, a fiori, e lo smalto della sclerotica bianchissimo; tutto a vederlo, pareva un idolo barbarico o un reliquiario limosino troppo cotto, assai strano, certo per quel contrasto di pallido argento e quel nero di pece dell’«arsinal dei viniziani».
Dopo la processione del mattino l’avevano lasciato solo nel santuario della chiesa di S. Agostino, lungo quel corso fiancheggiato da conventi l’un dopo l’altro in tufo carnicino interrotto dalle stradette laterali, senza selciato, a ciottoli, come torrentelli asciutti in quella grande arsura. Per bere un sorso di vinello aspriccio e per allinearsi i pellegrini, dietro la porta sulla gradinata del convento a chiedere acqua a suor Celeste.
I pellegrini venivano da tutto l’agrigentado, perché se il Santo si onorava per ogni dove, solo quello di Naro era il miracoloso, il tocca e sana, ma toccarlo forte si doveva, anzi, stropicciarlo forte senza rispetto e con lo stesso fazzoletto fasciarsi la parte malata o baciarlo: non miracolava insomma per semplice preghiera o per via di acque, miracolava con il suo corpo lustro, nero come nessun altro scultore gli aveva fatto e per quel nero eccessivo gli aveva conferito un aspetto stranissimo, etiopico pareva, ma pieno di cristianissima bontà.
Le offerte fioccavano ed erano specialmente di ceri lunghi, gialli, flosci; fatti dalle monachelle stesse di ogni paese, girando intorno alle fiammate nere e gialle, come incubi del Magnasco; o erano pani scuri, odorosi dell’ultimo grano, il prediletto, essendo a giugno della prima messe.
Gli ex voto
I pani avevano la forma dell’arto miracolato: certe mammelle enormi, che parevano frammenti delle statue immense della Mater Matuta, certi ventri gonfi con l’ombelico segnato a centro, mani e piedi, cosce fatti di pane, per due volte quindi legate all’uomo e alla sua fatica più sacra.
Li portavano avvolti in pannolino bianco e casto come un perizoma intorno al Bambinetto Gesù; li deponevano sul tavolo della sacrestia oppure li tenevano in grembo coperti dallo scialle nerissimo, fino a che veniva il turno traendolo poi con un gesto timido e arrossendo, se erano donne giovani. Il prete, dietro il tavolo, alto e con occhi da condottiero, pareva un S. Simone creato da Antonello: li riceveva con un coltellino acuminato da Turiddu o da compare Alfio dava un colpo secco sulla crosta; si aspettava il sangue da quell’arto colpito e veniva fuori invece un odore di lievito fresco e il bianco della mollica appariva con il colore di carne risparmiata dal sole sui campi.
Ma ora il Santo riposava nella solitudine della chiesa tutta parata presso l’altare da alberelli di cartone e colonnine nell’uso scenografico locale, per via di certi Vinci, decoratori narensi che dal settecento ad ora questo fanno, parati per chiese per i giorni fasti e per i giorni nefasti. E si poteva guardarlo bene in faccia e vedere l’opera, non il santo e chi fosse questo scultore anonimo, se agrigentino o trapanese, e chi fosse quell’orefice che la lamina d’argento aveva battuto martellato a fioroni larghi, sensuali come foglie di uva ad ottobre.
Veder un po’ tranquilli.
Ma nel silenzio ecco, le campanelle cominciarono a tinnire le une dietro le altre, le rosse, le verdi, le gialle poste a filari, a cerchio, intorno all’immagine del Santo: il Santo era immobile, ma era come se il suo respiro comunicasse un fremito alle cose, come un fluido elettrico, e ondate diventavano di colore e di suono.
Strano. Girammo indietro. E indietro, ecco, alle spalle del Santo c’era come una groppa nera e occhi sbucavano, due, quattro, otto, e mani e fazzoletti bianchi, su e giù per quel nero, un gruppo mobile, fatto di bimbi estasiati e violenti, che stropicciavano il santo come per lucidarlo in grande fretta e poi, subito il fazzoletto porgevano agli altri, e quelli agli altri che stavano giù curvi, a sostenerli sul dorso, e questi ratti, a stropicciarsi le gambe, a portarlo alla bocca, al viso.
il miracolo del bimbo muto
D’improvviso la porta della chiesa si spalancò entrò un’onda di luce; un pulviscolo denso, folla di gente. Grida: S. Calogero. Grida: S. Calogero. Un bimbetto muto, fra le braccia materne, non ascoltava, guardava intorno, stranito. E la folla continuava a dirgli: Grida, S. Calogero, grida, S. Calogero. Diventava rabbiosa, insistente, agitava il bambino come un salvadanaio capovolto perché ne uscisse la voce come un soldo conservato, la madre stessa lo picchiava al petto, agitata. Il gruppo nero dei bimbi si era fatto avanti, sbucavano dalle spalle del santo nell’ombra, come i genietti intorno all’eterno, nei quadri, guardavano, si unirono poi alla folla a gridare.
Il bimbo muto li guardò, come si guardano i bimbi, sospettosi dapprima, poi carezzevoli, alzò le manine, gridò: . . ogero, . . ogero. Un delirio. Fuori tutti. Il pulviscolo di oro fu solcato da ombre nere, agitate contro luce. Scomparvero. La porta rimase aperta. La luce entrava fino a metà della chiesa e le piastrelle verdi e gialle luccicavano.
Il santo era rimasto nell’ombra.
Maria Accascina, Giornale di Sicilia 5 Novembre 1938 – RICORDI NARENSI – IL SANTO NELL’OMBRA