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Le feste di San Calogero: religiosità e immigrazione

3 Novembre 2016 //  by Elio Di Bella

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di Antonino Frenda

La figura di San Calogero nell’Agrigentino è tutt’ora caratterizzata da oscillanti dislocazioni storico-religiose, territoriali ed “etniche” recentemente riattualizzate alla luce delle profonde trasformazioni operate dai flussi migratori e alla sempre più massiva presenza di migranti nel territorio.

Il caso specifico qui preso in esame prende sostanzialmente le mosse dal drammatico respingimento di clandestini avvenuto nel canale di Sicilia nel luglio 2009 che indusse l’Arcivescovo di Agrigento, la Caritas e gran parte dell’associazionismo laico e cattolico locale a una dura e ferma condanna attraverso una campagna di sensibilizzazione umanitaria e culturale.

Si è a questo proposito elaborata una conversione e rifunzionalizzazione dei modelli agiografico-devozionali tradizionalmente attribuiti al Santo eremita (in particolare il colore nero della pelle e le peregrinazioni tra Occidente e Oriente del Mediterraneo) nella condizione clandestina e migrante: questo atto di forte impatto simbolico si è ulteriormente concretizzato l’anno successivo a Favara con la partecipazione diretta ai festeggiamenti della prima domenica di agosto di giovani migranti del Burkina Faso e del Mali come portatori della vara di San Calogero.

Il caso emblematico della “migrantizzazione” del Santo nero nell’Agrigentino, pur ponendosi apparentemente sul piano evenemenziale delle politiche e delle strategie di prima accoglienza messe in campo dalle associazioni operanti nel territorio, ad uno sguardo antropologico si inserisce invece nel contesto più generale di quelle diversificate dinamiche di interazione simbolica tra religiosità tradizionale e contesti migranti che, da più parti, appaiono quale dato strutturale e strutturante del panorama antropologico-religioso dell’Isola.

Al riguardo, basta qui riportare quanto descritto alcuni anni fa da Fatima Giallombardo per il contesto palermitano:

«Così il mare di Vergine Maria, invece che il grande fiume, può accogliere la statuina di Ganesh a conclusione della grande festa mauriziana; monte Pellegrino ostentarsi come quell’altrove della natura selvaggia durante l’Erdelezi primaverile degli Zingari o come lo spazio delle ierofanie femminili per i Tamil che ogni domenica mattina ne risalgono la strada […]; a Santa Chiara possono celebrarsi libagioni funebri o il battesimo dei Ganesi; cibi locali possono sostituirsi a quelli canonici – come il riso acquistato al supermercato invece che quello appena raccolto nel Capodanno induista Tamil. Pochi esempi, ma fanno emergere come il nostro spazio venga di fatto filtrato e risignificato in rapporto alle esigenze della prassi rituali dei migranti.»(1)

Tali forme di ibridazioni sono tutt’altro che mere suggestioni etnografiche. Come ha notato tra gli altri Giovanni Filoramo (2), i processi migratori hanno fatto riscoprire la centralità dell’esperienza religiosa quale fattore culturale identificante di gruppi e comunità, esperienza che si concretizza sovente proprio negli spazi sacralizzati del rito, quando non nel tempo mitico delle vicende agiografiche come nel caso di San Calogero nello specifico. Tutto questo obbliga a riconsiderare la festa e la religiosità tradizionale siciliana nelle sue rinnovate e ritrovate capacità metamorfiche e metaforiche. L’irruzione di uomini, immagini e simboli “altri” nell’ordito delle trame festive riposiziona radicalmente il rapporto territoriale tradizionalmente istituito con il Santo: la presenza dei migranti in contesti festivi locali crea infatti nuovi campi di negoziazione simbolica che, se da un lato rimangono deputati alla ripetizione e “conservazione” dei saperi cerimoniali tradizionali locali – e le feste religiose tradizionali questo, di fatto, continuano a essere – dall’altro impongono letture osmotiche, dinamiche e attualizzanti su cui tracciare inedite prospettive di ricerca storico-antropologica e sperimentare nuovi incontri etnografici.

A tal proposito, la complessa vicenda cerimoniale e mitico-agiografica di Calogero eremita, Santo “nero” il cui diffuso radicamento nella religiosità tradizionale siciliana spinse Domenico Di Gregorio a evocare tout court il territorio agrigentino come il paese classico dei Calogeri, vanta una storia di lunga durata variamente percorsa da storici della Chiesa, agiografi e folkloristi, tutti egualmente intenti a stabilirne la magmatica provenienza geografica ed etnico-culturale. Cartagine, Calcedonia, Costantinopoli, la Sicilia bizantina e arabo-normanna, la pluralità ierofanica e cerimoniale dei Calogeri ancora frammentariamente percepita a livello folklorico, sono solo alcuni dei topoi storico-geografici di quel “mito mediterraneo” incorporato nella figura del Santo (3).

Le feste calogeriane, com’è noto, offrono un palinsesto irripetibile di queste sovrapposizioni: in esse traspaiono ancora arcaiche modalità rituali di matrice agraria dove il Santo nero, un tempo garante ctonio delle operazioni di mietitura, viene venerato ed effigiato attraverso l’offerta/lancio di particolari pani votivi (4). Emergono unitamente a ciò e non meno degne di nota, le forti connotazioni taumaturgiche attribuite a San Calogero e per le quali qualcuno ha ipotizzato, forse come contraltare alla “grecità” della sua arte iatrica, un rimando al marabutismo nordafricano in merito alla trasudazione e la raccolta concitata del sacro sudore emanato dall’effigie a scopi terapeutici (5).

Altri ancora, non meno efficacemente, hanno messo in relazione la marginalità etnica, culturale e territoriale della figura di San Calogero e di altri santi “neri” siciliani alle schiavitù e alle persecuzioni che imperversavano nel Mediterraneo in età moderna e che la Chiesa siciliana ha sapientemente formalizzato attraverso particolari pratiche di canonizzazione e strategie devozionali (6). Quest’ultima ipotesi appare sul piano del confronto storiografico assai stimolante se rapportata alle dinamiche della inventio contemporanea di un San Calogero migrante verso le coste agrigentine.

Realtà migranti e immaginario mitico-rituale tradizionale ruotano dunque e si agglutinano intorno alla “negritudine” del Santo agrigentino: dalle testimonianze pagano-cristiane e folkloriche sino ai numerosi progetti per l’integrazione e di prima accoglienza, ai convegni e ai film intitolati al Santo migrante, tutto questo è sufficiente a dimostrare come la figura del Santo eremita abbia incorporato e incorpori a più livelli le criticità territoriali, storico-religiose e culturali degli Agrigentini nei confronti dei popoli africani e del Mediterraneo.

Dal 2011 a Favara, lo sforzo congiunto di associazioni di promozione sociale come Omnia Academy unitamente alla Confraternita ha consentito l’ingresso di alcuni migranti del Mali e del Burkina Faso per condurre in processione la vara del Santo, cogliendo così non solo l’appello umanitario dell’arcivescovo di Agrigento ma, più in profondità, contribuendo a conferire un senso a spazi, tempi e uomini delle migrazioni attraverso la forma e il potere del rito.

Da quanto riportato sinteticamente da Erik, giovane burkinabè di etnia Moose da due anni residente a Favara dopo aver traversato la Libia di Gheddafi per richiedere asilo politico, “portare” San Calò ha significato e significa prevalentemente rendersi visibile ed essere riconosciuto dalla comunità locale, sentirsi in qualche maniera favarese, riappaesarsi in un contesto transnazionale e diasporico. Durante la festa di San Calogero a Favara Erik, così come altri migranti, contribuiscono non solo ad arricchire quella particolare umanità aggregante e ritualizzata che la festa garantisce, ma partecipano a quella incessante ricerca di identità che, probabilmente, si riconferma quale unico dato certo dell’epos umano e sacrale di San Calogero, un tempo nume “subalterno” dei contadini e dei tanti braccianti sfruttati nelle campagne agrigentine, oggi invece, Santo ritrovato dei migranti per tentare un possibile riscatto e una qualche integrazione.

Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013

Note

1 F. Giallombardo. Ritualità altre e mondo globale, in M. Giacomarra (a cura di) Isole. Minoranze, migranti, globalizzazione Palermo, Fondazione Ignazio Buttitta 2006, p. 212.

2 G. Filoramo, Che cosa è la religione. Temi, metodi, problemi, Torino Einaudi 2004, pp. 2-4.

3 cfr. A. Cusumano, Agrigento e san Calogero tra grecità e carnalità, in I. E. Buttitta, R. Perricone (a cura di) La forza dei simboli. Studi sulla religiosità popolare, Palermo, Folkstudio, 2000, pp. 85-89.

4 cfr.I. E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmo della festa, Roma, Meltemi,2006, pp. 244-246.

5 cfr. A. Amitrano Savarese, Sicilia antropologica. Percorsi culturali e profili etnostorici, Palermo Pubblisicula, 1990, pp. 88-89.

6 cfr. G. Fiume, Il Santo moro: i processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo (1594-1807), Milano, Franco Angeli 2002, pp.172-174.

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Categoria: Agrigento RaccontaTag: san calogero

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