L’impronta del mondo ebraico in Sicilia a tuttora radici forti e tende a rivitalizzare le attività sociali, culturali ed economiche della comunità.
Così, sospinti dell’Istituto internazionale di cultura ebraica “slm”, si è dato vita alla “carta delle judeche” per trasformare e valorizzare gli studi, le evenienze documentali archeologiche, di costume, di tradizioni della cultura giudaica. La “carta delle judeche” ha un solo significato: non far dimenticare che fino al 1492 la Sicilia era ampiamente popolata da comunità ebraiche, le quali, vivacizzando la vita dell’isola, hanno lasciato tracce profonde.
Facciamo un flash back. La storia del giudaismo che fiorì per lunghi secoli nella terra del triangolo è, certamente, poco conosciuta. Dei documenti provenienti dalla Geniza del Cairo si apprende, ad esempio, che nell’878, durante la conquista musulmana di Siracusa, alcuni ebrei furono catturati e condotti a Palermo, dove la locale comunità provvide al loro riscatto. Subito dopo, una parte di loro riuscì a salpare per Agrigento. Ma di questi primi insediamenti ebraici si hanno scarse e frammentarie notizie. Un interessante ricerca è stata condotta nel 1866 da Giuseppe Picone. Annota lo studioso in “Memorie storiche agrigentine”: “ fu da me scritto… Che forse tra il 170 il 178 dopo Cristo, una colonia di ebrei fosse venuta ad abitare ad Agrigento, dopo la catastrofe di Gerusalemme e lo sbandemento di quella misera nazione, che numerosi fossero stati gli ebrei nella città nostra nel secolo sesto, e che moltissimi fra essi si fossero convertiti alla fede, per opera del nostro San Gregorio secondo”.
Da una nota archivistica apprendiamo che nel 1279, su mandato di Carlo I d’Angiò, l’ebreo Farag Ben Salem di Agrigento tradusse in latino un’opera di medicina, il “Kitab al-Zaharawi” di Al-Razi. Si tratta di cinque interessanti volumi sulla vaccinazione, che hanno avuto una forte amplificazione a livello europeo. Gli originali del testo si trovano nella biblioteca Nazionale di Parigi. Questo popolo, che pure ebbe sempre la forza di risollevarsi, ricevette un colpo non indifferente per la politica restrittiva instaurata dal re di Sicilia Federico III d’Aragona, che nel 1310 impose agli ebrei, come segno di riconoscimento, l’obbligo di apporre la rotella nelle vesti e all’entrata delle botteghe. Fu vietato pure che avessero per servi schiavi cristiani; due anni dopo lo stesso re decise addirittura che la comunità ebraica dovesse abitare all’esterno della città nel proprio ghetto. Un secolo dopo, sopravveniva lo spopolamento della Giudecca di Agrigento, la terza comunità siciliana dopo Palermo e Siracusa. Così, per evitare la fuga da quel territorio, nel 1438 il viceré Paruta concesse alcune esenzioni fiscali per favorire il ripopolamento ebraico. Fra le personalità di spicco di quel periodo troviamo Salomone Anello, fondatore della Sinagoga. Il sito, innalzato nel 1470, si trovava nella zona più antica della città, nella Strada Reale, e confinava col palazzo del nobile Matteo Pujades.
E lo studioso Picone: “nella sinagoga i rabbini spiegavano alla colonia la legge mosaica. Fra i poderi che nostri ebrei possedettero vi era quello nominato Yarabella, che confinava con le muraglie occidentali della città. Una parte di esso, sotto la chiesetta di Santa Lucia, serba tuttora la denominazione di orto della Giudecca. Ignaro dove fosse il loro Bagno pubblico, ossia il luogo di purificazione, nel quale si immergevano le donne mestruate, né di questo poté essere sprovveduta la Girgenti ebraica.
Il loro cimitero, segregato da quello dei cristiani, si trovava fuori le mura della città, nella collinetta di Palaxino, sotto la porta dei Panettieri, vicino ad un appezzamento di terra del convento di San Francesco. La convivenza degli ebrei coi cristiani fu difficile.
Ma affondiamo i bisturi negli ipogei di Agrigento. L’uso di seppellire defunti sotto terra risale ai secoli terzo e quarto sia tra i cristiani che tra i giudei. L’ingresso del luogo sepolcrale si trovava nei pressi della grotta di Fragapane, tra il tempio della Concordia e Villa Aurea. Infatti in questa zona troviamo una necropoli subdiale, che si estende ai due lati di un corridoio a cielo aperto, ricavato nella roccia. Il sepolcreto sembra sia stato costruito tra la fine del terzo secolo e l’età costantiniana. Durante gli scavi condotti da Catullo Mercurelli è stato rinvenuto nel terreno un frammento d’iscrizione di chiara indicazione ebraica. Altri frammenti furono ritrovati nella stessa zona da Pietro Griffo del 1950. E secondo Cesare Colafemmina in “Italia Judaica” : “I frammenti lapidei rinvenuti dal Mercurelli e dal Griffo, databili non oltre il quarto secolo dopo Cristo, rappresentano finora l’unico documento epigrafico sulla locale comunità giudaica nel tardoantico”.
La presenza della comunità ad Agrigento nell’età costantiniana è confermata anche dal ritrovamento casuale nel 1825 di un ipogeo ebraico scavato nella roccia su cui era elevata la chiesa di Sant’Antonio Abate. L’ipogeo divenne una singolare dimora privata del proprietario del luogo. Di questo ipogeo è rimasta un’accurata descrizione fatta nel 1841 dal medico e storico Attilio Falcia e riportata da Sebastiano Pisano Baudo in “Storia della Chiesa e dei martiri di Lentini”.
Ma quali e quante erano nel XV secolo le famiglie dei maggiorenti, cioè dei più facoltosi agrigentini ? Poche. Vanno ricordate gli Anello, Balbo, Fitira, Manueli, Marguli, Ray, Simone, Trocasi. Sembra che l’unica figura professionale fosse quella del medico Daniele Balbo. E in questo periodo spiccavano anche tre appaltatori delle gabelle della Giudecca: Isaac Anello (1469), Amoroso Maltesi (1469) e Michele Saccar (1476).
Tra le figure lavorative del periodo che va dal 1492 al 1547 si contavano cinque fabbri ferrai (Giordano de Andrea, Filippo Ariola, Giovanni Filippo e Antonio Xarati). Gli ultimi tre hanno esercitato l’attività in tempi diversi ma sicuramente dovevano far parte dello stesso nucleo familiare. Poi si hanno notizie di due salinari che portavano lo stesso nome e cognome: Giovanni Marino. Troviamo anche un religioso, frate Giorlando de Andrea (1540-43), e un mercante, Giorlando La Sala, che operò nel 1527.
Non mancarono i i neofiti inquisiti. Di 37 dei 77 si conoscono l’ammontare dei beni confiscati dall’Inquisizione: 20 possedevano beni fino a 10 onze; 14 avevano un capitale che andava dalle 11 alle 38 onze; gli ultimi tre erano più ricchi: Gerlando La Sala (onze 64), Gaspare Mangiavillano (onze 95) e Giovanni Mangiavillano (onze 476).
Tra il 1512 al 1527,8 dei 77 neofiti inquisiti furono condannati e portati al rogo: cinque erano donne: Giovanni e Isabella La Mattina, Costanza Brancato di Marino, Caterina Russa, Pace Xortino, Francesco Lo Porto, Francesca Lanzarotto, Angelo Sassari.
A questo punto riteniamo opportuno chiarire che col termine di ebreo ci si riferisce a colui che praticava palesemente la propria religione e che viveva, altrettanto palesemente, secondo tradizione.
Non abbiamo, purtroppo, nessun dato dei molti conversi, per convenienza o per violenza, che si presume continuarono a praticare di nascosto il giudaismo per almeno un altro secolo nel territorio agrigentino. Ciò va detto per sottolineare che, oltre al numero degli ebrei “ufficiali”, ce n’era certamente anche uno imprecisato di persone con un tasso di ebraicità più o meno elevato: i “giudaizzanti” che vissero parallelamente alle comunità ebraiche regolari, almeno fino a quando l’Inquisizione non intensificò la sua opera repressiva.
Oggi, dopo quasi due millenni di persecuzione e diffidenza c’è un forte desiderio di conoscenza reciproca tra ebrei e cristiani, nonché una forte volontà di riallacciare legami culturali con il mondo ebraico in Sicilia e di conoscerne la vera storia.
di Vincenzo Librici Alfio