Cosi la chiamò Cicerone e di questo dovizioso aggettivo si compiacque fregiarli la cittadina nei secoli: “Piacentissima come le belle donne di Sicilia”.
Nasce Cefalù alla riva del mare trasparente di azzurri dai riflessi di smeraldo e di seta che sfuma dove è più vicino alla scogliera in toni intensi di verde e riluce di cobalto e brilla dove fa specchio il sole.
Pittorica è la cittadina, non chiassona. Nell’angolo della piccola insenatura dove c’è il bastione a far porto e difesa, sulla rena stanno le barche dei pescatori tinte di una gamma più viva di colori: di carminio, di arancio, di verde solare, di giallo acceso. Sono le stesse tinte che l’artigiano adopera per dipingere il caratteristico e tradizionale carretto, chiari colori di gioia e di sole. Alcuni dei gusci sono di tono fresco e vivo, altri sbiaditi dal sole e dalla salsedine. Ciò è lieto al cospetto del mare ampio e sereno, mentre l’uomo della riva intreccia cordami e l’aria tiepida carezza.
La musica e il mare variopinto di una meravigliosa intonazione di trilli modulali, di un delizioso motivo cantato sottovoce che accompagna il turista allegro, un po’ divertito, senza bagagli, che con aria sorniona si reca ad intervistare la cittadina piacentissima. Altre barchette al largo dondolavano galleggiando alla cerca di irretire maliose i pesci d’argento.
Esprimeva il paesaggio intorno a me prepotente una melodia modernissima fatta di riflessi di opale, di succhi aspri e dolcissimi di violini smaniosi: assonanze del paesaggio marino benissimo come diverso non sarebbe potuto essere in Sicilia, dove l’espressione della cosa, del colore, della corolla è amore, luce, gioia.
Le casette della riva sono sul massiccio bastione che dal mare si innalza fatto di enormi massi di natura ciclopica che cingevano per difesa l’antichissima Coephaloedium che ospitò Cicerone.
L’amore del marinaio accosta la sua casa al prodigo mare.
IL DUOMO DI CEFALU’
Ero venuto a Cefalù per vedere il Duomo normanno che Ruggiero II fece costruire nel 1131 quando, scampato all’ira della tempesta, approdò a questa riva e volle rendere grazie a Dio salvatore, come racconta la bella leggenda che arricchisce del miracolo l’origine del tempio. Ma solo ora comprendo quanto appassioni questa marina coloratissima, lieta di assonanze c di melodie, desiderio del turista.
Il treno che mi condusse quel giorno a Cefalù, sbuffeggiando pennacchietti di fumo, allegro allegro sembrava nella sua corsa lungo la litoranea. Era una bella giornata, non c’era proprio che dire, sebbene fosse la fine d’autunno. Una donna quasi sdraiata di faccia a me aveva le labbra troppo roste come era il colore della mia cravatta, lo pensavo: — Autunno, cadono le foglie. —
La campagna che dall’uno e dall’altro finestrino scorgevo era florida di ricchissimi giardini; vedevo verdissimi aranci e mandarini ricchi di frutta, fitto fogliame d’intenso verde punteggiato di arancio. Il glauco nebuloso degli ulivi si scorgeva e quello nitido delle agavi ritorte e degli arabeschi dei fichidindia ed i bordi di terra erano verdi con qualche corolla gialla di fiore. Giardini fastosi erano a dritta ed a manca con la vista del mare solcato da candide vele.
Pensai allora: — In Sicilia d’autunno non cadono le foglie. Restituiamo alla fredda terra settentrionale cose non nostre e tu isolano, della bellissima Sicilia, non far tuo ciò che non ti appartiene.
Graziose caprette si indugiavano a brucare l’erba e non avevano la campana al collo tintinnante. Erano sparse di bella tinta ocra tra il verde come spesso le dipinse Camarda. mentre si profilava alla sinistra della nostra corsa il grande basamento e le rovine del tempio dorico di Imera che sorgeva in quella riva tra Termini e Cefalù. Ed anch’esso fuggì via continuando la vista del mare che rinserra di azzurro l’isola nostra. E giunsi a Cefalù, o lettore, dopo il meriggio, quando i miei compagni di viaggio continuavano a gustare belle arance rosse, fiammanti.
Giunto nella cittadina piacentissima, andai diritto per il corso Ruggero per incontrare la cattedrale normanna, mia principale meta. Mi si mostrò di colpo a destra della via dove si apre una grande piazza leggermente inclinata, non più simmetrica per l’intrusa sistemazione di un palazzetto sbercio nell’angolo di faccia. Vidi due torri quadrangolari grandi ed alte disegnarsi sopraelevate alla piazza che inclina all’ascesa : massa architettonica, armonia di volumi avanti l’alta parete di roccia grigia della rocca cefaludese.
Le due torri l’intonano maestose a riquadro della parte centrale che disegna al limitare un portico con tre archi, il centrale rotondo, gli altri due acuti, poggiati tu quattro colonne discrete. Nella parte superiore al portico c un doppio ordine di archetti a rilievi e bordure su colonnine basse che adornano come merletto ed al centro una ricca e larga finestra col suo solito vertice.
La cattedrale cefaludese ti dà la soggezione della sua grande imponenza scenografica, ha una intonazione storica che non è di nessun’altro monumento antico. I palazzotti che delimitano la piazza tutta sono scialbi, sberciati, danno il senso della povertà e dell’abbandono, sono di grigio umido mentre nel fondo la cattedrale troneggia.
Avanti ad essa è un atrio quadrato con pilastri ed inferriata e sui quattro piastroni bianchi di fronte riarmo quattro logore figure di vescovi in marmo, mitrati; ornamentazione che richiama l’ampio atrio della cattedrale panormita che dovette ispirarne questa cattiva imitazione.
Il pavimento di questo atrio è di rossi mattoni rettangolari che fanno disegni traversi e nelle zone dove il tempo li ha strappati via ha provveduto la natura con un più bel tappeto di erba. E’ insieme verde e rosso. Unisce la piazza all’atrio sopraelevato una scala ingegnosa a tronco di piramide che a me piacque tra tanta discordia. I bimbi che in Sicilia come il sole, come il verde, come la fragranza sono sempre presenti, rincorrendosi e chiamandosi, salgono e discendono questa scala, punto di passaggio dall’uno all’altro spiano per i loro giuochi. Bimbi e ragazzi: quelli si arrampicano, questi salgono a due a due gli scalini.
Nel tempio avemmo la visione di core eterogenee, misto di normanno e di barocco, visione musiva pregevole e vista di stucchi di discutibile pregio a decorazione dell’abside e del coro archi acuti bellissimi di fronte a cappelletto secentesche fredde e bianche.
Una bella croce in legno dipinta del secolo XV pende al centro dell’arco trionfale ed è dello stesso disegno di quella d’oro che vedemmo al petto venerando di S. E. il Vescovo. Alcune tombe a marmi policromi ornati di angioletti vedemmo all’uno ed all’altro angolo delle navate e quella bianca, scolpita con figure dal panormita Leonardo Pennino nel 1788 a Roma per i vescovi Castelli e Sergio, di indiscutibile eleganza.
Gli stucchi del coro posati su biaccose mensolette sono santi condannati al martirio, in croce, e quello legato, più bello degli altri di forma e di fattura, deve essere san Sebastiano, tanto prediletto dagli artisti. Qualcuna di queste figure a stucco ha perduto col tempo la testa, altra la mano e tra di esse vedi figure di affresco.
Dolce femminilità ha la madonna di Antonello Gagini, “Ave Mater Creatoris” leggiamo. Quasi Ella sorride lieta, avvolta col Bambino nel mantello morbido orlato d’oro. Se potessi toccarla, crederesti di trovar tiepida la sua mano. E’ graziosa, flessuosa, delicata come un fiore.
— Qui stavano i due sarcofaghi di porfido — mi dice chi mi accompagna — i quali Federico II volle a forza trasportare nella cattedrale di Palermo. Mi ricordai allora del tranello teso dal grande imperatore al vescovo Cicala, inviato ad arte come ambasciatore a Damasco perché fosse agevole trafugare i marmi. L’Imperatore però minacciato di scomunica — cosa comune in quei tempi — lo ricompensò di un ricco giardino.
Gli organi non suonano, non è l’ora. Stanno l’uno di faccia all’altro nella navata grande presso la croce del transetto. Nella cappelletta a destra dell’altare maggiore, spoglia e privilegiata, scorgo dietro una panca un vescovo seduto che benedice, freddo, solo, di marmo, incassato nel muro.
Seduto su uno scanno del coro io guardo assorto questa grande chiesa, quasi vuota, mentre qualche donnetta nerovestita ancora prega affezionata ai suoi santi immobili. E’ grande il senso della solitudine. Come invece è diverso, caldo, fastoso lo splendore d’oro del Duomo monrealese !
Re Ruggiero voleva che fosse ricco di veste musiva anche questo tuo Duomo, come volle per la Cappella Palatina, e per questo dotò di moltissimi averi e di rendite il vescovo di Cefalù. Ma è anche vero che dell’opera nuova pochissimo fu realizzato. A tutt’altro si dedicarono i ministri del tempio e quando il vescovo Ottaviano Preconio ebbe l’estro di ornarlo era l’anno 1576 e quindi diverso carattere artistico ebbero le opere da lui condotte che cercarono di cancellare la bella simmetria normanna e nulla aggiunsero di pregevole.
Egli fu l’ideatore dell’atrio quadrato avanti al tempio. Il vescovo Antonio Gussio, poi, volle la ornamentazione di stucchi nel coro. L‘una e l’altra opera, io penso, ispirate alla nostra cattedrale di Palermo che, prima della trasformazione effettuata dal Fuga, aveva ricco il coro, l’abside di ornati e di statue dei Gagini. Altri abbellimenti e modifiche di eguale valore negativo sono dei vescovi Proto, Gisulfo. Gonzaga, Vanni.
Guardando dalla navata grande il Cristo, osservi che la navatella di sinistra è stata restaurata. Ma il restauro è stato mal fatto ed in ciò ci illumina S. E. l’attuale Vescovo Mons. Emiliano Cagnoni, anima realmente venerabile per quanto amore e perizia prodiga nella accortissima e mirabile restaurazione del monumento. Ci ricevette egli con cordialità ed amicizia ed a lungo ci intrattenne nelle vicende passate e nelle cose da farsi.
E’ stato spogliato il muro delia navata di sinistra da cappellette ed altarini ed in esso trono state riaperte le finestre allungate con l’arco acuto in cima, come punta di foglia, ma ad esse diede l’architetto restauratore dimensione diverga di quella che avevano in origine. Non solo, ma fece egli intonacare tutto l’alto muro perché credette, infelice, che così fosse stato fatto in origine dalle maestranze per il fatto che ebbe a trovare un breve tratto di muro ad intonaco, non pensando lontanamente che questo pezzo foste stato preparato per l’applicazione del mosaico.
SOVRAPPOSIZIONI DA RIVEDERE
Quindi anche questa parte restaurata del Duomo va soggetta a restauro e bisognerà, volta per volta, cancellare quanto gli altri vescovi hanno voluto sovrapporre all’antica armonia architettonica.
Noi accennammo ai lavori del chiostro che avevamo visitato presso il tempio e trovato sconvolto di cose vecchie e nuove. Disse il Vescovo sorridendo che tutte le cose nuove erano state tratte fedelmente dalle antiche e che nulla di arbitrario sarebbe stato fatto. Il riquadro di colonnine binate ad uno degli spigoli del chiostro, come boccio di archi e colonne. con vasca zampillante al centro — come sarà poi per il chiostro di Monreale — è stato anch’esso in tutti i suoi elementi rinvenuto da quello che era stato distrutto chissà quando e perché.
Grande riconoscenza c dovuta all’Eccellenza il Vescovo restauratore, dovesse solo essere per i lavori che si conducono in questo piccoletto chiostro che precedette il monrealese, mentre noi sappiamo che anche a Palermo si sgrana il marmo e la pietra del chiostrino della Magione tanto prezioso, senza che un pio sentimento sorgesse a volerlo strappare alla indifferenza ed alla ignoranza barbina. Invece qui con commozione potemmo notare come la mano santa aveva impedito che le colonnine più logore avessero potuto piegare setto il peso dell’archeggiatura.
Finalmente, dopo tanti secoli, il Tempio cefaludese è giunto nelle mani di chi lo farà più bello. Ci parlò egli della sistemazione dell’abside esterna, dove si ammassa umido di terra un giardino che verrà disinterrato perchè non minasse le fondazioni e la stessa abside e perché il turista, essendo stata spianata una nitida piazza, potesse da essa ammirare il movimento e la scenografica imponenza della costruzione absidale, ritmica di ornamentazioni.
Ci mostrò egli poi due pianeta ricamate d’oro e d’argento che riammagliarono e ritessettero bianche mani di suore e brani di ricamo antico abbandonato. Dagli ampi finestroni, nel salone del palazzo vescovile, ci investiva una piena chiaria solare che rendeva tutto lieto: parole, fatti, propositi. entusiasmi. Domandammo: — Quando credete di ultimare tanta vostra meravigliosa opera di restauro che dalla pietra giunge al ricamo?
Il santo uomo sorrise, le sue pupille dietro gli occhiali cerchiati d’oro ebbero luce di purezza e di preghiera mirando il ciclo luminoso. Aprì le braccia affidando la risposta alla parola di Dio. Ma nel suo viso leggemmo tutta la fiducia di chi vuol giungere alle complete realizzazioni. Uscimmo nella piazza assolata, dopo la lunga visita al vescovo, e ci recammo dal podestà che ci propose di accompagnarci al tempio di Diana sulla rocca.
Chi si avventura sulla parte scoscesa della rocca cefaludese per raggiungerne la cima per una via non tracciata tra sterpi e pietraia c fili d’erba solitari e massi, crede interessante la gita per quello che di storico e di antico la rocca ancora conserva : il tempio di Diana composto di massi della stessa pietra grigia con la quale si compone la rocca tutta e la triplice cerchia di mura medioevali. ora merlati ora senza merlatura, che del luogo fecero una fortezza.
Ma giunto il turista sulla rocca e durante il suo scabroso cammino se volta indietro la fronte, solo allora comprende quanto più alto valore ed interesse e sublimità abbia il panorama e come soave e delizioso esso sia completa espressione di desiderio e di cielo ampio sul mare eterno. Avevo sentito dire ad un ufficiale che sulla rocca cefaludese panorama è più bello che a Taormina ed ho potuto constatare che aveva proprio ragione.
Il sole pomeridiano carezzava i nostri pensieri, le nostre parole, il nostro viso, le nostre mani, il grigio latteo morbido della pietra. Vedemmo una cisterna araba dopo il primo ordine di mura essendo passati dotto l’arco di una porta normanna che ha la volta ad ogiva ed è trasversa.
Qui doveva avere inizio la fortezza munitissima ed inespugnabile, al possesso della quale molto tenne Federico II e gli altri re tutti, castello tra i più forti che dopo quello di Messina era reputato il più guarnito di milizie, dove fu rinchiuso, durante la guerra del Vespro. Carlo D’Angiò per interessamento della Regina Costanza che volle salvarlo dalle mani del popolo in rivolta.
Si allarga il manto disteso del mare man mano tu sali. La fortificazione asseconda e perfeziona la natura scabra dei luogo. Oltrepassiamo il secondo ordine di mura e nella parte defilata vediamo i forni di pietra per i rifornimenti di pane agli armati.
Poi è il tratto di merlatura che si affaccia nella parte che ripida scende a picco sulla spiaggia dove stanno disposte e raccolte le case della cittadina. A vederle affacciandoti dall’orlo di quell’abisso è un raggruppamento di tetti rossi, lutti rossi, un rosseggiare fiammante che il sole del tramonto accende, come caldo fuoco, attorno al monumentale edificio della cattedrale. Mentre la distesa del mare si è fatta immensa come deserto ininterrotto di verdeazzurro smeraldino riluccicante. Tenue tinte aquose di promontori lontano vedi attorno.
Qui si comprende perché l’antichissimo popolo cefaludese abbia costruito un tempio alla divinità su questa rocca. E’ bello il cielo, è bello il mare, è bella la rocca, è bella questa solitudine che mi ricorda l’infanzia piena di favole e di sogni smarriti, questa intonazione che mi ricorda la colorazione febbricitante della laguna veneta. Questo cielo grande che tocchiamo col dito.
ALTRE BELLEZZE DI CEFALU’
Ma c’è dell’altro, o lettore, a Cefalù. Re Ruggeero vi aveva fatto costruire un palazzo, tutto suo, che poi fu detto Osterò Grande. Oggi vedi solo uno spigolo di esso, se te lo indicano, nel Corso, poco lungi dalla piazza del Duomo. Alzando il viso vedi una bella trifora con colonnine snellissime che ne inquadrano e dividono la luce sorreggendo gli archetti che stanno sotto quello maggiore che tutti li sottende come compasso misuratore. Nel frontone triangolate di essa è un occhio forato, uno come quello del ciclope.
Nella parte che si affaccia al vicoletto che fa angolo al Corso, invece, vedi due bifore, una ancora aperta, l’altra tappata.
Di fronte a questo palazzo regale un altro ne esisteva eretto dai Ventimiglia detto Osterò Piccolo. Questo, cedendo il passo e l’onore al suo più grande e nobile vicino, è morto. Ha seguito la sorte dei piccoli che non resistono al tempo ed alle sventure dopo che nuovi padroni ne avevano offeso l’antica bellezza innestandogli sulla facciata un balcone. Rosario Salvo di Pietraganzili, ne parla commosso perché nell’epoca della rovina di questo monumento tutto tentò per conservarne la vita e praticarne i necessari restauri. Chiese aiuti a destra ed a manca.
Ma la storia dei monumenti è come la storia degli uomini, comanda il destino ed ogni amore fu inutile. Proprio quando egli finiva di scrivere la storia di Cefalù i picconi ne sconnettevano le pietre ed i colpi sentiva egli come devastassero il suo sensibile cuore.
Ma tanto è grande l’amore degli uni verso i ricordi e la storia e l’arte, tanta è immensa la indifferenza degli altri e prima ed oggi. Noi di Palermo sappiamo di tanti monumenti d’arte e reliquiari di storia completamente abbandonati e di tanti altri sappiamo la silenziosa fine. Conviene voltare la faccia contro al sole e volgere il nostro affetto verso questa natura siciliana bella ed immutabile che sempre ci ha riso ed accerchiato di gioia e di vita, che nessuna indifferenza può dissolvere, nessun cannone distruggere, nè l’ignoranza più nera ignorare.
L’orologio della piazza, nel mio ritorno, aveva un rintocco solitario che per nulla confondeva il chiaccherio della gente girovaga per le solite strade che passa e ripassa, avanti indietro. Il mare aveva assunto una intonazione di celeste languido come bella coltre di raso ed il cielo era vivo di luce sotto una nuvolaglia grigioazzurra. La cittadina piacentissima che ha vino dolce era stata ospitale.
Giovane ed intelligentissima comprensione incontro al nostro entusiasmo avevano dimostrato gli esponenti di essa: il Podestà, il Vescovo di cui abbiamo detto, i membri della Pro-Loco. Un ingegnere cefaludese fra essi che mi accompagnò, fu guida amica e senza imponenza. Non abbiamo conosciuto i soliti tiepidi vecchi che spesso nelle nostre città rendono polveroso e scabro il compito del turista, animato del proposito della valorizzazione delle nostre bellezze.
Alfredo Terzo, in “Cefalù città piacentissima, Giglio di Roccia, n.1, gennaio-marzo 1942