Poderoso nella mole sette volte turrita, sulla cima del Monte Caputo, a circa 800 metri di altezza, quarti al centro del grande anfiteatro di monti che cingono come a materna protezione di Palermo. Si erge quel grigio edificio visibilissimo da molti punti della città e comunemente noto col nome di Castellaccio.
Le scarse e incerte notizie sull’epoca della sua costruzione, lo stato di completo abbandono nel quale rimase per secoli, prima che una quarantina di anni fa non fosse riscattato e col contributo dello Stato, restaurato è più che altro una “terribile historia”, pubblicata nel 1520 da un vescovo spagnolo, monsignor di Guevara, vi crearono nel passato un certo velo di mistero, si che nella fantasia popolare rimase per molto tempo un po’ il solitario fosco castello dei racconti bretoni e scozzesi con i relativi fantasmi di mezzanotte dileguanti fra le “mozzicate torri”.
Ma molto più semplice, e direi quasi più delicato, perchè scaturito dalla stessa profonda e sentita fede che doveva dare al mondo il superbo Duomo di Monreale, è invece il reale atto di nascita di Castellaccio, come è stato provato dall’esame dei suoi elementi costruttivi eseguito un cinquantennio fa dall’architetto Patricolo, cioè prima dei restauri e dell’attuale adattamento.
Accertata prima di tutto la mancanza di opere dimostranti aggiunte o rifacimenti in maniera tale da fare escludere non solo le origini romane affermate dal Guevara ma anche qualche altra ipotesi che lo voleva costruzione saracena, si potè stabilire (attraverso lo stile degli archi delle porte, la particolare tecnica delle volte in muratura ancora esistenti, la struttura stessa della fabbrica, ecc.) un perfetto riscontro con gli elementi architettonici della Badia benedettina di Monreale (XII sec.), tanto che con assoluta sicurezza si giudicò coevo o di poco posteriore a questa e quindi edificato per volontà di Guglielmo II dopo o mentre innalza la Badia monrealese col suo magnifico tempio.
Lo stesso parere hanno manifestato altri studiosi e più recentemente, in una sua attenta e minuziosa visita l’egregio architetto comm. Ettore Martini, attuale Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Occidentale.
Nessun dubbio, quindi, può più sussistere circa l’appartenenza del Castellaccio al periodo dell’arte normanna, anche se trattasi di un monumento di semplicità lineare, dovuta magari alla posizione e agli scopi dell’edificio, rispetto agli altri dello flesso periodo un po’ più fastosi.
Mancano, è vero, i documenti: ma anche la tradizione, che in mancanza di questi ha pur sempre il suo valore, ci viene incontro precisando che Re Guglielmo lo volle costruito per dotare i Benedettini di S. Maria la Nuova di una infermeria o meglio di un convalescenziario.
Le diverse cronache dei secoli scorsi, poi, individuando esattamente la costruzione nei suoi particolari topografici e architettonici, le danno il nome certamente più proprio di Castello di S. Benedetto, la dicono posta sotto la giurisdizione baronale dell’Arcivescovo di Monreale e affidata ai Benedettini di S. Martino delle Scale.
Si può quindi ritenere che il nome di Castellaccio, termine usato spesso in Sicilia per i ruderi di molti vecchi castelli, le sia stato attribuito quando, intorno al sec. XVI, secondo quanto annota il Fazzello nelle sue “Decadi della Storia di Sicilia” pubblicate nel 1558, cominciò lentamente a rovinare.
Il fatto che dall’esterno la costruzione si presenti piuttosto con i caratteri di un vero e proprio castello che sotto l’aspetto raccolto e meno arcigno di monastero, non può dar luogo a dubbi di sorta poiché ciò si deve con certezza alla necessità di fortificarla, sia perché elevata in una località allora poco sicura, sia per servire contemporaneamente da difesa alla sottostante Badia di Monreale, anche essa, secondo l’ uso del tempo, fortificata.
La stessa sapiente e razionale distribuzione dell’edificio risponde pienamente alla sua precisa e inequivocabile destinazione sin dalla fondazione: all’estremo sud la chiesa, con la tribuna rivolta ad oriente, come tutte le altre costruite nel periodo normanno e con ingresso indipendente dall’esterno per permettere l’accesso ai fedeli, senza violare la clausura, all’estremo nord il monastero del quale sono perfettamente riconoscibili il refettorio, la cucina con la dispensa, la cappella interna, la sala del capitolo con altri pochi vani per i servizi necessari alla comunità e tra queste due parti ben definite, quasi a meglio isolarle, il piccolo chiostro quadrato.
Dal cortile che si apre nella parte nord si accedeva a mezzo di una comoda scala (della quale rimane la volta rampante in muratura) al piano superiore, dove dovevano essere sistemate le celle dei monaci, ma niente si può precisare di questo piano essendo a suo tempo tutto crollato.
Una superficie di circa 2295 mq. dalla curiosa forma di parallelogrammo, capaci cisterne con volta in pietra, feritoie o balestriere al piano terreno e più ampie finestre al piano superiore, come si rileva dalle due superstiti nel muro a nord, oltre a tutti gli altri elementi dati, completano e confermano ancora, in relazione al tempo, il carattere dell’edificio monastico per eccellenza, nel quale nulla fu trascurato c dimenticato perchè potesse servire ottimamente allo scopo.
Nessun ricordo storico speciale, tranne un piccolo accenno in documenti del 1370 e del 1393. relativi alle lotte tra Catalani e Chiaramontani, è legato a Castellaccio e quindi quelle mura, con buona pace di monsignor di Guevara, della sua “terribile historia”, soltanto frutto di vendicativa accesa fantasia, e di quanto la mente popolare abbia potuto creare in merito, sino a che non furono abbandonate per un imprecisabile motivo, probabilmente la stessa eccentricità del luogo, non seppero altro che di solitudine, di preghiera c di speranza in una vita migliore quietamente invocata nel diuturno salmodiare dei monaci là ricoverati.
Il vecchio castello di S. Benedetto oggi è meta affollata di domenicali gite familiari e frequentata stazione alpina per coloro che amano trascorrere ogni tanto ere sane e liete lontano dai rumori e dal falso vuoto convenzionalismo della vita cittadina.
Per il turista che volesse spender bene la sua giornata, poi la tranquilla e odorosa verde zona boschiva di pini e cipressi, creala da qualche tempo sulla vetta di Monte Caputo, assieme ad un facilissimo e largo sentiero di accesso che si distacca della stradella Monreale-S. Martino delle Scale, rappresenta una fra le più belle e indimenticabili passeggiate che possano farsi sui monti nelle immediate vicinanze della città e con una non faticosa variante può essere considerata il naturale complemento della visita a Monreale stessa e a S. Martino.
Amleto Bologna, Il castellaccio di Monreale e la sua non più terribile historia, giglio di Roccia, n.2, 1942