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Agrigento luglio 1943: come persi la guerra. Un testimone ricorda

23 Novembre 2014 //  by Elio Di Bella

americani a porto empedocle
americani a porto empedocle

Come persi la guerra

di Nonio Baeri

La mia coscienza è tranquilla. La famiglia, per ora, al sicuro. Moglie e figlio li ho consegnati al padrone di casa perché li conducesse al rifugio antiaereo sotto l’istituto Granata fin da quando è stata proclamata l’emergenza per lo sbarco imminente americano. Posso andare a vedere che accade sul campo delle operazioni. Le ultime segnalazioni prima che si interrompessero le comunicazioni le ho ricevute da Torre di Gaffe, “Signor Tenente, qui il mare è nero di navi”. Era la notte del 9 luglio 1943, e i pochi soldati rimasti a presidiare coste interminabili e indifendibili erano frastornati dal rombo crescente del mare in tempesta. Non sembrava una notte estiva: un vento freddo spazzava la costa mentre la 7^ armata del generale Patton sbarcava. La sola cosa che mi preoccupa veramente ormai è condurre in salvo quei pochi uomini rimasti a difendere la terra degli avi, e non riesco a contattare nessuno, a usare il telefono, a raccogliere notizie se non, nel mio approssimativo tedesco, dal giovane ufficiale Hans della Wehrmacht che ogni tanto fa sparare una cannonata, in attesa di ordini. I comandi sono scomparsi, così come è accaduto un mese fa (l’11 giugno) a Pantelleria, caduta senza combattere, così come Lampedusa. Il comandante britannico dopo questa operazione dirà: “Il nostro unico ferito nel corso dell’operazione è un soldato morso da un cane”.

Non è la stessa cosa ad Agrigento. Qui la città ha terribili ferite, per i bombardamenti dal cielo e dal mare. Qui troppe innocenti vittime ci sono già state, e altre ce ne saranno. Ecco perché decido di andare verso i luoghi dove si presume che lo sbarco avvenga. Dalle mie notizie posso ritenere che lo sbarco avverrà a Gela e che questa che ci aggredisce direttamente sia una manovra diversiva, ma nessuno è più sicuro della svolta che prenderà questa fetta di storia che ci sovrasta. L’unico mezzo di trasporto che ho trovato è questo sidecar malandato che un caporale quarantenne -Corbo si chiama- è disposto a guidare verso il mare. La valle dei Templi è invasa dai vapori rossastri, offesa nella sua tragica compostezza greca, mentre in alto la città, buia, è avvolta dal fumo e da lingue di fuoco e noi percorriamo una strada sconnessa che si perde tra gli spari.

Dietro la tomba di Falaride un primo gruppo di militari sbandati che ritorna a piedi verso la città. Fortunatamente, nessuno pensa a organizzare resistenze impossibili e si ritirano in silenzio. Ho sostenuto per anni che questa guerra era perduta in partenza, che la tronfia retorica che parlava del nostro destino sui mari ci aveva cacciato in avventure senza vie d’uscita. Per tali convinzioni incautamente espresse avevo subito avvertimenti sgradevoli, quando non proprio minacce di punizioni e trasferimenti, ma ora era diverso: è questa manifestazione pervasiva del diritto del più forte nella mia terra che mi colpisce profondamente e stimola il bisogno di reagire, in qualche modo.

Se non è tutto perduto, questa forma ritrovata di solidarietà verso chi più è esposto al pericolo potrà cementare una dignitosa linea di reciproco rispetto anche nei resti di una armata che si dissolve. “Corbo, te la senti di arrivare a Punta Bianca?”. Era là che un gruppo sparuto di altri militari aspettava ordini. “Tene’, se me lo dite voi, e se basta la benzina”. Non ci arriviamo, invece. Il primo caccia che avvistò sulla strada questo incredibile corpo di spedizione armato di una Beretta, costituito da noi due, che muoveva all’assalto della 3^ divisione corazzata, venne a mitragliarci. La moto, spinta da Corbo fuori dalla strada con la forza della disperazione, finisce la sua missione in una vigna. Illesi, troviamo riparo in un vicino fortino di cemento armato, una di quelle abbandonate costruzioni in prossimità del litorale dalle cui feritoie avremmo dovuto assistere, secondo il discorso di Mussolini al miracolo del “bagnasciuga”: “Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga….”.

Nelle nostre attuali condizioni, riusciamo ancora a sorridere ricordando che il bagnasciuga è tutt’altra cosa. Poi assistiamo al sorgere del sole. E’ un sole livido, tagliato da filamenti lattiginosi attraversati dalla tramontana. Si sono aggiunti altri due, dispersi come noi, con le divise lacere della milizia costiera -la Milmart- che provengono, dopo un faticoso viaggio d’avvicinamento notturno in camion ed altri mezzi di fortuna, da Gela. E’ là che avviene lo sbarco, e il rumoreggiare ininterrotto, come di tuoni lontani, è il cannone degli incrociatori e dei caccia.

Ho bisogno di riflettere in fretta sul da farsi, e riesco solo a pensare a moglie e figlio non so quanto al sicuro, nel rifugio delle monache. Devo raggiungerli, tornare in città. Mi ci vorrebbe un caffè, ora; senza quello sarà duro programmare la ritirata. Uno dei nuovi arrivati -è di Sambuca, ed è là che vuole tornare- mi porge timidamente un sacchetto con chicchi di caffè tostato. E’ quasi un miracolo. Lo ha “requisito” al passaggio in quel di Palma di Montechiaro. Due chicchi per ciascuno di noi come tonico del mattino sono almeno una reminiscenza collaudata di altri, più sereni risvegli. Usciamo con circospezione, accolti da un terrificante boato. Si dev’essere svegliato il mio amico Hans ed ha riaperto le ostilità, come da programma.

 

Il rientro in città si è svolto lentamente, ma sicuramente per un itinerario inconsueto più lungo del normale, per evitare i campi minati. Il ponte sul fiume è saltato durante la notte, ma guadare i rivoli dell’Akragas non è certamente un problema, d’estate. Si arriva, dalla valle, direttamente a S. Francesco di Paola; via Garibaldi è piena di macerie e silenzio di morte. Solo timore per i raid dei caccia, che ci spingono a cercare un riparo qualsiasi, sotto architravi pericolanti.

Arriviamo, finalmente, illesi, salvo il fastidio delle spine dei fichidindia un po’ su tutto il corpo. La casa deserta, lasciata solo ieri in gran fretta perché ritenuta -a ragione- insicura, oggi mi appare, con il suo aroma di gelsomino e basilico, un’oasi di pace. Da via Orfani al Granata, al suo rifugio antiaereo il viaggio sarebbe brevissimo, ma casco dal sonno, propiziato forse dalla sensazione che la guerra, comunque, è finita. Non riesce a svegliarmi neppure una cannonata che sventra la casa di fronte, e mi rompe tutti i vetri alle finestre.

 

Passano così altri sei lunghi giorni. L’avanzata delle truppe alleate non ha fretta. Intanto gli inglesi -ma noi non possiamo saperlo- hanno preso Siracusa; Gela è caduta fin dalla prima sera. Oggi, 15, tutta la piana costiera è in mano alle truppe alleate. E per me viene il momento della decisione più difficile: bisogna costituirsi al vincitore. E’ una scelta tormentata, discussa alla pari con l’intero gruppo di militari che mi hanno seguito nella fantastica ritirata attraverso la valle dei templi. Solo uno ci ha lasciati, volendo arrivare prima di decidere, al suo paese, l’uomo di Sambuca di Sicilia, che partendo mi ha lasciato il suo sacchetto di chicchi di caffè. Così, liberamente, votiamo di andare verso il Comando Alleato per costituirci. Hanno affisso un proclama che ci impone questa sofferta decisione, pena la fucilazione, e decidiamo di piegarci al volere del vincitore.

Alcuni soltanto indossano la divisa; altri hanno messo il vestito buono.

Le famiglie non capiscono nemmeno questa reiterata follia: se tutto è davvero finito…

Il militari alleati ci guardano con curiosità.

Mio figlio ha gli occhi rossi, ed io cerco di non guardarlo: L’addio è brusco e impacciato. Tanto tornerò presto.

I militari che si sono consegnati ieri, agli inglesi, sono stati inviati ad Orano.

 

p. s. Quanti mi conoscono sanno bene che questa non po’ essere una storia mia. Non ho l’età per avere fatto la guerra, e per averla perduta, come sopra cerco di raccontare. Tuttavia la storia è vera. E’ occorsa a mio padre che l’avrebbe certo narrata meglio, con più spontaneo umorismo, con ricchezza di particolari che a me naturalmente sfuggono. Ho voluto provarmici, con emozione antica, perché è come risentire la sua voce. Non sono bravo come lui, né sono convenientemente distaccato. Posso aggiungere, per chi vuole sapere come sia andata a finire, che egli non partì con una nave inglese diretta ad Orano. Era un giorno fortunato, e un giovanissimo capitano americano si limitò a segnare sui fogli di un suo quaderno a quadretti i nomi di quella ventina di strani sedicenti guerrieri, al suo confronto piuttosto anziani, che gli si consegnavano come prigionieri di guerra, prima di lasciarli liberi “sulla parola” come scrisse su un tagliando intestato dell’Air Force. Mi piacque poi immaginare che si era trattato del pilota americano che aveva dovuto mitragliare il sidecar, ed aveva voluto così, in qualche modo, farsi perdonare di una incongrua violenza militare.

Dal balcone dalle imposte verdi e dai vetri ancora rotti fui io a vederlo tornare, dopo un paio d’ore di assenza.

Nel pomeriggio giocammo a pallone, io e lui. O’ chianu Baruni.

Credo che, almeno al calcio, vincesse lui.

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento seconda guerra mondiale, agrigento storia, comune di agrigento

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