
DIZIONARIO DI GIRGENTI
INTERIEZIONI – MODI DI DIRE – SEMANTICA
GUSTO E SAGGEZZA NELL’ INCISIVITA’
D’UN DIALETTO
a cura di Antonino Cremona
Ahah
E’ l’interiezione dei favaresi, come quella dei girgentani è “ce” (da pronunziare molto dolce).
E’ anche il sospiro dei raffadalesi arabi – spesso biondi – mangiatori di radici. Quel sospiro, molto variegato nella sua estrema vastità, si potrebbe riferire solo con alcune misure musicali. I raffadalesi non passano per musicisti, ma la loro interiezione è quella.
I girgentani per quell’ahah prendono in giro entrambi. Ma, dei raffadalesi, mangiano il maccu (magari storpiandolo con zucchina rossa. La pietanza classica è invece questa: fave secche sgusciate, cavoli, olio e sale, riso e pasta di casa; quando la minestra è cotta la si lascia raffreddare un po’: i raffadalesi la versavano nel bùmmulu, che poi rompevano, in campagna, per mangiare – fredda – la minestra rappresa. Il maccu si può anche friggere. Si può fare il maccu virdi: di fave verdi).
‘A ngrasciàta
La sporca.
‘U ngrasciatu: suo figlio. Erano, invece, pulitissimi. Gelatai di genio, nell’esteso arcobaleno dei sorbetti di Girgenti.
Bbagàscia era to ma
Bagascia era tua madre. Varianti: buiàna, buttana; più raramente:bburdillàra (bordelliera).
Nell’insultarsi, i ragazzi hanno il gusto del favoloso. O della precisione storica (lo era quando ti ha concepito). Oppure – terza interpretazione – usano uno stilema d’ambiguità mafiosa.
Cirrinciò
Ammazzà a sso muglieri a basati. Uccise la moglie, soffocandola di baci.
Cuncittina Gallega
Concettina Gallego.
Casalinga che si prendeva libertà, ogni tanto, di andare a bere un quarto di vino nella taverna. Sarebbe passata ugualmente in favola se, ne fosse stata lepoca, ogni tanto fosse andata a bere il caffè. Vi era solo un locale a Porta di Ponte, in cui si vendeva il caffè in tazza: << ai nobili>>.
Don Cicciu u surdu
Don Ciccio il sordo.
Famoso avaro, usuraio rinomato. Riceveva nellingresso; teneva la cassaforte nellaltra stanza. Agli incredibili interessi, che tratteneva sin da principio dalla somma prestata, aggiungeva due scudi per il disturbo di alzarsi a prendere i soldi.
Ai suoi funerali andarono solo ragazzi felici, che suonavano allegria battendo cocci di terracotta (giammarìti).
Fa comu vo
Fai come vuoi. Si equivoca con <<fa comu vo>>: fai come il bue (fa il cornuto, sopporta).
Havi na bbella ggiuvintù
Ha una bella gioventù: una bella altezza.
Lavorare invecchia, fa la gente di campagna ancora più bassa; vecchia e curva.
Iddu
Si dice, per rispetto, anche al posto del vossìa (vostra signoria) e del voscenza (vostra eccellenza, vostra scienza): Lei. Iddu mu dissi: lei stesso me lha detto.
In definitiva, traduce Usted.
Jucàri a ciociò
Giocare a niente.
Ciociò è il nonnulla di latta che regge il mecco nei lumini di cera.
Longu e fissa
Oppure: Giallongu e fissa; lungo e fesso. Tamiùni. Cirluì. Tabbiùni.
Le persone di bassa statura, quanto più bassi tanto più solitamente pieni di sé , prendono in giro gli altri. Così scherzava mons. Marsala, vecchio altissimo e odoroso; ossuto, quieto; dalla voce morbida, lenta; venuto da una civiltà contadina sapiente e generosa.
Mi regalava cuori di torrone ricoperti di trucioli di zucchero di tanti colori (a diavulina: diavolina per il numero diabolico, affascinante, dei colori), di confettini colore dargento e di mmarmurata (un duro velo di bianco duovo e zucchero); i cuori di pasta di mandorla farcita di zucchero o di crema di pistacchio.
E ricordati diceva quello che scriveva san Tommaso, anche lui uomo altissimo: raramente luomo alto è sapiente; ma, quando lo è, è sapientissimo.
MODI DI FARE
E MODI DI CUCINARE
Bbabbu di Rragona
Scemo di Aragona.
Scemo per antonomasia.
Invece, quelli di Aragona fanno uneccellente salsiccia; e hanno inventato il tagànu: una pietanza che prende nome dal tegame in cui si cuoce.
Un amalgama di fette di pane (o di maccheroni appena ammorbiditi dalla cottura); pezzetti di maiale, cucinati con il ragù di estratto di pomidoro condito con saìmi (strutto: si può usare quello che cola durante la frittura della salsiccia); pane grattugiato, sale, pepe; tuma (cacio fresco poco salato); pecorino grattugiato (la stagionatura lindurisce e lo fa scuro, il sale lo macchia di bianco, aprendolo saltano i grani di pepe nero); uova intere battute. Si cuoce nel tegame di terracotta unto di saìmi e cosparso di pane grattugiato; fuoco di carbone anche sul coperchio. Si mangia a fette.
Può essere tentata una variante:
una briciola di peperoncino rosso, e una striscia di peperone crudo, su ogni pezzetto di carne.
Lu vògliu cu ‘na bbeddra saluti
E’ un saluto, un augurio, che si dice da lontano, per rispetto, senza avvicinarsi ancora (o stringendo la mano dell’altro – di superiore grado sociale – con tutt’e due le proprie mani): La voglio con una bella salute, desidero che Lei stia bene.
CUCINE E PERSONE
‘U issàru
· · · · · · · · · · · · · · Il gessaio.
Il figlio del gessaio bastonava l’asino, per farlo camminare, quando,crollava per 1’eccessiva pesantezza delcarico.
Da alcuni giorni, però, lo massacrava di botte senza apparente motivo. Il gessaio ne capì la ragione:
“Tuo figlio si vuole sposare” spiegò alla moglie. “E tu, cretino” – disse poi al figlio – “parla con me, non parlare con lasino”
· · · · · · · · · · ‘U nglisi scurdatu é tempii
Mi pari un ‘nglisi scurdatu e tempii: mi
pare un inglese dimenticato (smarrito) fra i
templi. E’ uno stordito.
Inglesi erano tutti gli stranieri, e i visitatori che non appartenevano alla bassa Italia. E tutti sembravano scurdati é tempii. I girgentani – più spiccatamente degli altri – rifiutano il diverso, le cose che non sanno fare, quello che non capiscono; cercano di distruggerli con un’arte spesso fine a se stessa: la loro tipica ironia.
La valle dei templi, per i girgentani, serviva solo da labirinto miceneo: a danno e scorno degli “inglesi”. Serve, secondo molti di loro, adesso solo a imporre – chi sa perché a loro danno – vincoli di rispetto archeologico: che limitano la libertà di costruire in modo indiscriminato.
‘U mmuffulittàru
Il moffolettaio.
(Più vicina era la bottega di don Ggiurlànnu ‘u stagnatàru: don Gerlando lo stagnino; un buco buio, in cui gli stagni e lo zinco rilucevano.
Vestito di un grigio che pareva zincato, i capelli di un bianco appena giallino, friggeva i bastoncini di stagno con gesti che gli davano il fascino dell’alchimista; quasi accanto alla grande bottega del mmuffulittaru, con due alti gradini da scendere e il soffitto basso, ma ariosa).
Vendeva i mmuffùlétta, piccoli pani rotondi cosparsi di ggiuggiulèna; dorati, soffici, con la crosticina croccante. Nella festa dell’Immacolata i mmuffuletta diventavano pietanza; pieni di ricotta, di frittuli (ritagli di grasso di maiale fritti a listelle) con il po’ di sugna che si portavano appresso, e caciocavallo tagliato a righine sottili lunghe tanto da penderne dal mmuffulettu: non solo per bellezza, ma perchè il primo sapore fosse quello del pane caldo condito di formaggio; e quel sapore rimanesse da sostegno all’impalcatura di odori e di sostanze di quel panino ormai madido di sugna.
Varbìtta
Barbetta. Per quel suo pizzo candido sotto i baffi rosati. Grassoccio, nitido, le unghie larghe splendenti.
Teneva il banchetto d’orefice in una stanza ombrosa; i gioielli sembravano quieti dentro
fresche vetrine. Ai vetri del banchetto correva, però, la luce dell’altra stanza aperta sul mare. E quella luce si spandeva, si scompigliava, al tramonto, finiva per attorcigliarsi nei colori dell’iride sulle bacheche; le pietre, gli ori, l’argento allora brulicavano colori tenui.
La moglie era una gran cuciniera; ne eravamo entrambi contenti. Parlavamo poco; ci intendevamo in silenzio, così facevamo discorsi intensi, mentre mangiavamo (lentamente o quando lentamente lavorava pezzetti di metallo con strumenti piccolissimi e guardavo i suoi gesti, misurati, da uomo).
Si era assopito nella morte sul letto grande; sereno, lui scrupolosamente ateo, contornato da immagini sacre con cui solo adesso qualcuno riusciva a dissolvere la sua tolleranza.
SAN CALO’ DI GIRGENTI
Calòiaru
Variazioni: Luzzu, Caluzzu, Calòiru, Caliddru, Liddru, Calò, Lillu, Lilliddru, Luzziddru.
Firria, Ggiurlà
Gira al largo, Gerlando.
San Gerlando, primo vescovo di rito latino a Girgenti, era francese: imposto con l’eccidio alla comunità di saraceni, pochi ebrei superstiti, cristiani di rito orientale, che pacificamente convivevano. Erano tipici della religione ortodossa i calògeri (bei vecchi), monaci basiliani tanto simili agli arabi marabut: eremiti che curavano gli ammalati con le erbe, e i fedeli con le parole e con le opere.
San Gerlando è patrono di Agrigento; compatrono, dopo molte avversità, san Calogero (l’idealizzazione del monaco basiliano): incomparabilmente più amato. Si dice che san Gerlando, forestiero, protegga i forestieri; a Girgenti, si dice, fanno rapidamente fortuna. Firria, Ggiurlà è l’invito a togliersi di torno; scherzoso per lo più, come il Passa cca e il Passa ddrà (vattene di qua, vattene là) che non scherzosamente si dice ai cani: e a certi loro padroni.
Gaddrotti
Gallotti. Giardina Gallotti, borgo montano sotto Montaperto.
Un gallottese era venuto per la festa di san Calogero, e tanti pupi – di gesso, di terracotta – aveva visto sulle bancarelle: tutti ad immagine di un vecchio nero intento a leggere un libro, con la cassettina delle erbe mediche appesa al polso, un grande mantello nero costellato d’oro e d’argento. Cu è stu pupu (chi è questo pupo) chiese il gallottese. Quali pupu – rispondevano i venditori – ‘un lu vidi ch’è ssan Calò? (Quale pupo, non lo vedi ch’è san Calogero?). Così passò, beffato, per tutte le bancarelle.
In quella festa, il gallottese pensò di portarsi a casa il gelato. Insistette perchè il gelataio gliene riempisse il grande fazzoletto da contadino. Legò il fazzolettone a trùscia, annodandone i quattro capi, e se ne tornò a piedi al paese. Chiamò la moglie e i figli a gran voce: ‘U ggilatu di Girgenti vi purtàvu (vi ho portato il gelato di Girgenti), e tutti corsero contenti. Ma nel fazzoletto trovarono soltanto acqua colorata. Sono dei ladri questi di Girgenti, i gallottesi imprecavano.
Sancalò mmanu e viddràni
San Calogero in mano ai contadini.
Chi si fa condurre, o è costretto a farlo. I portatori del fercolo di san Calò sono contadini; spesso interrompono il lunghissimo cammino per rinfrescarsi dal solleone, e inevitabilmente si ubbriacano. La statua viene trascinata – dunque – avanti e indietro, sbattuta sui cantoni delle strade: fra le grida d’incitamento, il suono secco del mazzuolo, gli evviva al santo.
‘U bballu de virgini