di Luigi Vittorio Bertarelli
Girgenti
Di buon mattino Alfonso Celi, direttore del Museo Archeologico di Girgenti e padre di Empedocle Celi, console del Touring, venne gentilmente a prendermi all’albergo.
Un vetturino aspettava alla porta, fece sul manico della frusta divotamente il segno della croce, la baciò, saltò allegramente in serpe e via con gran fracasso di sonagliere e traballare di pennacchi alle lucenti bardature.
Girgenti è sulla cresta di una collina, di cui il punto più alto è il Duomo, a 330 metri e scende sul fianco di essa, calando ripida sull’altipiano ove un tempo si stendeva, come sul fondo di un’arena, l’antica Agrigento. L’altipiano triangolare, di alcuni chilometri di superficie, è conterminato da un salto di rocce, ai piedi delle quali scorrono i due storici fiumi Akragas e Hypsas; due chilometri più oltre si stende la spiaggia del mare.
La mia carrozza scende prestamente nella principale e quasi unica via della città, dove si trattano gli affari, in mezzo a un gran movimento di folla. Si direbbe che due popoli vi si mescolino. Uno è quello di tutte le città di provincia: impiegati, soldati, bottegai, piccoli borghesi; l’altro è quello indigeno, vivacissimo, molto marcato pel tipo selvaggio, le carni scurissime, il parlare concitato, la figura inculta.
Fuori di questa strada non vi sono che vicoli scoscesi, stretti, rotti da lunghe scalinate, passanti sotto arcate oscure. È un labirinto, che tratto tratto ha delle scappate d’azzurro sul mare poco lontano, tra due case dove la vista sfugge libera.
La vettura, uscita dalla Porta del Ponte, scende per una strada a rompicollo fino alla Fonte dei Greci, posta all’estremità di un antico canale lungo 7 chilometri dove è un viavai continuo di carri e mulattieri che vi attingono per la città. Che macchiette interessanti, in quel brulichìo di gente col diavolo in corpo, che si disputano la precedenza alle bocche d’acqua e si fanno largo tra gli otri e le bigonce!
Agrigento, un museo in una strada
Appena giunti sull’altipiano di Agrigento, la vista si allarga.
—Amico mio, — mi diceva il Celi, — Girgenti ha 22.000 abitanti, ma cosa sono mai in confronto degli 800.000, e più, che contava Agrigento? Vedete la nostra cara cittadina d’oggi: essa è tutta lassù dove un tempo c’era appena posto per la
necropoli; Agrigento antica riempiva tutto questo altipiano. Là in alto, a destra, quell’alta cresta che tocca i 351 metri era la Rupe Atenea; lassù passavano le mura che, scendendo presso il tempio di Cerere e Proserpina e tutto lungo la scarpa che domina l’Akragas e l’Hypsas, formavano un circuito di più di dieci chilometri.
— Che meravigliosa città doveva essere questa! Nessun’altra ebbe la sua magnificenza, e la sua fama di ricchezze e di splendore. Pindaro ne era innamorato e la chiamava, nei suoi canti, la più bella città che i mortali avessero costruito. Nei primi secoli della sua vita miriadi di schiavi lavorarono a costruire le opere grandiose di cui ci restano gli avanzi.
— Agrigento ebbe un periodo di lusso inaudito, sconosciuto a Roma stessa. Empedocle diceva che gli Agrigentini costruivano come se dovessero campare in eterno e banchettavano come se dovessero morire all’indomani. Vedete qui, sul margine della strada: cinquanta o sessanta centimetri più in alto del livello attuale, voi scorgete ancora il resto del pavimento di mattoni della strada antica. Tutte queste strade erano pavimentate così.
Questa strada di campagna conduce al tempio di Giunone Lucina. Gli avanzi maestosi appaiono a un tratto in mezzo a grandi ulivi, sull’orlo dell’altipiano. Avvicinandosi ad essi si resta sbalorditi, oppressi, come all’alzarsi di uno scenario, che lasci vedere un meraviglioso quadro di ideale grandiosità. Una selva di colonne si drizza sopra una platea di 41 metri di lunghezza per 20 di largo. Tutto un lato del tempio — sedici colonne — è ritto intieramente e porta intatto l’architrave; il rimanente fu molto danneggiato dai terremoti più che dagli uomini, che invano si affaticarono per abbattere quest’opera.
— Andiamo, andiamo, ora vedrete di meglio — mi dice il Celi, dopo avermi lasciato godere dello spettacolo. — Strappatevi all’ammirazione, vi serbo per tra poco una scena ancora più bella.
Rimontiamo in carrozza e ripartiamo, percorrendo una stradetta parallela all’orlo dell’altipiano. A destra e a sinistra la fiancheggiano dei muriccioli sui quali ulivi, cactus, carrubieri e agavi sporgono il più bizzarro intreccio di rami che si possa immaginare. Tutto è classico in quella stradicciuola, le ombre singolari, la vegetazione esotica, la vista sul mare, sulle rupi, sui monumenti.
— Guardate questi muricciuoli — dice il Celi. — Essi sono fatti di venerabili avanzi. I geologi negli strati leggono la storia della natura, come nelle pagine di un libro. Noi archeologi abbiamo qui tutta un’opera di storia. Osservate: vi sono dei cippi, in questi muri, dei capitelli, delle lapidi spezzate o capovolte. Vedete quel pezzo tondeggiante: di sicuro è una modanatura, un toro. Eccovi un rostro della base di una colonna, dei gocciolatoi che pendevano sotto i triglifi da qualche cornicione; quella pietra è un pezzo di imoscapo!
Qui vi è un cancelletto; i due pilastrelli sono finiti, come vedete, in alto, da due coni di pietra scura in forma di pane di zucchero schiacciato; ne avrete visti altrove: sono macine da grano all’uso greco. Ora viene un tratto ove abbondano, tra le pietre a secco, dei mattoni. Scendiamo: vedete che mattoni diversi dai nostri? Essi hanno più di duemila anni. Guardate questa scheggia rossa di terracotta fermata nella malta: dalla sua forma io capisco che appartenne a un cratere, forse di squisita fattura. In verità questo muro è degno d’essere portato tutto intiero in un museo!
Io ero come trasognato. Ma in quell’istante la vettura si arrestò di colpo e ilvetturino saltò a terra.
Eravamo giunti. Dove? In una radura calva, leggermente rialzata, sulla cui cima si eleva il meraviglioso tempio della Concordia, il più bello d’Italia e di Grecia. Impallidisce ogni espressione d’entusiasmo dinanzi a quella ancor vivente e forte evocazione della più perfetta arte dorica! Essa sorge nel mezzo di una cornice degna della sua bellezza: l’eterna natura, l’eterna arte sono unite in un monumento imperituro.
Il colosso è là, eretto, quasi intatto. Le tughe interminabili delle sue massicce colonne circondano le ciclopiche mura della cella, gli architravi e i frontoni decorati di nobili metope hanno resistito alle ingiurie inutili di 25 secoli di tempo. L’immane costruzione par di bronzo, nel sole che l’arde di calde luci: la tinta aurata di quegli invitti marmi risplende sul fulvo terreno che circonda le gradinate.
La piccola eminenza, proprio sull’orlo dell’altipiano, guarda tutt’intorno fino al mare, fino a Girgenti e alla Rupe Atenea: di là si segue coll’occhio tutta la scogliera che come un bastione fortificato formava la difesa principale di Agrigento e, sulla pianura ondulata che sta appiedi del tempio, il luogo ove, nella prima e nella seconda guerra punica, Romani e Cartaginesi combatterono epiche battaglie.
L’immenso mare africano placido e deserto si stende davanti all’infinito. Né una vela, né il fumo di un vapore ne solcano lo specchio uniforme, solo Porto Empedocle, col suo molo costruito in parte cogli avanzi del tempio di Giove, mette una nota di vita moderna nel quadro di così pura antichità che io contemplo.
— Amico mio, — mi diceva il Celi, — io godo di vedervi gustare la profonda bellezza di questo luogo. Il panorama è meraviglioso, invano ne cerchereste uno uguale. Qui ogni zolla e ogni sasso ci parlano. Da questi sepolcri sembrano uscire i grandi generali romani e cartaginesi, le ossa dei Numidi, dei Greci e dei Saraceni si raccolgono alla chiamata dei nostri ricordi. Si ricostituiscono gli eserciti, le onde dell’Akragas e dell’Hypsas volgono ancora rosse di sangue. La terra parla, le memorie rivivono.
Qui, tra i colonnati imponenti del pronao di questo tempio della Concordia, che fu un tempio di Venere, si aggirano ancora le clamidi e i pepli e vediamo un’altra volta i bianchi paludamenti delle vestali; dal postico vengono sempre le voci degli àuguri. Guardate: su quei gradini, tra le ali di popolo reverente, salì il grande Cicerone, chiamato qui dagli Agrigentini a pronunciare la sua tremenda invettiva contro il proconsole Verre ! Il Celi mi ipnotizzava. Io vedevo tutto ciò, intendevo i clamori del popolo, il canto dei sacerdoti, mi giungeva l’olezzo dei fiori, di cui le donne cospargevano il cammino del grande oratore da cui Agrigento aspettava la salvezza.
Il tempio rinasceva ai miei occhi in tutto il suo splendore. Che potenza suggestiva in quei ruderi imponenti! Uno stormo di colombi azzurri volteggiava tra le colonne e nell’interno della cella, e dagli sfondati tetti si alzava di tratto in tratto a roteare nel cielo. Quando era nell’ombra opaca delle volte somigliava a un funereo stuolo di neri corvi di cimitero, quando si elevava nel sole le tese ali brillavano come d’argento, come se una pioggia di fiori, portati dal vento, cadesse su quelle tombe. Impressioni lievi, ma profonde. Chi sente queste sfumature comprende che sono delicatezze che non dimenticherò mai.
Ancora la grandezza di Agrigento
Intanto ci raggiunse il custode delle antichità, che abita in una casa lì vicina. Esso è un uomo assai intelligente e, a suo modo, anche istruito. Da venti anni si aggira tra le “sue” rovine, le studia e le ama. Esso intavolò subito col Celi una discussione minuta sul modo di interpretare certi segni di una pietra. Ciò mi riposava un momento: mai ebbi a compiere un così intenso lavoro intellettuale per comprendere ed ammirare il connubio del paesaggio colle opere dell’uomo.
Non mi sarei saputo staccare da quelle meraviglie, se il sole già alto non mi avesse avvertito che il tempo passava rapidamente. Rimontammo in carrozza col dotto custode. Il cavallino correva di buona voglia, spronato dalle rumorose sollecitazioni dell’automedonte.
Io era felice: il Celi declamava poesie sulla sua Agrigento con una facondia inaudita e un sentimento profondo; poi s’interrompeva per ridirmi qualche squarcio dell’altisonante prefazione di una sua opera sulle antichità agrigentine.
Di tanto in tanto il custode fermava la carrozza per mostrarmi un punto di vista, una pietra discussa, un luogo ove degli scavi metterebbero in luce, secondo lui, tesori inestimabili.
Arrivammo così davanti al tempio di Giove, il più vasto di tutti (111 metri di lunghezza), ma incompiuto, distrutto dai terremoti, saccheggiato per difendere la marina di Porto Empedocle. Tuttavia ciò che rimane è grandioso. Basterebbe la grande statua del Telamone, alta 8 metri, coricata nel mezzo della platea, per dare la misura dell’immensità di questa costruzione. Il gigante abbattuto dorme il sonno eterno, il capo inghirlandato di euforbie, l’ampio petto velloso di ciuffi di capelvenere. Poco lontano di là, quattro alte colonne d’angolo del tempio di Castore e Polluce reggono ancora, per un miracolo d’equilibrio; un mirabile frontone decorato di metope allegoriche e di triglifi, che conservano sempre tracce dell’originale policromia.
Ma avanti, avanti! Andiamo alla tomba di Terone, nella pianura dell’Akragas, poi alla casa dei Greci, ove vasti pavimenti di preziosi mosaici vennero nei primi tempi della loro scoperta saccheggiati a man salva; poi ancora alla stupenda chiesa di S. Nicola, che col suo fasto normanno riposa un po’ dopo tanto massiccio dorico; poi alla piscina romana, che sta dietro la chiesa, e via via ad altre antichità.
Come dire di tutte? Italiani che non andate alla Sicilia, pensate che colpa!
La fine della giornata
Passai la serata sulla terrazza dell’albergo “Belvedere”, che domina tutto l’altipiano. Ero solo coi miei pensieri. Vidi il tramonto di
Allora la luna si alzò dal mare, rossa, grande e rapida, rallentò la sua ascesa e si fece piccola, bianca e fredda. Ai suoi raggi rividi, nella penombra, tutta Agrigento. La terra nera si andò disegnando di borri e di campi, emersero dalle basse boscaglie d’ulivi i colonnati scuri. Quella notte rimasi lungamente così, là, nell’estasi della mutafuoco, poi il crepuscolo violetto, poi si fece notte.
Si accesero i lumi della città, laggiù cominciò a brillare il faro di Porto Empedocle e, sul mio capo, le stelle. I rumori si spensero a poco a poco intorno a me, tutto divenne buio nelle case dormenti.
estratto da Sicilia 1898 di Luigi Vittorio Bertarelli