Estratto dall’opera Viaggi in Italia per Francesco Gandini pubblicata a Cremona nel 1832
Da Castrogiovanni a Girgenti.
Passato il Salso nel voltare il cammino verso mezzogiorno si va a Girgenti 24 miglia ad occidente della foce del fiume. Cocalo principe sicario fece fabbricarsi dal famoso Dedalo che era venuto a trovarsi un asilo in Sicilia una fortezza dove potea seco conservare le immense sue ricchezze; fu essa fatta da quell’ architetto sopra una rupe assai scoscesa da tutte le parti , e non avendo che una sola entrata ridotta da esso stretta e tortuosa! capace di essere difesa da tre o quattro uomini. Si fece ciò avanti la guerra di Troja.
I Gelesi cento e otto anni dopo che era stata fondata la loro città , vennero ad abitare la fortezza di Cocalo, ingrandirono la città , e la chiamarono Agragas dal vicino fiume. Con un vasto e fertilissimo territorio, e a poca distanza dal mare, e con gran numero di abitanti Agrigento divenne straordinariamente ricca e popolata. Secondo si narra in Diogene Laerzio nei migliori tempi della sua prosperità ebbe ottocentomila abitanti , e il suo lusso diede luogo a quel che dicevasi che gli Agrigentini si davano ad ogni sorte di piaceri come se dovessero morire 1′ indomani, e fabbricavano come se dovessero vivere sempre. La vicina Cartagine come fu la sorgente principale della ricchezza agrigentina per il traffico dei prodotti 2 fu egualmente la causa della sua distruzione. l’anno 4 della olimpiade 93 Amilcare la devastò a ferro e a fuoco ; egli la trovò con duecentomila abitanti ma con vasti tesori. Risorta poco dopo dalle sue rovine fu con varia fortuna per il corso di molti secoli finchè il genio maligno che annientò la Grecia passò anche il suo ferro sopra le più grandi città della Sicilia. Non potrete vedere che i resti della sua antica grandezza e magnificenza; non è abitata che la sola fortezza di Cocalo , come a Siracusa dove lo è la sola Ortigia la prima abitata ; lo squallido, e logoro cadavere della famosa Agrigento giace quasi tutto nel vicino contorno coverto di erbe , e nelle mani del tempo divoratore.
Pria dell’ aurora portatevi sopra 1′ altura della Rupe Atenea o di Minerva presso le rovine dei tempj di Giove Atabirio, e di quella Dea; altura che lo stesso Polibio assicura essere la più alta cima di tutte quelle rupi scoscese. Da quel punto gettate lo sguardo sopra lo spazio sottoposto sino al mare ; il primo lume del giorno spargerà un’ aria di mistero e di sacro sopra le rovine di quei tempj numerosi seminati in tutta 1′ estensione come se fosse 1′ Olimpo. Il raggio del sole andrà sviluppando ciascheduno di essi dal caos della notturna oscurità, e la vista eserciterà sopra l’immaginazione una forza magica. Quanto lusso! quanta ricchezza! quanta magnificenza! sarebbero inconcepibili se non si sapesse che vi furono impiegate tante migliaja di prigionieri come a Siracusa, fatte dal gran Gelone alla battaglia d’Imera. Ma tutto passa e molte di quelle rovine possono appena dare l’idea di ciò che furono un tempo.
Non restano che un pezzo di muro e alcuni gradini del basamento del creduto tempio di Giove Polieo; poche vestigia del tempio di Minerva dove vi perì con il fuoco da lui stesso appiccato agrigentino Gellia famoso per la sua ospitale generosità, che evasi ivi ritirato mentre i Cartaginesi saccheggiavano la città, e del tempio di Giove, nome che avea in Rodi dal monte Atabiri, e che gli avevano dato ivi i coloni venutivi da Gela come narra Polibio. Andando verso oriente dove la estremità della Rupe Atenea fa un angolo si trovano i resti del tempio di Cerere e di Proserpina, oggi chiesa di S. Biagio. In un sito naturalmente assai scosceso, e reso piano dall’ arte si elevava di forma quadrilatera la cella di cui esiste una parte, cinta dal peristilio dal quale vi si entrava ; non pare che avesse avuto colonne, ed esso dovea essere venerabile per la sua semplicità ; sussiste ancora la strada tagliata nella roccia per dove vi andavano gli Agrigentini. Vi si veggono alcuni resti delle mura della città espugnate dai Cartaginesi, e un poco a mezzogiorno vi si osserva un residuo di porta.
Più al basso è il Tempio di Giunone Lucina; si eleva sopra un immenso stilobato che dare dovea all’edificio una grande sveltezza; su di esso i gradini , e sul loro alto piano posavano le colonne doriche senza base e striate. In un fianco, delle tredici colonne che lo formavano ne restano alcune in piedi sopra le quali è gran parte dell’architrave, ed alcune nell’ altro. Era la lunghezza da colonna a colonna 125 piedi e 552 e cinque sesti la larghezza; le colonne 34, gl’ intercolonnj ineguali come negli altri tempj; ciascheduno delle due fronti del muro della cella avea due colonne. Nel vasto stilobato evvi in un angolo della faccia a settentrione una picciola porta per la quale si va nell’ interno del tempio; si veggono le porte che davano 1′ entrata nei corridori. Nel tratto delle mura che da quella parte guardavano la città si osservano scavi e stanze tagliate nel sasso; non sono sepolcri di quei tempi poichè allora non si seppelliva dentro le mura ; sono dei secoli posteriori , allorchè le mura non furono più di difesa alla già da molto tempo distrutta città. Sono le antiche stanze sepolcrali quelle che si veggono in varj luoghi fuori le mura e che sono assai spaziose, e proprie per una popolazione quale era quella dell’ antica città nei floridi suoi secoli.
Dopo circa 300 passi verso occidente si trova il Tempio detto della Concordia.
La iscrizione che si mostra ora nella piazza della città Concordiae agrigentinorum sacrum Respublica Lilybetanorurn dedicantibus M. Haterio Candido Procos et L. Cornelio Marcello Q. Pr. Pr. per essere latina , e sopra picciolo marmo, per rammentare un fatto di cui la storia non dà alcuna memoria fra gli Agrigentini e i Lilibetani dà luogo a giusti sospetti che essa non avesse mai avuto un sito in un tempio così grande, e che si mostra dei più bei secoli greci. È quasi tutto conservato : sono esistenti tutte le pareti della cella ; essa è lunga piedi 94 e due terzi 2 e larga cima 30 ; esistono intere tutte le 34 colonne; mancano soltanto il tetto , il fregio e la cornice nei fianchi , e un pezzo del frontone. La cella ha una entrata dove è la porta s è circondata da 28 colonne scanalate doriche e che posano senza base; esse sostengono il cornicione e sono formate di quattro pezzi cilindrici di cinque piedi di diametro. Così il tempio è di quelli detti peripteri doppj.
I sei archi che veggonsi nei fianchi della cella e che servon di porte sono aperture posteriori ; la cella non avea mai porte laterali. Il tempio ha nella base circa 154 piedi di lunghezza e 55 di larghezza; posa sopra 6 gradini che si elevano sopra un alto piano ; e l’altezza dell’ edificio è di 36 piedi. Bisogna allontanarsi un poco ma sempre in sito più basso per provare la grande impressione che fa quel greco magnifico edificio, il più conservato sacro monumento dell’ antica Sicilia. Le colonne doriche in doppio giro danno l’ idea di una grande solidità; ma esse non pesano, e sfuggendo allo sguardo sembrano elevarsi leggiere nell’ aere : l’occhio non è distratto da vani e puerili ornamenti : i triglifi e le metope sono distribuiti con somma avvedutezza ; i primi non corrispondono sempre al mezzo delle colonne; negli angoli come per dare solidità si dividono in mezzo e sopra i frontoni segnalano il mezzo dell’ architrave. La costruzione è imponente per la durata; è in grosse masse quadrate, esattamente commesse tra loro; non evvi affatto calce.
Seguendo il cammino, poco dopo , la roccia presenta molte stanze sepolcrali in essa scavate; essendo in luoghi fuori le mura e intorno alla città sono certamente antichi sepolcri e luoghi di tombe ; essi fanno ricordare di quanto avvenne nel primo assedio dei Cartaginesi.
Annibale volendosi avvicinare alla espugnazione per diversi punti , ordinò che si demolissero i sepolcri, e il materiale si ammontasse presso le mura sino alla loro altezza; subito fu eseguito ciò da un esercito tanto numerosa, ma quando si venne al magnifico sepolcro di Terone, un filmine lo colpì ; parve aver esso annunziato così lo sdegno celeste contro i profanatori di quei siti di pace , ciò che venne confermato nelle loro menti dalla fiera peste che invase tutta l’ armata; infelici perivano fra le più gravi angosce e fra i più atroci dolori ; il morbo attaccava la testa occupata già dalle idee di terrore e di spavento; nella oscurità delle notti credevano vedere sotto figure spaventevoli le ombre raggirarsi intorno alle loro tombe demolite, lo stesso Annibale morì. Imilcone che gli successe nel comando, ordinò subito che si cessasse di devastare oltre quelle sacre stanze, e. sacrificò un fanciullo a Saturno e alcuni sacerdoti a Nettuno.
A poca distanza ad occidente evvi il Tempio di Ercole. Questo è quello che Cicerone avvisa di aver veduto, e che era non lungi dal Foro; non vidi mai egli aggiunge cosa pii bella della statua di quel Dio in bronzo che in esso si venera ; era logora nella bocca, e intorno al mento perchè nelle preghiere, e nei ringraziamenti non bolo lo veneravano , ma Io baciavano. Non è oggi che un mucchio di rovine , di colonne rotte , di resti della cella , di fondamenti , e di capitelli rovesciati sopra l’ erba e fra le spine; ma esse sono ancora imponenti , ed osservandole in alcuni dettagli dell’ arte, si trova molto con che ammirare ancora la perfezione, e la sublimità della greca architettura. Del vicino foro non ne resta nè anche un vestigio. Andando verso mezzogiorno si trova un edificio ben conservato ; la costruzione è in masse quadrate, un zoccolo quadrato con base e cornice di lavoro finito; sopra di esso un secondo ordine con quattro colonne scanalate agli angoli e poste nel muro: porte finte nelle quattro facce, e in alto l’ ordine dei triglifi che ornano il fregio. L’ esteriore è di stile ionico di cui se ne veggono le volute , e il sopraornato è dorico. L’interno presenta una stanza quadrata dl 8 piedi e un terzo di larghezza 2 e che corrisponde al secondo ordine. Si crede essere il sepolcro di Terone tiranno di Agrigento, quello che fu colpito dal fulmine, e risparmiato dal ferro cartaginese ; ma le ottime qualità di quel buon re avranno dovuto meritare un monumento più nobile assai dai riconoscenti e magnifici Agrigentini. Si è creduto da altri sepolcro di un cavallo. Quale distanza fra l’una e l’altra opinione!
Scendendo ancora a sinistra si trovano le rovine del l’empio creduto di Esculapio , ma senza alcun fondamento;
secondo la testimonianza di Polibio quel tempio non era nella parte occidentale per dove si andava ad Eraclea , ma nella parte Opposta. Non si sa dunque a quale Dio appartengono quelle rovine che consistono in una fronte, un pilastro, e un resto di tre scalini sopra i quali elevavasi 1’edificio. Sappiamo da Cicerone che nel tempio agrigentino del Dio della Medicina eravi la famosa statua di Apolline nella cui coscia a minute lettere di argento leggevasi il nome di Mirone: i Cartaginesi l’ avevano portata in Affrica , Scipione da Cartagine l avea restituita agli Agrigentini e Verre l’avea loro rubata. Polibio dice che i consoli vedendo che i Cartaginesi non uscivano più contro i Romani, ma combattevano da lungi con saette , diviso 1′ esercito in due parti , ne posero una al tempio di Esculapio , e 1′ altra nella parte verso Eraclea ; quel tempio dunque non potea essere nella parte occidentale. Scendendo ancora verso libeccio si arriva al confluente dei due fiumi Drago, e S. Blasi , già Ypsas ed Agragas; essi circondavano la città come dice Polibio che esattamente la descrisse. Più oltre, a 4 miglia dalla presente Girgenti si trova il molo, e il caricatore il più grande, e il più interessante di tutta 1’isola; ivi il grano s’immette in maggazzini scavati nella roccia calcarea conchigliare nei quali non si teme nè 1’umidità , nè quella specie di fermentazione che subisce talvolta il grano, male di cui spesso si risentono i grani di Levante.
Risalendo per la strada a poca distanza dai tempio di Ercole si osserva il sito del famoso Tempio di Giove Olimpio. Non vi si trovano che rovine immense ammassate confusamente, e pezzi enormi crollati dai loro posti. Diodoro ne ha fatta una esatta descrizione. La costruzione , egli dice dei sacri edificj di Agrigento , ma soprattutto quella di Giove dimostra la magnificenza degli uomini di quel tempo; poichè gli altri tempj sono stati consumati dal fuoco o interamente distrutti nelle frequenti espugnazioni della città. Il tempio di Giove Olimpio , essendo già sul punto di avere il tetto lo impedì la guerra che sopravvenne; dopo di quel tempo distrutta la città gli Agrigentini non furono più nel caso di dar fine all’ edificio e di perfezionarlo. Ha 340 piedi di lunghezza, 6o di larghezza 120 di altezza senza comprendervi il basamento: è il più grande della Sicilia e per la vastità della sua massa è degno di essere paragonato con gli esteri. Benchè non fosse stato compito , fa vedere pure con quanta grandezza fosse stato costruito; poichè mentre gli altri tempj sono cinti di soli muri , o di colonne, questo riunisce e l’ uno e l’ altro modo. Le colonne sono insieme con il muro : sono esse di figura circolare , ma quelle dell’ interno quadrate; la parte delle colonne che resta fuori del muro è di 20 piedi di giro la larghezza delle scanalature è tale che il corpo di un uomo vi può stare dentro. Il diametro delle colonne quadrate di dentro è di 12 piedi: i portici hanno una grandezza e una altezza prodigiosa; nella loro parte orientale vi è rappresentata la guerra dei Giganti , eccellente per la scultura , per la grandezza e per la eleganza del lavoro nella occidentale , la guerra di Troja dove ciascheduno eroe vi si riconosce ai suoi tratti ed ai caratteri propri a ciò che in essa fece. Diod. I. 13.
È a sapersi secondo narra lo stesso nostro storico che fuggiti gli Agrigentini nelle varie città della Sicilia , il generale cartaginese prese Agrigento 1’anno 4 della Olimpiade 93 dopo sette mesi di assedio. Essendo vicino l’inverno, egli non fece allora diroccare la città perché i soldati vi avessero potuto passare quella stagione , ma pose il fuoco ai tempj ; al principio della primavera ‘però Agrigento fu di-strutta dai fondamenti e vennero tolti dai tempj le sculture e i nobili ornamenti che il fuoco non avea potute consumare. Il tempio che si dice oggi della Concordia , e questo di Giove Olimpio mancando di quelle materie combustibili di cui erano formati i tetti non erano caduti preda dell’ incendio, e noi abbiamo veduto che sino al tempo del nostro Diodoro quest’ ultimo mantenevasi ancora in tutta la sua conservazione ; forse le tante ricchezze che erano negli altri diedero occasione ai soldati di abbatterli e distruggerli. Si è da molto tempo riconosciuto che nel testo greco il numero 6o della larghezza è viziato; non può ammettersi che in questo solo tempio i Greci avessero data alla larghezza un sesto circa della lunghezza, ciò che non si trova in quasi tutti gli altri. Dalle osservazioni locali fatte sotto le rovine si ricava che i frontespicj avevano 8 colonne per ognuno , di 11 piedi di diametro, e quindi 7 intercolonnj della stessa misurai la larghezza dunque era di 18o piedi francesi , o 190 greci come dovea essere scritto in Diodoro ; la lunghezza da muro a muro è di 323 piedi francesi , o 340 greci quanto ne assegna il nostro storico. L’ edificio colossale abbandonato a sè stesso e al proprio peso enorme, devastato può essere nei secoli d’ ignoranza finalmente secondo la asserzione di Fazello nel 1401 cadde quella ultima parte che era di esso rimasta , e che era restata appoggiandosi a tre Giganti , e colonne, onde avea acquistate presso il volgo il nome di Palazzo dei Giganti.
Non è più che un ammasso immenso di pezzi giganteschi travagliati dalla mano degli uomini; restano i fusti delle colonne che come si è detto erano incassate nel muro onde il tempio era pseudo-periptero; sono formate di pezzi a segmenti di circolo e a cunei , che andavano poi dentro a combaciarsi con un’ altra pietra che costituiva come l’ asse della colonna. Le strie sono undici nella parte che resta fuori , e che è un poco più della semicirconferenza: al di sotto del capitello esse hanno i8 pollici di larghezza , e tenendo conto della rastremazione nel dorico, nell’imoscapo avevano circa 23 pollici , capacità bastante a contenere il corpo di un uomo. Come si vede da alcuni resti 2 e le colonne e gli altri membri della fabbrica erano coverti di forte stucco per riempire le cavità naturali di quella roccia calcaria conchigliare, porosa e poco compatta.
La linea dell’ Echino è una curva clic dà lo sporto necessario alla grandezza dei membri dell’ enorme edificio , ed è molto graziosa alla vista. P. ammirabile a questo riguardo il gusto dei Greci che seppero con bella e vaga maniera variare e modificare questa curva nei diversi tempj della Sicilia ; essa si ripiega sotto 1′ abaco e inversamente nel sommoscapo. I triglifi hanno quasi io piedi di altezza; essi sembrano grandi cavità , come le metope sono formate da enormi massi. Il capitello era fatto di 4 grossissimi pezzi. La cella avea 24 pilastri isolati. Lo stilobato sostenea la base continuata 7 separato da una picciola lista dai quattro gradini sopra i quali elevavasi il tempio. Vi sono fra le rovine tre giganti di cui s’ignora 1′ uso; vi sono resti di bocche , di teste, di braccia ec. oltre a una immensa varietà di altri simili pezzi che l’incuria da una parte e l’ignozanza dall’ altra hanno fatto toglier via dal luogo dai forastieri che hanno creduto portare seco sacre reliquie del paganesimo. Sono questi frantumi delle due opere sulla guerra dei Giganti, e sulla guerra di Troja di cui parla Diodoro. E a desiderarsi che si vogliano dare i mezzi onde restituire nel suo antico essere il più che sarà possibile questo edificio monumento interessante per la antica Magnificenza di Agrigento e della Sicilia.
Progredendo avanti si trovano le reliquie del Tempio detto di Castore e di Polluce; sono pezzi di muri, scalini, e resti di colonne scanalate. Si giunge a un vallone assai profondo che credesi quella Piscina di cui parlano Pindaro, Diodoro ed Ateneo; ma per sole incerte e deboli congetture.
A S. Nicolò vi sono resti di un picciolo antico edificio, e molti altri in tutto il contorno che può il viaggiatore andare osservando.
Del Tempio detto di Vulcano che è fuori le mura antiche non restano che due colonne in piedi , ma senza capitello e parte dello rovinato stilobato. Sono degne di osservarsi le rovine del ponte sopra la valle detta oggi di S. Leonardo. Si mostra una meta per un naturale ippodromo; si addita il sito di un teatro, ma assai incerto. È un equivoco di Frontino che Alcibiade parlando al popolo nel teatro di Agrigento, le sue truppe entrarono nella città per una parte poco custodita; il fatto avvenne a Catania come abbiamo da Polieno di accordo col nostro Diodoro; gli Ateniesi non assediarono mai Agrigento.
La parte superiore della città offre varj oggetti ad osservarsi. Sortendo dalla Porta di Mazzara , si trovano i luoghi fortificati da Dedalo; la Porta del cannone era 1′ adito strettissimo per dove si saliva tortuosamente alla Rocca e che potea difendersi da poche persone; oggi è un poco più aperto; a destra da ogni parte i luoghi sono scoscesi ed inaccessibili come scrive Diodoro. Forse i nascondigli dei tesori del re sicano Cocalo erano in quelle enormi lunghissime ed intrigate sotterranee cavità che ivi si osservano ma che non contengono da lungo tempo che la sola oscurità ; pare che Dedalo le avesse costruite secondo il piano del cretose laberinto.
Gli abitanti di Girgenti pieni di ospitalità e di zelo per 1′ antica loro patria mostrano belle raccolte di superbi vasi greco-sicoli di medaglie, e di diverse picciole anticaglie. Si vede nella Cattedrale un fonte battesimale già un sarcofago scolpito nelle quattro sue facce, due grandi e due picciole. La prima in alto rilievo e grande rappresenta un eroe che parte per la caccia insieme a molti compagni armati di bastoni con cani e con cavalli ; ha nella destra la lancia e nella sinistra una doppia tavoletta che mostra ad una persona a sè vicina. Una donna supplichevole e rugosa gli sta davanti con nella sinistra un’ altra tavoletta. Dietro vi sono varie persone per la caccia. Nel lato destro la faccia picciola è anche ad alto rilievo; vi si vede una donna desolata in mezzo a nove compagne occupate a consolarla; due con strumenti musicali in mano una le solleva il braccio destro e un’ altra le toglie il velo dalla testa e le scioglie i capelli. Innanzi alla sedia evvi un amorino alato con arco e con dardo col quale ha già ferito. La caccia opposta alla prima in basso rilievo offre la caccia di un cinghiale contro il quale 1′ eroe a cavallo scaglia la lancia e che nello stesso tempo assaltano cinque cani , e cacciatori compagni con pietre e con aste. Il campo è una selva di densi alberi.
Nella faccia sinistra alla prima e picciola, pure a basso rilievo si vede l’ eroe morto strascinato dai suoi cavalli e ravvolto nelle rote del carro rovesciato ) e nelle redini. Un mostro marino con testa alta e collo squamoso sembra avere spaventati i cavalli e stringerli a ripiegarsi e a invilupparsi. Un compagno si sforza in vano di ritenere per la briglia uno di essi che è nel mezzo. In generale il disegno è imperfetto, e il piano per certi riguardi confuso non legato ed incerto. La partenza alla caccia è molto scorretta nel disegno; le mosse sono senza alcuna grazia.
Nella seconda la donna svenuta è gigantesca; la destra che porge è enormemente grande : ma la sua faccia e il suo abbandono sono di grande effetto. Il quadro della caccia non è che abbozzato ; ma il cavallo ha belle forme e attitudine spiritosa , e il servo che porta i cani è assai male disegnato. La faccia del carro rovesciato non è anche che un rude abbozzo ; il campo non è ancora nettato. Può essere una copia nella quale il mediocre artista seppe trasportare alcuni tratti soltanto dall’ originale e che compose poi a suo modo.
Malgrado ciò il marmo non lascia d’ interessare pure in mezzo alle devastazioni cagionategli dal tempo. Il cinghiale fa ricordare Meleagro uccisore del cinghiale di Calidonia ma il tutto non vi si accorda; o Finzia tiranno di Agrigento ucciso alla caccia da un cinghiale, che veggiamo espresso nel rovescio delle sue medaglie , o anche Adone lo sposo di Venere. Le scene della rappresentazione sono in accordo perfetto con la morte di Ippolito, e con tutte le circostanze che accompagnarono quel fine tragico sul quale abbiamo la bella tragedia di Euripide che Racine ha imitato poi. Fedra sposa seconda di Teseo s’ invaghì d’Ippolito figlio della prima e non occupato che nel solo studio della caccia ; respinta nei suoi desiderj la matrigna l’ accusò con uno scritto al padre come reo di attentato contro il suo onore e si trafisse il petto con un pugnale. Teseo abbandonò il figlio al furore di Nettuno. Un mostro uscito dal mare impaurì i cavalli del carro che lo conducevano all’ esilio datogli dal padre, e strascinandolo fra i sassi fu in essi rotto. Nella prima faccia Enone nutrice di Fedra presenta la dichiarazione dell’ amante all’ eroe. Nella seconda Fedra tormentata dal forte amore è caduta in affannoso svenimento. La terza scena è una caccia. L’ ultima rappresenta Ippolito vittima dell’ ira di Venere ingelosita di Diana la sola da lui amata , che infrante le rate, e spezzato l’ asse del cocchi cade stesò per terra , ed è strascinato involto fica le briglie come dice Euripide.
Addio onesti amici che abitate la grande città alle sponde del biondo Agragas, diceva ai suoi concittadini 1. illustre Empedocle, in quel tempo che essa avea 800 mila abitanti , e lusso e ricchezze immense. Voi potete dire ora, addio luoghi famosi un tempo , ma dai quali tutto è sparito ; queste rovine preziose per istabilire la gloria e la magnificenza antica di Agrigento che le storie proclamano annunziano agli occhi dell’ osservatore filosofo il fine di ogni grandezza umana , i cangiamenti che i varj secoli apportano, e le opere di una sorte capricciosa.
Macalubbi.
Le montagne calcarie dietro Girgenti si abbassano, e stendono il piede sotto i luoghi bassi che sono coverti da ammassi terrosi di argilla e marna che vi formano anche molle picciole colline ; sono essi sparsi di ciottoli squarzosi e silicei, di masse di calce solfata semicristallizzata, e di copiosi pezzi di ferro solforato coverti di cristalli color di oro. Cinque miglia fuori la città verso tramontana, evvi un piano di circa mezzo miglio all’ intorno, un poco affondato nel centro , e da una parte cinto da una valle poco profonda. Alcune acque che sorgono mostrano ivi alcuni globetti di petroleo alla loro superficie. In tempo di grandi pioggie il piano si allaga , 1′ acqua scioglie la creta , e da varj punti del lago fangoso sorgono getti di acqua e di fango. Quando il lago disecca , la crosta si fende , e per tutto il piano , e più verso il centro le picciole correnti di aria sotterranea elevano la scorza terrosa sino a due piedi di altezza , che si rompe e si rovescia in pezzi all’ intorno di un forarne centrale di circa un piede di diametro dal fondo del quale la creta liquida spinta dalla corrente aerea si versa al di fuori , e sovente in tanta quantità che da quei coni troncati che sono in gran numero ai vede finire un torrente fangoso per un lato rotto di essi , e distendersi nel contorno.
Quando la crosta si oppone ai primi urti della corrente, questa ai ae-cumula sotto , e finalmente la spinge con uno strepito come di esplosione. Dopo le pioggie 1’acqua ivi rimasta in piccioli laghetti si vede agitata come da un moto di. ebollizione ; è salata e sparsa di globetti di petroleo. Dopo il diseccamento il sale muriatico si depone sulla creta marnosa. In alcuni tempi lo sviluppo aereo sotterraneo si fa per la sua enorme quantità in una maniera terribile, e rende i fenomeni analoghi a quelli che presenta l’Etna nelle sue eruzioni , con la differenza che debbono conservare i due potenti motori diversi , e il fuoco; tali furono nel 1777; succedonsi dopo alcuni anni ma con forza mezzana. Questi sono i torrenti di fango che sono in Sicilia di cui parla Platone nel Fedone ; descritti dai nostri storici nei tempi posteriori , nei quali si diede ai coni troncati il nome arabo di Macalubbi ossia rovesciati. Il sapore vi manifesterà il sale muriatico; l’odore bituminoso la nafta o il petroleo; avvicinate un lume ai forami, il gas si accenderli spesso con picciole esplosioni; mischiate l’ acqua ad una soluzione di calce in un bicchiere, e la vedrete intorbidare e deporre un carbonato calcare. Quelle correnti aeree dunque sono formate dal gas idrogeno che si accende e dal gas carbonico che rende l’ acqua acidetta e depone la calce. Simili fenomeni ai presentano in terreni ad alcune miglia di distanza.
Anhe a Paternò presso la base dell’ Etna si trovano sorgenti di acqua salata dette Salinelle che depongono il sale muriatico nel contorno, e sono agitate dallo sviluppo delle sotterranee aeree correnti. Nella sorgente fuori la città detta la Grascia il gas acido carbonico vi fa sopra una mortifera mofeta che ammazza gli animali, e qualche volta è stata fatale agli uomini ; quando sono lasciati a secco fanno sentire il fragore di un vento che sorte dal fondo di quelle fosse coniche. Fenomeni simili ai grandi e formidabili dei Macalubbi ai manifestarono nel marzo del a790 presso S. Maria di Niscemi alcune miglia dalla spiaggia meridionale dove è Terranova. Questi fatti sono analoghi a quelli di varj luoghi d’ Italia l e avvengono in terreni della stessa natura:
Il vado territorio di Girgenti è fecondo in ogni sorte di prodotti di vegetabili; le miniere di zolfo sono così abbondanti che ai dice in tutto il territorio trovarsene una in ogni sito nel quale si diecava, ma questo minerale combustibile è anche in estrema copia in tutti, quasi i luoghi dell’ isola di qua e di là del fiume Salso. È in tali solfanerie in così grande numero in lavoro che si raccolgono le belle cristallizzazioni di strunziana solfata, di barite e di calce solfata. Sono le miniere del solfo quelle del sale muriatico. La stronziana è. comunemente in prismi quadrangolari trasparenti di un bianco cristallino e spesso con tinta gialliccia o cinericea, e con lampo celestino; la barite in prismi esaedri di un grigio giallastro; la calce solfata in prismi esagoni bianchi, fragili e trasparenti; la calce carbonata vi è in molte delle interminabili varietà delle sue forme.
Da Girgenti a Sciacca.
Passando verso occidente s incontra il fiume dei Platani già Halycus ossia salso, perchè vi colano acque che hanno disciolto il sale muriatico delle miniere dell’interno. Un poco al di qua della sua sponda si vede un bel sito per una chili, e in esso si trovano rottami di mattoni e di opere in terra cotta e la roccia tutta del contorno è sparsa di cisterne
cavilli fatte in essa stessa. Si trova in Tolomeo l’Emporio degli Agrigentini , la foce del fiume Ipsa, Eraclea. Secondo Diodoro, i Cretesi venuti con Mi-nos in Sicilia dopo la morte del loro Re , avendo Sicani bruciate le loro navi, non potendo più ritornare alla loro patria, si stabilirono in quella città che chiamarono Minoa; fu città antichissima poichè Minos fu ucciso dalle figlie di Cocalo re sicano avanti la guerra di Troja.
Secondo dicono Erodoto e Diodoro la città fu detta indi Eraclea dallo spartano Dorieo che venne a prender possesso del regno di Erice, discendente da Ercole che lo avea avuto da quel figlio di Venere, e di Buta come premio della vittoria alla lotta; così dicessi Eraclea Minoa come scrive Suida. Divenne così presto potente che suscitò l’ invii dia dei Cartaginesi, e il timore che un giorno non togliesse il dominio a Cartagine; onde assalitala con grande armata la diroccarono dai fondamenti. Erodoto vuole che non Dorieo perchè morto nel campo di battaglia con gli Egestani, ma Eurileonte che rimase occupò Minoa che egli chiama colonia di Selinunte città non a molta distanza da essa. Risorse ma non molto considerabile. Allorchè 124 anni dopo la distruzione, nell’anno 4 della olimpiade 5 vi approdò Dione Plutarco la chiama piccola città del dominio cartaginese, e Diodoro vi aggiunge città nella campagna agrigentina. Ma si accrebbe da acqui-stare poscia con il valore la sua libertà, che le venne indi tolta da Agatocle che 1′ assaltò con grandi forze come dice lo stesso Diodoro. Era illustre al tempo di Cicerone come egli stesso scrive e ricevette una colonia romana. Oggi non ne resta che il solo sito degno di una grande città.
Seguendo dopo il cammino si arriva a Sciacca già Thaermae così detta dalle acque calde che sono nella montagna al piede della quale è la presente città. Quella montagna che è detta di S. Calogero , e che prima che vi arrivasse quel buon vecchio e santo eremita dicevasi Monte della Giummarre che è la palmetta, chamoerops humilis, ciafagghiuni dei Siciliani , di cui la montagna, e tutta quella parte dell’ isola abbonda, si eleva isolata e con massa enorme; essa è formata dalla stessa roccia calcaria conchigliare di tutto il contorno inzuppata come altrove di sale muriatico, ciò che la consacra ad una grande sterilità.
Quasi da ogni parte, da ogni fenditura escono vapori di acqua bollente e di solfo che riempiono il contorno. Al basso evvi una sorgente assai calda e solforosa; un’ altra che è purgante per i sali magnesiaci di cui è impregnata : un’ altra limpida e buona a bersi : una calda, salata , e carica di leggiero glutine calcario. Nella parte alta del fianco che guarda il mare vi si osserva un profondo e tortuoso- pozzo nel quale odesi un fragore sotterraneo come di un vento impetuoso e di una cascata di acqua. Verso la cima avvenne un altro dove sovente il fracasso sotterraneo è più forte. Fra le cavità fattevi dagli uomini nella parte alta a mezzogiorno ve n’è una dalla quale esce una copiosa corrente di caldi vapori che provengono all’ istante e piacevolmente un abbondante sudore. Nel fondo della cavità se ne apre una seconda, dalla quale si va in altra più al basso , e dove stillano gocce di acqua calda, ed esce una copiosa corrente di caldi vapori. Questo è senza dubbio 1′ antro che Dedalo formò al re Cocalo nei confini dei Selinuntini, nel quale dice Diodoro quell’architetto seppe con tanta arte raccogliere il caldo vapore che si innalza dal fondo che con tenero calore si promove il sudore insensibilmente, e con piacere i corpi ivi esposti si sanano dalle loro malattie.
È degno di osservarsi un fatto importante per la geografia fisica ; la Pantelleria isola a 7o miglia a libeccio di Sciacca , e che è l’antica Cossura , ha fra le sue grandi ed alpestri montagne una cavità che è un cratere di quell’ isola interamente volcanica , piena di acqua calda, e varie sorgenti di essa escono dal piede delle montagne attorno: non molto lungi evvene un’altra detta la Possa; da un forarne dentro il suo vuoto interno sorte incessantemente una corrente di vapori acquosi , che come a S. Calogero promovono subito il sudore; in ambedue i luoghi è detto il Bagno secco. I vapori sono condensati dall’ ambiente freddo nell’ alto della grotta e formano ruscelletti di acqua limpida e dolce. Nella cavità di un’ altra contrada ai ode un fragore come di una grossa cascata di acqua e dalle fissare della vicina montagna esce un denso fumo solforoso 7 che depone il solfo per dove passa. Il terreno intorno tutto di lave è caldo bruciante; il fumo umido ai addensa in gocce di limpida e dolce acqua sopra le foglie degli alberi del contorno. A poche miglia dalla citai dal corpo delle lave esce un fiume di acqua caldissima , che riscalda per un gran tratto il mare della vicina spiaggia. La Pantellaria offre dunque gli stessi fenomeni che la montagna di Sciacca sopra la opposta spiaggia della Sicilia; ma in quell’ isola sono prodotti dal fuoco stesso sotterraneo che cova ancora nel fondo di quelle lave che elevò esso stesso un giorno alle superficie del mare , ma nè a Sciacca , nè in tutta la Sicilia occidentale vi sono prodotti di antichi volcani alla superficie delle terre esposte alle nostre osservazioni. Sciacca è emporio di frumento che è abbondantissimo soprattutto nelle campagne della distrutta Eraclea, e si vanta giustamente di essere stata la patria di Agatocle che vi nacque da Carcino maestro di vasi di terra ; non si può negare a quel Re il carattere di un uomo straordinario per il valore militare, per 1′ ardire e per le più grandi imprese.