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I carusi e l’avventura della zolfara siciliana

You are here: Home / Storia Sicilia / I carusi e l’avventura della zolfara siciliana

28 Luglio 2014 //  by Elio Di Bella

miniera-ciavolotta

di Giovanna LAURICELLA

I “carusi” e l’avventura della zolfara siciliana.
“Mamma, nun mi mannari a la pirrera….” : è il primo verso di un canto disperato, quello dei “carusi”, le vittime innocenti della tragica avventura delle zolfare siciliane.  Nell’arco di oltre un secolo, dalla fine del XVIII secolo fino ai primi decenni del secolo scorso, in Sicilia e precisamente all’interno delle zolfare del territorio di Agrigento , Caltanissetta ed Enna, si è consumata una terribile tragedia, la cui memoria si è cercato di rimuovere: la tragedia dei “carusi”, i bambini venduti ai picconieri e sepolti vivi , violentati, gasati, sfruttati nell’inferno torrido, buio e sulfureo delle miniere….

La richiesta di zolfo, aumentata durante le guerre napoleoniche per l’enorme impiego di polvere pirica ed in seguito alla scoperta del metodo Leblanc per la produzione della soda, determinò un vero boom estrattivo in quest’area, già socialmente devastata dall’economia latifondista. Ad usufruire di questa sciagurata risorsa non fu naturalmente il popolo siciliano, ma le compagnie straniere (antesignane delle moderne multinazionali) come la francese Taix, Aicard et C.le, e poi alcune sparute categorie di persone, estranee al processo produttivo: sensali, magazzinieri, speculatori vari ed i proprietari terrieri.

In Sicilia vigeva infatti l’arcaico principio, già scomparso nelle zone toccate dalla ventata riformistica del ‘700, della proprietà terriera , in base al quale chi possedeva il terreno, possedeva anche il sottosuolo. I proprietari non gestivano mai direttamente la miniera, ma la concedevano in “gabella” a modesti imprenditori. Questi “gabelloti” dovevano corrispondere al proprietario l'”estaglio” (che arrivava fino al 30% della produzione) ed avevano l’obbligo, allo scadere del contratto, di lasciare gli impianti costruiti.

Tutto ciò portava al radicamento di sistemi di lavoro del tutto primitivi, ed allo sfruttamento del giacimento allo scopo di ricavarne il massimo profitto. Nei cunicoli stretti, bui, senza ventilazione, sempre più profondi e scoscesi, lavorava, accanto al capomastro ed ai picconieri, (“li pirriatura”, che abbattevano ed estraevano il minerale), un’enorme massa di “ragazzi”, che, in numero anche di due o tre per famiglia, iniziavano, anche a sei anni di età, una vita infernale, che li avrebbe presto uccisi o storpiati a vita. Alla visita di leva del quadriennio 1881 – 84, su 3872 lavoratori delle zolfare, solo 202 furono dichiarati abili (A. di S. Giuliano, “Le condizioni presenti della Sicilia” Milano, 1894), mantre Raclmuto, uno dei più grossi centri minerari dell’agrigentino, era chiamato il paese “di li jimmiruti” (dei gobbi).

I carusi erano alle dirette dipendenze del picconiere, che li ingaggiava (anzi li comprava!) dalla famiglia, alle quali versava il “soccorso morto”, una sorta di pagamento anticipato che faceva del piccolo sventurato, fino all’impossibile estinzione del debito, uno schiavo da sottoporre a qualunque tipo di sfruttamento e di violenza, dalle botte (ed erano la norma) allo stupro. Il loro compito era quello di portare il minerale in superficie, addossandosi sulle spalle, in un sacco legato alla fronte, un carico di almeno trenta chili per volta, nudi per l’eccessiva calura, con una grossa pietra sulla nuca per fare da contrappeso, tra il caldo asfissiante e le esalazioni sulfuree, su per i ripidi scalini sfalsati, fino al vento gelido dell’esterno (è rigido l’inverno nell’interno della Sicilia!), dove percorrevano l’ultimo tratto, fino al “calcarone”, dove lo zolfo veniva fuso (ancora calore!).

Ed il tutto per sedici ore al giorno, con l’incubo costante dei crolli, delle violenze e delle esplosioni di grisoux. L’eco della loro disperazione ci è giunta, oltre che dalle pagine della grande letteratura siciliana, anche da struggenti canti popolari sopravvissuti all’oblio del tempo, come questo raccolto a Racalmuto: “Mamma, nun mi mannari a la pirrera Ca notte e jornu mi pigliu turrura. A mala pena scinnu a la pirrera S’apri lu tettu e cadinu li mura. Accussì voli la mala carrera…” ….e dopo il terrore del buio e della morte (“Mamma,non mi mandare alla miniera, chè notte e giorno ho un grande terrore.

Appena scendo alla miniera, si apre il tetto e crollano i muri , i versi successivi scandiscono l’ansia del conteggio alla rovescia , quando la luce sempre più fioca della “lumera” indica al caruso che si avvicina l’ultimo viaggio della giornata verso il suolo, dove l’aspettano “li robi ed un tozzu” (i vestiti ed un tozzo di pane) ….ed a volte la luna, come per il Ciaula pirandelliano, che la “scopre” con gioia dopo una terribile esperienza di panico claustrofobico. Poi, per chi non viveva dentro le zolfare stesse, c’era il lungo viaggio quotidiano di andata e ritorno dal paese, sempre al buio: “….Cà no pi iddri,/ pi l’erbi di lu chianu/, luci lu suli biunnu a la campia…” (perché non per loro, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba fino oltre il tramonto, ma per le erbe del pianoro brilla il sole biondo per le campagne….): così Alessio Di Giovanni, il poeta che meglio di ogni altro è riuscito ad interpretare l’avventura tragica della zolfara siciliana. Eppure > conclude Leonardo Sciascia alla voce “Zolfo” del suo “Alfabeto pirandelliano”

Tratto da: Giovanna LAURICELLA: ” La Girgenti pirandelliana tra passato e presente” da una rilettura de “I vecchi e Giovani”, Appendice. Agrigento, 1993.

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Categoria: Storia SiciliaTag: storia sicilia

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