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festa di san calogero
festa di san calogero

San Calogero: festeggiamenti ad Agrigento un secolo fa

29 Giugno 2018 //  by Elio Di Bella

Nato in Calcedonia nel quarto secolo, benché versato nella coltura pagana, fu, sin da fanciullo, fervente cristiano, e per avere seguito con eccessivo zelo ed ardore i precetti di San Basilio di Cesarèa, la scampò bella, grazie alla miracolosa missione, cui Dio l’avea destinato.

Infatti egli fu tra quegli ottanta sacerdoti, i quali andarono in deputazione dall’imperatore Valente, a scongiurarlo che cessasse dalle persecuzioni accanite contro gli ortodossi della Chiesa Cristiana: il principe, profondo dissimulatore come molti dei suoi pari, finse ascoltare con orecchio benevolo le istanze dei sacerdoti, protetti dall’intiero popolo di Costantinopoli, le cui ire Valente non voleva sfidare ; ma a sfogare la sua collera, suscitata da tanta audacia cristiana, ordinò fossero esiliati i deputati de’ fedeli, non privilegiati come quelli dei moderni parlamenti.

L’esilio, però, era una scusa dovendo il prefetto del pretorio farli perire, mentre erano in alto mare, che ossequente ai voleri imperiali, inghiottì, senza tanti complimenti, un intiero naviglio, cui quei cani di marinai avevano dato fuoco. Fortunatamente nella nave di Calogero i marinai non erano di cuore troppo duro, tanto che il nostro Santo con la sua commovente parola li impietosì, li convertì alla nuova religione, ed ottenne che le vele fossero spiegate a discrezione del vento, conducente la barca a Lipari.

Lipari, però — non per nulla vi si mandano i coatti — si mostrò ostile alla propaganda cristiana, e perciò rimessisi i pellegrini in mare, una corrente li portò a Lilibeo, affatto diversa dalla moderna Marsala, famosa per avere portato in trionfo un apostolo contemporaneo, dalla spada invincibile.

La plebaglia di Lilibeo, allora non comprendeva la nobile lotta per un’idea, ed infuriata uccise due compagni di Calogero, Demetrio e Gregorio, acquistanti così la palma del martirio, ed il nome di santi.

Il beato di Calcedonia, che oltre dell’eloquenza, sembra fosse dotato di tutte le arti di un accorto e prudente politico, fu risparmiato, a condizione che subito se n’andasse, temendo molto della sua parola affascinante i sacerdoti degli dei falsi e bugiardi.

Ed ecco Calogero solo, col suo bastoncello, in cammino per la deserta spiaggia siciliana, guidato dalla semplice misericordia divina che a lui sufficiente, da lontano gli fece apparire un bel monte maestoso, verso cui il pellegrino si dirizzò, attratto come da incanto : e davvero incantevole è quel monte Cronio, avente, quale avanzo d’un vulcano, delle benefiche acque sulfuree e delle caverne piene di vapori, i quali, facendo sudare copiosamente chi dentro vi sta rinchiuso, come in istufe, guariscono di parecchi mali.

Le proprietà medicamentose delle « terme » e delle « stufe » non furono ignote agli antichi, ed un architetto greco, Dedalo, si dice abbia scavato od allargato delle grotte e costruitovi de’ sedili per gli ammalati, sul Cronio, che a cavaliere di Sciacca offre una deliziosa veduta di verdi pendici, di bianche strade, di ville e di case scendenti al mare azzurro sconfinato, internantesi, a pie’ della città, in tante bellissime insenature.

Sul monte, in una spelonca, prese stanza il fervente discepolo di Cristo, e sua prima cura fu catechizzare la popolazione della sottoposta città, detta Terme : un bel giorno essa, grazie ad un incessante apostolato, si fe’ tutta battezzare dall’eremita, che per le guarigioni ottenute di molti mali curati sul Cronio, coi vapori delle « stufe » ben presto salì in fama di taumaturgo, e tutta la Sicilia a lui accorreva o insistentemente lo chiamava nei diversi paesi ad operare miracolose guarigioni o tali ritenute dalla ingenua fede di quella semplice età.

Cresciuto il taumaturgo negli anni, che molti, gli procurarono forse il nome greco di Calogero — bel o buon vecchio — non poteva mangiare cibi grossolani; e sarebbe finito d’inedia se i suoi discepoli non gli avessero addomesticato una cerva del cui latte si alimentò per parecchio tempo. Ma ci ficcò la coda, quel maledetto demonio, sempre ribelle — non par vero — il quale spinse un dannato cacciatore, Siero, a lanciare una sua indiavolata freccia contro la mite cerva, pascolante tranquilla tra le tenere erbe : la poveretta, ferita, corse dal buon Solitario, a cui riuscì inutile qualunque cura, e così cerva e Santo non poterono che rassegnarsi al duro fato, e volare in grembo a quell’ Infinito davanti al quale siamo tutti ignoranti e da cui nessuno è ritornato.

Fra i paesi visitati da San Calogero, vi fu la mia città natale, Girgenti, una volta grande e bella come una metropoli; ed i buoni agrigentini, memori del segnalato favore e dell’onore speciale, gli eressero a pochi passi dalla città una chiesa, misera in vero, che ha sulla sua porta, in alto, la statua del Santo, nero in viso, dalla barba bianchissima, fluente sul bruno mantello, in atto di leggere attentamente un libro — benché ai suoi tempi la sola Cina conoscesse la stampa — mentre la cerva gli sta accovacciata ai piedi. Perchè nella fantasia popolare San Calogero, appartenente alla razza bianca, si sia raffigurato di colore nero non si sa, come non puossi spiegare quell’anacronismo del libro stampato messogli nelle mani. Checchesia di ciò, si son mostrati irreverenti quegli scomunicati di mia conoscenza, i quali, pel suo viso nero, battezzarono l’eremita del Cronio, il Santo dei Krumiri, di gallica memoria: l’avessero almeno chiamato l’antico Ras-Alula, o il primitivo Nelusko, si avrebbe avuto un miglior sapore paesano od artistico, a parte il rispetto dovuto a chi spese la sua vita pel trionfo della Fede.

Ma ritorniamo alla chiesa, chiusa grandissima parte dell’anno e di quando in quando ripulita da Fra Manuele, imprecante a questi brutti tempi, scarsi di questue e di doni, non sufficienti a fargli comprare una tonaca, che butterebbe volentieri alle ortiche, se non fosse pel santo amore della religione; e dicono perciò il falso quelle cattive lingue, sussurranti che Fra Manuele dal suo ufficio ci ricava oltre che lo scapolare, di che mangiare lui e la mula, e di che mettere da parte. Calunnie ! Se non che viene anche per Fra Manuele il bel tempo : nella prima domenica di giugno, quando le musiche suonano per lo Statuto la marcia reale, la chiesa di San Calogero s’apre ai fedeli, o meglio alle fedeli, che senza scarpe, in semplici calze — ridotte d’un colore indecifrabile — traggono a frotte numerose al santuario, e dalla prima ora del tramonto sino a tarda sera, è un via vai di donne, tra cui vi sono profili greci correttissimi, o abbondanti forme di seducenti africane.

Arriva la benedizione, con forte scampanio ed un batter di tamburi suonanti fuori la chiesa come se si chiamasse a raccolta. Poiché, mio amabile lettore, devi sapere che i tamburi sono una caratteristica curiosissima della festa di San Calogero: negli ultimi giorni di giugno, dieci, quindici, od anche venti suonatori del bellico strumento si riuniscono e contemporaneamente, a tutta forza, con vera rabbia, danno con le grosse bacchette su i loro tamburoni, traendone infinite variazioni, che sempre finiscono col monotono e celebre bra pa ta bra.

Fermi in circolo, il loro capo suona da solo delle battute; seguite a misurati intervalli dal rullare fragoroso degli altri tamburi, attorno a cui s’assiepa la gente, mentre vociano e fanno capriole i monelli. E dopo un’ora di un tal bel divertimento, che vi accarezza le orecchie e vi fa innalzare fervide preci a San Calogero, finisce il rollo — il rullo — ed i tamburinai s’incamminano col bra pa ta bra; salvo alle comari di far le lodi del capo-tamburo, mastro Luzzo, non portante senza un perché il nome del Santo, i cui innumerevoli diminutivi e vezzeggiativi, entrano in ogni famiglia, e per ciò ad ogni angolo di Girgenti si sente gridare : Luzzu, Caluzzu, Calorio, Caliddu, Lottò, senza contare le modificazioni di questi nomi, con aggiungervi in fine un iddu ed un eddu.

La festa di San Calogero si celebra con grandissimo onore nella prima domenica di luglio; il giovedì, precedente a questa domenica, si porta al Santo dai devoti una gran quantità di cera, accompagnata sino alla chiesa con ogni sorta di riguardo, non escluse le marce della banda cittadina, che, malcapitata, si spolmona dalle prime ore del mattino, sino a tarda notte.

Il venerdì, nel pomeriggio, arriva da qualche piccolo comune della Provincia una musica, distinta per elmi o kolbac piumati e per una certa confusione di suoni, sovrastati da altissime e rimbombanti note della gran cassa colossale, dei tromboni, e dell’acutissima sì, ma sfiatata cornetta : la sera illuminazione del boschetto civico.

Il sabato prepara grandi meraviglie : lungo il giorno giungono alla rinfusa dai paesi circonvicini gaia gente, e pezzenti e malati, mostranti alla luce del sole i loro cenci e le loro piaghe; mentre le musiche s’alternano con il frastuono dei grandi tamburi. Abbuiato, lungo i marciapiedi della via, fuori Porta di Ponte, s’innalzano le baracche, dalla bianche tende e dai lumetti fumosi dei venditori di cobaita — specie di torrone — dei semini, dei ceci abbrustoliti, delle nocciole infornate, senza scorza, dei giocattoli e delle figurine sacre.

La gente, uscita tutta dalle case — scasata — s’affolla lungo la via polverosa che il municipio ha il generoso e gentile pensiero di non innaffiare, e si ferma a guardare gli archi delle fiammelle di gas, avanti i giardinetti pubblici, in cui ci si vede come di giorno; ed i globi di luce attraverso il verde fogliame fanno pensare alle ville delle fate.

La musica civica sotto il palazzo provinciale, dalle alte e larghe finestre illuminate, attira molte persone, e tra tanto gaudio d’occhi e d’orecchie concia per benino certi pezzi di Bellini o di Verdi, con quel tale spesseggiare di rimbombi e di sfiatamenti, coperti in parte da grida, schiamazzi e risa.

Una popolazione infinita s’assiepa sulla piazza San Filippo a vedere le girandole infiammate, esplodenti di tanto in tanto, o a guardare col viso in aria i razzi serpeggianti e fischianti o quelli rompentisi in colonne rutilanti, accolte con esclamazioni di gioia e di lode. Ma ecco che un primo sparo parte dal « castello di fuoco » che ad un tratto tutto s’infiamma, rappresentando chiese, case, paesaggi, e figure simboliche con continui scintillìi e scoppiettìi, superati alla fine dall’enorme tuonare d’una bomba dopo di cui il «castello » s’oscura, restando un alto e grande scheletro di legno, fumante e crepitante.

Dall’alto la luna, con la sua tonda faccia bonaria, sorride su quella folla di persone, che ingombrando le vie della città, non contenta, si riversa nei caffè e nelle taverne, ed allegra, avvinazzata, sino all’alba canta stuonate canzoni allo strimpellio di mal connesse chitarre; ed i canti non sono cessati che tra il dormiveglia, sentite delle voci gridare : Lu Santu di li grazii, divoti ! Chistu e lu jornu di li veri grazii!

E siamo in realtà alla prima domenica di luglio, il giorno più solenne della festa, annunziato prima che sorga il sole dalle grida riferite, emesse da uomini che convinti d’essere risanati per virtù del Santo, raccolgono per lui l’obolo, camminando in maniche di camicia, con le sole calze, con un lungo fazzoletto messo a tracolla, per reggere sulla pancia, o sul fianco, una guantiera,—vassoio — piena d’immagini del taumaturgo, vendute ad un soldo.

Portano anche costoro sulla guantiera una cerva accovacciata di legno, un cero in mano e dietro le spalle dei galletti continuamente sballottati — i galletti al pomodoro sono il piatto rituale della festa — e così abbigliati, protetto il capo da una bianca pezzuola annodata sulle tempia, non smettono tutto il giorno dal loro prediletto « Lu Santu di li grazii divoti ».

Intanto principia la sfilata dei doni, per lo più fave e frumento, portati entro larghe bisacce caricate su mule, coverte di un drappo rosso o cilestre, e piene di fettucce e di campanelle sul collo e sulla testa, muoventisi a volte bruscamente, pel suono dei tamburi o della musica, che secondo le condizioni del credente, accompagnano le mule sino alla chiesa. E per questi suoni assordanti le mule, ci vogliono degli abili e forti guidatori chè spesso le povere bestie irreligiose s’impennano e sparano coppie di calci, per tutta gloria di Calogero.

E’ mezzogiorno, e San Calogero esce dalla sua chiesa ricevuto da un popolo urlante « Viva San Calò… » preceduto dalle marce delle bande e dal bra pa ta bra dei grossi tamburini, imbocca via Atenea, e dai balconi gremiti di parasolini e di ventagli, si scagliano in gran quantità pezzi di pagnotte, che migliaia di mani rizzate tentano afferrare per aria, e caduti per terra, s’impegna per raccattare quei pezzi di pane benedetto una lotta accanita a pugni, a morsi, a pedate.

San Calogero diritto, nero in viso, con la bruna tonaca, indifferente legge il suo libro. Ed anche indifferente rimane, quando percorso un tratto di via Atenea, bisogna cominciare una lunga e faticosa ascensione di vicoli angusti, tortuosi, ripidi, spesso a scalinate.

Non tutti hanno il diritto di sorreggere le lunghe e grosse stanghe della « bara » in legno semplicissimo e rozzo, su cui s’erge la statua di San Calogero : tale privilegio per tradizione appar- tiene alle famiglie dei contadini e dei carrettieri, i cui capi, morendo, lasciano ai figli l’eredità di un quarto, d’un terzo, di metà di spalla sotto le stanghe sacre e per determinati tratti di via. Pure, vi sono centinaia e centinaia di forti uomini, cacciantisi entusiasti sotto la « bara » nei momenti più difficili, che spesseggiano. Nelle disagevoli salite, tutti quegli uomini, i quali per i movimenti scomposti, contrarii, elidono i loro sforzi, non possono superare d’un tratto le difficoltà del terreno, ed il Santo traballa, inchinandosi fortemente, or di qua or di là, quasi a schiacciare quanti vi stanno sotto, come a volte succede ; per cui si vedono volare energici pugni sulla testa, sulle spalle, nel petto di chi sotto o presso la « bara » è in pericolo, per spingerlo così in luogo sicuro. Gli sforzi continuano, ma non potendosi andare avanti, bisogna ridiscendere, mentre la folla arretra disordinata e spaventata. I devoti però di San Calogero non si tirano indietro: un campanello suona, il Santo è riposto sulle spalle dei fedeli, che tendendo i grossi muscoli del collo, in un supremo sforzo, pigliano la rincorsa e quando si fermano sfiniti, dopo aver portato il Santo a salvamento, entrano storditi, stralunati nelle taverne a bere quel vino che potrà spingerli tra breve, coi coltelli alla mano, l’un contro l’altro.

A tali spettacoli, se si rimane meravigliati della robusta fede di tanti credenti, capaci di ben altri eroismi, se educati in diverso ambiente, la mente però ricorre agli idolatri d’Asia, che si fanno schiacciare dal carro del loro dio, e s’esclama « ma questa è barbarie! »

Ed essa appare in tutta la sua interezza, in una scena impressionante : le donne aventi bambini affetti da quel male che San Calogero credesi guarisca sopra tutti, corrono in certi punti alla bara del Santo coi figli in braccio. Se la grazia  non s’ottiene, le madri sventurate si disperano, piangendo e strappandosi i capelli, scontente del Santo, impassibile assorto, nella sua lettura, e spesso imprecando, lo covrono di contumelie.

Così tra voci, suoni, pericoli e pianti, San Calogero gira buona parte della città, ed alle dieci di sera, ritorna a Porta di Ponte.

Qui, quasi sempre, un sordo-muto intelligente sale sulla « bara » e gesticolando accarezza la statua, la pulisce col fazzoletto, ed emette brevi accenti inarticolati, inesauditi dal Santo che illuminato da fasci di luce variante di colore, entra nella sua chiesa, salutato dalle musiche, dal bra pa ta bra dei tamburi, dallo sventolar dei fazzoletti, e da un grido immenso, lunghissimo, di migliaia e migliaia di petti : « Viva San Calò ».

Francesco De Luca in La Lettura (presumibilmente anni venti del Novecento)

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, girgenti, san calogero

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