
Maria Foderà, risvegliandosi all’improvviso da quel torpore, da quello sfinimento, che, dolcemente, la stava conducendo alla morte, prese le mani del nipote, stringendole con una forza inaudita. “ Pensa, “Don Fa Nenti”, il nonno, alla tua età, insegnava: era maestro alla scuola elementare di Naro e con quelle poche lire già manteneva una famiglia.
Ma questo già te l’’ho raccontato, lazzaruni!” mormorò col poco fiato che le restava, mentre il nipote stordito, a causa delle veglie, faticava a riprendersi dallo spavento. “ Diego, tuo nonno, era un gran bel giovanotto. Aveva combattuto nella guerra del 15/18, lassù sul Piave, e, ringraziando Dio, era tornato vivo con una medaglia in petto, ma con una pallottola nella schiena: cosa che, lentamente, lo portò alla paralisi e alla morte. Ma questo già te l’ho raccontato!” continuò Maria, mentre i suoi occhi scintillavano come quelli di un’adolescente.
“ Suo padre, il cavaliere Pancrazio Lo Giudice, avvocato a Girgenti, alla sua morte gli aveva lasciato una casa di nove stanze al Piano Gamez. Era una casa meravigliosa, piena di luce! Rammento ogni particolare di quella felice dimora: i fregi neoclassici a stucco degli alti soffitti, gli affreschi ed i bassorilievi sopra le porte laccate, i vivaci pavimenti a piastrelle maiolicate, le tappezzerie di stoffe pregiate, le poltrone imbottite, i tavoli a muro e le specchiere dorate…Ma la guerra tutto ci portò via! Noi che alla guerra, quell’estate, neanche pensavamo.
Ricordo che luglio…Matri mia, che caudu ca faciva! Il giorno prima c’era stata la festa di San Calogero a Girgenti, e nessuno di noi poteva immaginare una simile carneficina!
Rammento ancora quella tremenda mattinata del ‘43, quando intere vie del centro storico, nel giro di pochi minuti,furono ridotte ad un cumulo di macerie. Più di trecento morti ci furono quel giorno! Anche la nostra casa fu ridotta in una nuvole scura di polvere dalle bombe dei nostri salvatori! Per fortuna avevamo fatto in tempo a correre al rifugio di “Bataranni”, portandoci via qualcosa da mangiare, l’oro e le figurine di San Calogero. Sai cosa si portò dietro tuo nonno? Quel benedetto uomo si portò dietro un tavolino. Un tavolino che in punto di morte, il cavaliere, suo padre, gli aveva raccomandato di conservare “ad ogni costo”. Lo dovevi vedere quando era buffo il mio Diego, mentre correva col tavolino sulla testa, proprio quel tavolino sopra il quale tu ora metti li to pedi, briganti!”.
Il nipote, punto sul vivo, tolse i piedi da quel tavolino, al quale, in verità, non aveva mai fatto molto caso. Si trattava di un Luigi XV in radica di noce, il cui piano rettangolare mostrava nel suo centro una grande stella intarsiata in bianco e nero, con una punta deturpata dal graffio di un oggetto duro e tagliente . Tanto che il nipote non poté trattenersi dall’osservare cosa avesse di così speciale quel vecchio mobile, con un fiore sfregiato al centro del ripiano. “ Speciale lo è davvero questo tavolino,” ribatté sua nonna. “Pensa che ha più di centocinquant’anni, e che, già nell’ottocentoquarantanove, faceva la sua gran bella figura nel salotto del tuo trisnonno, quando trasferì casa e “putia” a Girgenti…
Ora sono io, nipote mio, che raccomando a te questo tavolino. Non privartene mai, Diego, per nessuna ragione!” Fu in quell’istante che il viso emaciato di Maria parve riprendere il perduto colore. Tuttavia il nipote era troppo giovane per sapere apprezzare il valore delle cose. “ Devi ammettere, nonna, che questo affare qua è un po’ vecchiotto…ma ti prometto che lo conserverò in tuo ricordo! Al limite gli farò dare proprio una ritoccatine. Quello sfregio là, proprio non ci vuole!”. “ Sei pazzo!” urlò la nonna paonazza in volto.
“ È proprio quello sfregio a dare maggior valore al tavolino! Tu non sai che storia c’è stata attorno a questo mobile. E come dovresti saperlo del resto. Per te ed i tuoi coetanei la storia è qualcosa di ammuffito, che non ha importanza. Cresciuti siete, voi carusi, senza memoria Ah, come vi sbagliate figli miei…”. A quello sfogo della nonna il giovane, che era di buona indole, tornò a sedersi e prendendo, tra le sue, le mani dell’anziana donna, gli chiese: “ E va bene, va bene, che importa! Non lo farò riparare affatto, nonna, se questa è la tua volontà! Ma ora devi togliermi una curiosità: che storia mai c’è stata attorno a questo tavolino?”.
Alla domanda del nipote, gli occhi di Maria tornarono a brillare. “ Che storia mi chiedi? Ma la storia del nostro risorgimento, la storia della nostra rivoluzione, la storia della nostra stessa patria. A quel tavolino, pensa un po’, in due diversi momenti della sua fortunata esistenza, prese un caffé col tuo trisnonno, il grande Francesco Crispi! Ma, a questo punto, se lu Signuruzzu mi concede ancora un po’ di tempo, ti racconto tutto…La salita al trono del Regno delle Due Sicilie di Ferdinando II di Borbone, avvenuto nel 1830, aveva suscitato grandi speranze di rinnovamento nell’animo degli isolani. Ferdinando, infatti, era considerato un siciliano perché nato a Palermo. Tuttavia, trascorsi dieci anni dal suo avvento, si riaccese nell’Isola quel sentimento antiborbonico, originato dall’eccessiva pressione fiscale attuata dai Borboni, che negli anni venti aveva dato luogo a disordini, ad incendi e saccheggi di case di nobiluomini. Tanto che il 12 gennaio 1848, al suono delle campane di Sant’Orsola e della Gangia, Palermo insorse, trascinando nella rivolta l’intera isola.
Anche Canicattì, paese d’origine del trisnonno, il procuratore legale e notaro Diego Lo Giudice, partecipò alla rivoluzione, liberandosi dei Borboni ed istituendo un comitato rivoluzionario composto da nobili, notabili del paese e sacerdoti. I primi provvedimenti adottati da questo Comitato furono l’abolizione della tassa sul macinato e la distribuzione di duecento salme di grano tra i poveri. Il tuo trisnonno Diego simpatizzava per i rivoluzionari, tra quali contava conoscenti, colleghi ed amici, ma da uomo prudente quale era, si guardava bene dall’esternare in pubblico tali sentimenti.
Così quando Ferdinando II, nel 1849, si riprese la Sicilia, mentre il restaurato Decurionato di Canicattì, esternava al sovrano “sentimenti di rassegnazione ed umile obbedienza”, Diego Lo Giudice giudicò avveduto trasferire famiglia e attività nel capoluogo della Valle, dove sposò una nobildonna d’origine palermitana e comprò quella bella casa di cui ti parlavo, con vista sul Molo di Girgenti. Tuttavia i suoi sentimenti antiborbonici gli fecero compiere, dieci anni dopo, un gesto audace, davvero in contrasto col suo carattere tranquillo: ospitare, nella sua bella casa di Girgenti, Vincenzo Macaluso, un ardito rivoluzionario, suo conterraneo e collega, che il 3 luglio 1859 aveva osato inalberare “ su una rocca isolata bianchissima, sorgente a cavaliere tra Grotte e Comitini,la prima bandiera dell’Indipendenza Italiana”, dando inizio ad una rivolta che avrebbe, in breve tempo, incendiato di nuovo l’Isola, arrivando fino a Palermo.
Un gesto che sarebbe costato a Macaluso una delle tre condanne a morte, dalle quali venne salvato grazie all’intercessione dello zio Gioacchino La Lomia, all’epoca ministro della Giustizia del Re di Napoli; e al tempismo del generale Garibaldi, quando liberò Palermo dai Borboni. A quel tempo Crispi era un giovane rivoluzionario, coi capelli lunghi a ciocche sul bavero, che, tornato dal suo esilio londinese, insieme a sua moglie Rosalia, complottava contro i Borboni . Brillante avvocato del Regno delle Due Sicilie, fino ai moti rivoluzionari del 1848 (la partecipazione ai quali aveva pagato con l’esilio), preparava a quel tempo il terreno lo sbarco in Sicilia del Generale e dei suoi Mille.
Per questo Crispi era venuto a Girgenti, ad incontrare alcuni dei suoi colleghi più illuminati. Fu proprio a casa del tuo trisnonno, sotto le mentite spoglie di un salotto culturale, che essi si riunirono con spirito carbonaro, prendendo il caffé, proprio attorno a questo tavolino, mentre la sua donna viaggiava con gran pericolo per la sua vita per riannodare i fili della resistenza isolana. La moglie di Crispi (perché è giusto chiamarla così, nonostante tutto…), Rosalia Motmasson era una giovane donna, intrepida e bella, conosciuta durante i duri mesi di prigionia a Torino, quando questa portava in carcere la biancheria stirata. Fu per amore del Crispi, allora conosciuto come terrorista ed agitatore, che ella divenne staffetta di Mazzini e della sua Giovane Italia; che poi si fece Garibaldina: unica donna tra quei millenovanta eroi (perché tanti in verità erano i mille!).
Il bellimbusto (Crispi voglio dire!) se l’era sposata a Malta, durante uno dei suoi tanti esili, ricorrendo ad un matrimonio fasullo, tanto per farla sentire a posto con la sua coscienza, la poverina, con un anello al dito! Salvo ad accorgersi, due decenni dopo, che non era un’intellettuale la sua compagna, ma solo una ex stiratrice savoiarda di cui ormai – divenuto un grand’uomo – egli si vergognava; tanto da ripudiarla senza tanti scrupoli, mandando un suo portaborse a rivelarle che quel “loro santo matrimonio” al quale, la sventurata, s’appellava, non c’era mai stato, in quanto il celebrante era stato un prete sospeso “a divinis” perché simpatizzante dei rivoluzionari.
Il Crispi che ora sposava un’avvenente ed infedele leccese di nobile ceppo borbonico, aveva dimenticato i tempi della miseria nera, di quando lui e la sua giovane compagna dormivano sulla paglia, condividendo pane ed insalata. A differenza dell’ingenuo Macaluso, egli s’era fatto monarchico, e proprio a casa del notaro Lo Giudice, battendo un pugno proprio su questo tavolino, disse in faccia al tuo trisnonno e allo stesso Macaluso (molti anni dopo l’impresa dei mille, con Roma già capitale): “Ma quando lo capirete, Voialtri, che solo la Monarchia unisce, mentre è quella repubblica che ancora sognate, a disunire… Anche Voi pensate, come Rosa, che abbia tradito i Mille, gli ideali per i quali ho combattuto? No, No! Sappiate solo, che il mio cuore è rimasto caldo e ardente per la mia patria”.
Ma il tuo trisnonno non vide mai di buon occhio la trasformazione di Crispi: così colui che gli era stato caro per le sue imprese, gli divenne presto odioso per le sue malefatte. E non parlava solo del vergognoso ripudio della fedele Rosalia, dell’ingratitudine di un uomo, allo stesso tempo bigamo e falsario; ma si riferiva anche al politico bravo a muoversi, con disinvoltura, in una società di sbirri e di sicari – abili ad architettare uno scandalo sessuale ai danni del povero Lobbia ( un deputato di sinistra che aveva denunciato una storia di corruzione riguardante la «Regia Manifattura dei tabacchi» ), messo a tacere con l’accusa di “omosessualità”, al politico capace di passare con cinismo sul cadavere dello stesso Lobbia, suicida per salvarsi dai suoi calunniatori.
Al tuo bisnonno Pancrazio, che, nel frattempo, sia nello studio che nella casa di Piano Gamez, aveva preso il posto del padre Diego, piaceva la integrità morale dell’avvocato Macaluso, che, tuttavia (ma guarda, quanto è ingiusta la vita!), sempre boicottato per l’elezione al parlamento, sarebbe morto a Roma, non ancora settantenne, in solitudine e senza clamore, mentre “quello” continuava a governare col “cuore caldo e ardente per…la patria”, reprimendo con violenza inaudita le spontanee proteste degli umili contri i “galantuomini”.
L’antico garibaldino si era conformato da tempo alla livrea: indossando, nei pranzi di corte, il frak ricamato con la placca della gran croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. E quanto il tuo bisnonno, che malvolentieri aveva invitato il Presidente nella casa di Piano Gamez, in occasione della sua ultima venuta a Girgenti, gli chiese se ancora si sentisse un “mazziniano”, Crispi rispose determinato e contrariato: “Ma no, che dite!”. “Allora, siete forse Voi un garibaldino?” insistette il tuo bisnonno. “ Neppure, neppure. Cosa Vi passa per la mente, mio giovane amico..?” replicò quello piccato. “ E chi siete Voi, dunque?” chiese un’ultima volta il bisnonno, con finta ingenuità.
“ Io, Io sono Crispi!” dichiarò il Presidente, scoppiando in una delle sue famose collere; tanto da colpire il tavolino col pugno, in cui aveva racchiusa la medaglia donata a ciascuno dei Mille dal Comune di Palermo per celebrare l’impresa. “Non avevo dubbi…” disse sottovoce il bisnonno, osservando con dispiacere lo sfregio inferto dalla medaglia, guidata da quel pugno tremendo, sulla grande stella del tavolino…Ora il nipote fantasticava di quei nobili tempi – che pure nascondevano anch’essi tra le grandezze le eterne umane miseria dell’animo umano -, e tante cose tumultuavano nel suo cuore, che solo la nonna avrebbe potuto chiarire. Ma ella non parlava più, pareva dormire con una parvenza di sorriso sulle labbra secche, mentre la sua mano sembrava ancora indicare l’antica stella sfregiata del notaro Diego Lo Giudice…
Di Alberto Guarneri Cirami
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