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La maestà del tempio della Concordia nel racconto di Winckelmann

19 Settembre 2014 //  by Elio Di Bella

Johann Joachim Winckelmann

Johann Joachim  Winckelmann, Osservazioni sull’architettura dell’antico tempio di Girgenti in Sicilia, 1759,  in Opere di G. G. Winckelmann, Prato 1830-1834

Il tempio della Concordia a Girgenti è senza dubbio uno de’ più antichi edifizj greci, che v’abbiano al mondo; e la parte sua esteriore è tutta conservata. L’autore delle spiegazioni delle Antichità della Sicilia ne ha data la pianta e l’alzata, senza entrare in alcuna descrizione, perché la persona, ch’egli aveva impiegata per farne il disegno, si era riservata per sé questa parte. Ma è cosa difficile il trattare di questa materia, quando non si ha cognizione veruna dell’Architettura.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

Questo tempio è di ordine dorico, ed esastico, perittero, vale a dire, che il suo peristilio è sostenuto da una serie di colonne isolate, e che ne ha sei avanti, e sei dietro, le quali formano il pronao, e l’opistodomo, ossiano due portici liberi all’ingresso, e alla parte opposta. Da ciascun lato ha undici colonne, oppure tredici, contandovi per due volte quelle degli angoli. A Pesto, sul golfo di Salerno, vi sono due tempj, l’esterno de’ quali rassomiglia perfettamente a questo di Girgenti, e che dimostrano un’eguale antichità. Si aveva di già la descrizione del tempio di Girgenti da qualche tempo; ma non sono più che dieci anni da che si è cominciato a parlare di quei di Pesto, sebbene questi non abbiano sofferto verun danno, e sieno stati sempre liberamente esposti alla vista di tutti in una gran pianura deserta sulla riva del mare. La mancanza di notizie intorno a queste fabbriche è stata cagione di non essersi conosciuta fin al presente alcun’altra opera dell’ordine dorico dei Greci fuor che le colonne del prim’ordine, nel teatro di Marcello, dell’anfiteatro di Vespasiano, e quelle di un portico a Verona.

Le colonne del tempio di Girgenti non hanno, compresivi anche i capitelli, cinque diametri d’altezza, misurati dalla parte inferiore, come quelle di Pesto. Vitruvio fissa l’altezza delle colonne doriche a sette diametri, o quattordici moduli, che è lo stesso; perché il modulo fa la metà del diametro. Ciò non ostante, siccome questo scrittore ha voluto determinare le sue misure dell’Architettura secondo le proporzioni del corpo umano, parte sul mistero di certi numeri, e in parte sull’armonia, non ha potuto dare altre ragioni di questi sette diametri, che il suo numero misterioso di sette: il che dee mettersi coi sogni dei moderni rispetto al numero sette nella musica. Si potrebbe trovare qualche fondamento de’ sei diametri delle colonne nella proporzione del piede umano, che i più antichi statuarj hanno riguardato come la sesta parte dell’altezza d’una figura. Quanto all’altezza delle colonne, di cui trattiamo, deesene cercar la ragione nella pianta del tempio, non già nelle colonne stesse; perocché la loro proporzione non può essere determinata dal diametro intiero, mancando un piede e un pollice a quel che è di più dei quattro diametri. Io trovo che l’altezza delle colonne è uguale alla larghezza del tempio, la quale nei tempj dorici era sempre la metà della lunghezza di tutto il tempio, o della cella solamente. Non bisognava dunque ricercar qui la giusta proporzione in qualche cosa fuori dell’edifizio, perché dessa ritrovasi nello stesso tempio.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

Se potesse spiegarsi letteralmente un passo di Plinio, ove dice che ne’ più antichi tempi l’altezza delle colonne era il terzo della larghezza del tempio, le colonne doveano essere anche più basse di quelle che esaminiamo: perciocché se noi fissiamo a cinquanta piedi la lunghezza di un tempio, e per conseguenza la larghezza a venticinque, le colonne avranno circa gli otto piedi d’altezza. Ora se noi prendiamo due piedi per il diametro delle colonne, queste non avranno che quattro diametri d’altezza.

Queste colonne sono di forma conica, della quale dobbiamo attribuirne la ragione alle viste dell’architetto, anziché alla loro proporzione. Una forma cilindrica con diametri uguali in cima, e in fondo, avrebbe esposte le pietre, di cui son fatte le colonne, a fendersi, e screpolarsi; perché il peso dell’intavolato non avrebbe principalmente gravitato sull’asse del cilindro, come avviene della forma conica, la di cui diminuzione accosta di più il punto di appoggio. Hanno queste colonne delle scanalature doriche, vale a dire, che i due canali si uniscono in angolo acuto; all’opposto delle scanalature joniche e delle corintie, che hanno il pianetto.

L’intavolato di questo tempio, come quello degli altri, è composto di tre parti: dell’architrave, che posa immediatamente sul capitello delle colonne, del fregio e della cornice. Insegna Vitruvio, che l’altezza delle parti dell’intavolato sia proporzionata all’altezza delle colonne; e qualche moderno architetto pretende, che l’architrave non debba superare di molto la metà del fregio. Ciò non pertanto non si ha che l’una e l’altra di queste regole siano state note da una remota antichità; vedendosi al tempio di Girgenti, e a quelli di Pesto, l’intavolato grandioso e magnifico oltre ciò che potea richiedere l’altezza delle colonne. A colpo d’occhio l’architrave e il fregio sembrano avere la stessa altezza; e che sia stato così veramente, come pare, potrà dedursi dalla misura dell’intavolato del tempio di Giove Olimpico. La cornice ha presso a poco tre quarti dell’altezza del fregio.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

La proporzione dei triglifi e delle metope, o dell’intervallo quadrato fra questi triglifi, è la stessa, che agli altri edifizj d’ordine dorico a noi cogniti. Ma siccome in Roma non c’è alcun edifizio intiero di quest’ordine, non può vedersi se non se in questi tempj la distribuzione degli antichi nella simmetria relativamente ai triglifi sulle colonne dell’angolo, li quali non poggiano sul mezzo di esse ma bensì più in fuori all’angolo del fregio, per non lasciar quest’angolo nudo. I triglifi di questi tempj non sono lavorati sul fregio stesso, ma vi sono incastrati; e ad uno dei tempj di Pesto uno solo ve n’è rimasto, essendone stati senza dubbio tolti gli altri ne’ tempi barbari.

Siccome i triglifi sulle quattro colonne degli angoli sono posti allo spigolo del fregio, le loro metope devono essere un poco più larghe di quelle degli altri: il che non si conosce alla semplice vista, perché le colonne degli angoli sono più vicine che quelle di mezzo, in maniera che l’intercolonnio delle tre colonne di ciascun angolo è più piccolo di quelli, che vengono appresso; con questa differenza però, che il primo intervallo è più piccolo del secondo, e questo più del terzo: differenza, che non può avvertirsi coll’occhio, ma solo col compasso. Queste colonne più strette negli angoli non hanno altro oggetto che la maggior solidità della fabbrica, come può facilmente rilevarsi.

Le cinque grandi aperture rotonde in alto, che servono di finestre al tempio di Girgenti, sono state fatte, come si conosce visibilmente, in tempi posteriori, e probabilmente dai Saraceni, i quali si sono serviti di questo tempio, come è noto; imperocché i tempj quadrati degli antichi generalmente non aveano altra luce che dalla porta.

Gli stipiti delle porte del tempio di Girgenti ne sono stati tolti, come anche a quelle di Pesto; ma è credibile che siano stati più stretti in cima, che al basso a modo delle porte doriche descritte da Vitruvio, quali si vedono a un altro piccolo tempio di Girgenti, al quale gli abitanti hanno dato il nome di Oratorio di Falari. Il disegnatore del P. Pancrazi ha nascosta, non so perché, questa porta nella sua Tavola, ponendole avanti un albero; cosicché non può vedersene la forma. È stata murata dai monaci, che ne hanno fatta aprire un’altra dalla parte opposta ove non era, per poter collocare l’altare verso quel punto del cielo.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

Questa specie di porte non era propria dell’ordine dorico solamente, come potrebbe credersi leggendo Vitruvio; ma pare che nella più remota antichità sovente loro si sia data quella forma: almeno è certo, che esse erano in uso presso gli Egiziani, e se ne hanno esempj nelle porte, che veggonsi nella Tavola Isiaca, e in molte pietre egiziane intagliate. La solidità era la sola ragione, per cui si desse alle porte quella forma; imperciocché il peso e la mole dell’edifizio non gravita solamente sull’architrave della porta; ma anche sugli stipiti, che sono inclinati.

Gli ornati del tempio di Girgenti, e di quei di Pesto sono, come lo erano generalmente quei de’ più antichi tempi, semplici e massicci. Si ricercava dagli antichi piuttosto la grandiosità, nella quale consiste la vera magnificenza. Quindi è che i membri di questo tempio hanno una grande projezione, e molto più che al tempo di Vitruvio, o di quello che insegni questo architetto. Un gusto diametralmente opposto a quello degli antichi si osserva agli edifizj di Firenze e di Napoli, alzati poco dopo il rinascimento dell’arte; perocché essendosi in Italia sempre mantenuta più che altrove l’idea dell’Architettura antica, si formò di questa specie di reminiscenza e di gusto di quel tempo una certa pratica mista. Si lasciarono appena vedere le cornici e grondaje, perché si cercò la bellezza nelle piccole cose. La semplicità consiste fra le altre cose, in un piccolo risalto, o incurvamento delle parti; e perciò non hanno i nostri tempj né gusci, né cimasa convessa; ma tutto vi è fatto in linea quasi retta, eccettuato il capitello, che è generalmente ornato di ovoli, e ai tempj di Pesto forma una tazza molto soppressa, ma senza gli ovoli. Sullo stesso gusto sono fette le più antiche are e cenotafj; e da questo possiamo provare la loro remota antichità.

Le principali ricerche del P. Pancrazi sono state limitate a ritrovare fra le mine dell’antica città d’Agrigento il tempio di Giove Olimpico, di cui gli fecero trovare il sito gli ammassi di pietre, la tradizione del nome conservatasi presso gli abitanti di quei contorni. Non vi si scorge altro, dic’egli, e non è possibile di formarsi la minima idea della pianta, o dell’area, che occupava questo tempio. Tutto ciò, che poté rinvenire fu un solo triglifo, il quale servì a provare, che era d’ordine dorico; e degli intacchi a modo di ferro di cavallo in qualche pietra, i quali secondo la sua opinione hanno servito per alzare queste pietre con maggior facilità. Egli cita il passo di Diodoro di Sicilia, che riguarda questo tempio, senza aggiugnervi riflessione alcuna. Neppur Fazello ne ha detto di più.

Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicilie, 1786

Secondo Diodoro questo tempio di Giove era il più grande di tutti quelli della Sicilia, e poteva essere paragonato per questa parte ai più belli tempj, che si trovassero al mondo. Egli dà la misura della sua lunghezza, larghezza ed altezza, siccome del diametro delle colonne.

Si vede ancora oggidì l’intiero piano dei fondamenti di questo tempio, che sta esposto agli occhi di tutto il mondo; ma per vero dire circondato da mine ammontonate le une sulle altre, sopra le quali né l’autore delle Antichità della Sicilia, né il suo compagno hanno badato di osservare. Tali ruine occupano uno spazio di terreno coperto d’erba, il quale fa sì ben conoscere il piano del tempio, che in qualche parte si vedono gli scalini, ond’era circondato. Si osserva anche un luogo, ove è stato scavato alla profondità di cinque braccia nei fondamenti.

L’estensione di questo sito si accorda alle misure, che Diodoro ha date del tempio, e arriva per lunghezza a trecento quaranta piedi. Secondo la misura inglese è di trecento quarantacinque piedi, perché il piede inglese è un poco più piccolo del piede greco, come ho detto innanzi. La larghezza dello stesso piano è di centosessantacinque piedi; il che differisce molto dalla misura di sessanta piedi, che gli assegna Diodoro.

Waldmüller, Tempel der Concordia bei Girgenti, 1849

Ma se la larghezza di un tempio esser dee la metà della sua lunghezza, e centosettanta essendo la metà di trecento quaranta, la misura della sua larghezza attuale, che non può prendersi tanto esatta sotto le ruine, s’avvicinerebbe di molto a questa dimensione. In conseguenza la misura di sessanta piedi data da Diodoro non può essere giusta, e vi manca sicuramente un centinajo prima del numero sessanta. La menoma riflessione, che fosse stata fatta sulle dimensioni date dagli antichi ai loro tempj, avrebbe dovuto far dubitare della esattezza del testo greco di quello scrittore eppure niuno v’ha pensato finora. I manoscritti di Diodoro, che ho veduti in Roma e a Firenze, come quelli eziandio della biblioteca Chigi in Roma, i quali sono i più antichi, si accordano tutti colla lezione stampata. Non dobbiamo figurarci che i Greci abbiano fabbricati i loro tempj a norma del piano di una certa cattedrale protestante, costrutta non ha molto in Germania, dando loro una facciata della sesta parte della loro lunghezza.

L’altezza di questo tempio, senza comprendervi gli scalini d’intorno (krhkidàmatoj) era di centoventi piedi. La parola krhkidàma non è stata intesa dai traduttori, i quali hanno creduto che significhi li fondamenti. Il nuovo traduttor francese ha voluto fare il critico su questo passo; ma non ha fatto che provare la sua ignoranza. Crede che debba intendersi per la cornice. E perché? perché dàmatoj significa anche la parte superiore di una casa; il che avrebbe almeno dovuto provare.

Altronde non v’è chi ignori che la cornice non serve a coprire la volta.

Le colonne al di fuori erano rotonde, e quadrate, dentro, giusta l’espressione di Diodoro, che il traduttor latino passa colla stessa brevità. Per quadrate in dentro può intendersi, che queste colonne fossero tagliate in quadro nel muro. A Bolsena si trova un pezzo d’una colonna di porfido da una parte semicircolare, e dall’altra parte quadrata. Nondimeno io credo che Diodoro abbia voluto dire, che questo tempio aveva nell’esterno delle colonne semicircolari, e che nell’interno fosse ornato di pilastri.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

Queste colonne semicircolari aveano venti piedi di circonferenza. L’interno (parola, che neppur ha capita il traduttore), l’interno dico di queste colonne, era di dodici piedi. Se il diametro d’una colonna preso tre volte ne fa tutta la circonferenza, che sarebbe qui di trentasei piedi, la metà di questa circonferenza sarebbe stata di diciotto piedi: ma siccome era di venti piedi, convien dire che le colonne avessero descritto di più di un semicircolo. Qualche pezzo di esse ci ha provato, che quella misura era esatta; perocché il diametro era poco più di undici piedi inglesi, che si sono potuti determinare sopra molti pezzi troncati. Il diametro delle otto colonne semicircolari della facciata della chiesa di S. Pietro in Vaticano, che sono le colonne più grandi fatte dai moderni, deve essere a un dipresso di nove piedi inglesi; donde possiamo farci un’idea della grandezza delle colonne del tempio di Giove.

Vitruvio, parlando delle differenti specie di tempj, non fa menzione alcuna di quelle con colonne semicircolari. Neppure si trova presso alcun antico scrittore la menoma cosa d’un edifizio greco sì antico. Il tempio della Fortuna Virile in Roma oggidì convertito nella chiesa di S. Maria Egiziaca, il più cattivo di tutti gli antichi edifizj, è ornato di simili colonne; come ve n’ha pure al teatro di Marcello, e all’anfiteatro di Vespasiano.

Diodoro ci dà un’idea sensibile della grandezza delle colonne del tempio di Giove, col dire che un uomo poteva mettersi dentro una sola scanalatura di esse (dàmxnma), delle quali una colonna dorica aver ne dee venti. La larghezza delle scanalature dei pezzi, che restano, è di due palmi romani, ossia due palmi e tre once e mezzo da un angolo all’altro: spazio sufficiente da capirvi un uomo. Il padre Pancrazi si lagna di non aver potuto ritrovare alcun frammento delle colonne di questo tempio. Le più antiche colonne scanalate, che veggansi a Roma, sono tre colonne isolate, col loro intavolato, in Campo Vaccino. Esse hanno quarantun piede e cinque pollici romani di altezza; il loro diametro è di quattro piedi e quattordici pollici; ma le loro scanalature non hanno che la metà della larghezza di quelle del tempio di Giove, non essendo se non che di un palmo. Le più grandi colonne dei tempj greci, dopo quello d’Agrigento, erano quelle d’un tempio di Cizico, la circonferenza delle quali era di quattro orguiaã, o braccia (la orguiaãconteneva sei piedi greci); e si pretende che fossero ciascuna di un sol pezzo.

Le colonne del tempio di Agrigento non erano fatte tutto d’un pezzo, ma bensì di piccoli pezzi ineguali, disposti secondo la dimensione del tutto: dal che avviene che non se ne possono riconoscere gli avanzi a prima vista.

Pancrazi, Antichità siciliane spiegate, II, 1752

L’intavolato sopra le colonne consisteva in tre grandi massi di pietre collocate le une sopra le altre, e che componevano un tutto insieme. Gli architravi e i fregi erano d’una altezza uguale, come quelle del tempio, di cui abbiamo parlato; vale a dire, che ciascuna di queste parti avea dieci piedi inglesi di altezza. Le cornici, delle quali nulla si è conservato, aver doveano intorno agli otto piedi d’altezza. I triglifi, come già feci osservare, erano incastrati nel fregio, e ciascuno era di un sol pezzo alto dieci piedi. Un solo capitello v’è restato intero, che era d’una sola pietra, e per misurarlo vi bisognava una scala .

Queste misure, che abbiamo indicate, possono accordarsi coll’altezza del tempio segnata da Diodoro; e il diametro delle colonne, siccome anche le dimensioni dell’intavolato paragonate coll’altezza di centoventi piedi (altezza del tempio), ci danno le proporzioni per conoscerei altezza delle colonne. Esse non devono essere state così tozze come quelle del tempio della Concordia e dei tempj di Pesto. Neppur dovrebbero aver avuta l’altezza, che da Vitruvio alle colonne doriche, vale a dire di sette diametri; giacché per far accordare la misura indicata coll’altezza del tempio, non può darsi a queste colonne né più, né meno dell’altezza di sei diametri. Per rapporto di Diodoro il diametro delle colonne era di dodici piedi: ora sei volte dodici fa settantadue. Gli architravi e i fregi erano di venti piedi inglesi, e di circa otto le cornici. L’altezza delle colonne e dell’intavolato presa insieme arrivava alli cento piedi. Gli altri venti piedi di tutta l’altezza fino alla cima del frontispizio, restano per quest’ultima parte; imperocché il frontispizio, ossia la cima del frontone era negli antichi tempi molto schiacciata e bassa, come si vede all’altro tempio di Girgenti e ad uno di Pesto, al quale questa parte si è conservata.

Da quanto abbiamo detto sembra, che siasi passato per gradi nella proporzione dell’altezza delle colonne colla larghezza del tempio, come noi osservammo più su, a quella dei sei diametri, e finalmente a quella di sette. Pare dunque che l’altezza di sei diametri sia stata la proporzione delle colonne doriche ne’ più bei tempi dell’arte in Grecia; perché durante l’olimpiade xcm. i Cartaginesi vennero per la seconda volta nella Sicilia, e allora fu saccheggiata la città d’Agrigento da que’ conquistatori. Questa guerra, dice Diodoro, fece sospendere la costruzione di quel tempio.

Siccome io credo aver provato, che le colonne di questo tempio aver non potevano né più, né meno dell’altezza di sei diametri, il tempio di Teseo in Atene, che è il più antico, e che è stato fabbricato subito dopo la battaglia di Maratona, non può dunque aver avuto colonne, il fusto delle quali fosse di sette diametri, come le fa Pococke egualmente che tutte le colonne degli altri edifizj dorici di Atene.

Il tempio di cui parliamo, deve essere stato esastilo, vale a dire, che dee aver avute sei colonne di fronte: perocché sei colonne di dodici piedi di diametro fanno già settantadue piedi; e cinque intercolonnj, ciascuno di tre moduli, o di un diametro e mezzo di colonna, fanno piedi novanta: in conseguenza il tutto insieme arriva ai cento sessantadue piedi; misura, che, meno due piedi, si accorda colla larghezza di centosessanta piedi datagli da Diodoro.

Si trovano ancora in qualche grossa pietra dell’intavolato dei segni del meccanismo usato nella fabbrica di questo tempio. Questi sono certi incavi in forma di una mezza ellissi ai due piccoli angoli della pietra. In ciascuno di questi incavi si passava un canapo, o una catena, col quale si alzavano questi gran massi di pietre, e gl’incavi andavano ad unirsi insieme rivoltati in alto.

Con questo mezzo si collocavano le pietre una accanto all’altra senza bisogno d’alcuna leva: e quando queste pietre erano a luogo si levava il canapo, o la catena, turando con del legno l’apertura dell’incavo, che era voltata in alto, affinché non vi penetrasse umidità. Si è trovato in uno di questi incavi un pezzo di legno, che dopo due mila e più anni si è ben conservato. Fra i disegni d’antichi edifizj fatti dal celebre architetto Sangallo, ora esistenti nella biblioteca Barberini, ho veduto nelle mine del tempio di Venere in Epidauro un simile incavo alle pietre, ma però angolare. Un tal metodo di alzar grandi massi di pietre, e collocarli nel tempo stesso al loro luogo, è senza dubbio molto migliore di quello, che insegna Vitruvio; e i sacchi di arena, de’ quali parla Plinio, secondo la spiegazione di Poleno, pajono ridicoli paragonandoli colla meccanica de’ Greci.

Da ciò si vede quanto semplice fosse la maniera d’operare degli antichi. Pare che i moderni con tutte le loro arti, e col soccorso dell’algebra non abbiano ancora potuto giugnere alla perfezione delle forze moventi di essi.

a cura di

Flaminio Gualdoni

Categoria: Storia AgrigentoTag: tempio della concordia

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