
Articolo da La Stampa del 5 Novembre 1961
di Francesco Rosso
Abbattuto con quattro colpi di rivoltella mentre rincasava con la bella moglie – Una pallottola uccise anche un ragazzo affacciato alla finestra – I primi sospetti sul professor La Loggia amico di famiglia: il clinico ce ne parla senza alterare la voce Alla ricerca di un movente – Le misteriose indagini del funzionario – Una valigia con doppio fondo e tracce di stupefacenti
Agrigento, novembre.
Da alcuni giorni tento di indagare non sul delitto che ha il commissario Aldo Tandoj come vittima, ma sull’ambiente e sull’atmosfera in cui il delitto è avvenuto. Conoscenti antichi e occasionali mi raccontano ciò che sanno; nulla per fornire indizi sugli assassini, tuttavia rivelatore di una mentalità diffusa in ogni strato sociale. «Se il governo non scopre i responsabili, dicevano, perché dovrebbe esporsi un privato cittadino?».
Questa frase l’ho sentita ripetere fino alla noia, e se per governo intendevano la polizia, parlando di un cittadino alludevano non soltanto alla popolazione di Agrigento, ma a quella siciliana in generale che considera il delitto un fatto privato fra il colpevole e la famiglia dell’ucciso , non un’offesa a tutta la società. Guardate come intruse dall’intera popolazione, magistratura e polizia hanno scarse possibilità di scoprire gli autori dei delitti voluti dalla mafia; nel momento decisivo delle indagini scatta con impressionante esattezza il dispositivo mafioso e dove pareva che la verità splendesse, torna a infittirsi la nebbia dell’incertezza.
La diversione più ricorrente nei crimini mafiosi è il delitto passionale; rivalità politiche, affari tenebrosi in cui ballano i milioni, indisciplina alla legge implacabile della mafia , si camuffano da tragedia amorosa al fondo della quale non c’è quasi mai la verità, ma soddisfa l’opinione pubblica e serve da cortina fumogena per gli assassini veri. La sanguinosa vicenda di Aldo Tandoj si è svolta su schemi consueti, anche perché all’inizio delle indagini sembrò che gli elementi passionali avessero consistenza determinante. Gravemente mutilato in guerra, Aldo Tandoj era un buon compagno per l’avvenente moglie siciliana.
Quando arrivò ad Agrigento per iniziare la carriera nella polizia, il giovane ufficiale pugliese incominciò a indagare su alcuni omicidi impuniti a Raffadali , paese natale di sua moglie, e quasi certamente agganciò i responsabili, ma senza poter fornire prove contro di loro. Da quei primi giorni di servizio nel 1946 alla sera del 30 marzo 1960, quando fu freddato con quattro colpi di rivoltella mentre rincasava sotto braccio alla moglie, il commissario Tandoj conobbe molti segreti della mafia agrigentina, fra le più attive della Sicilia, ma al momento di intervenire si trovò sempre con le mani legate.
La sua condizione lo aveva introdotto anche negli ambienti «bene» di Agrigento, dove mondanità, cronaca nera, politica, appalti per opere pubbliche, offrono argomenti alle conversazioni , alle interessate alleanze, a contrasti insanabili. Si era formato un affiatato sodalizio fra i coniugi Tandoj e la famiglia del prof. Mario La Loggia, personaggio di rilievo nella società agrigentina, direttore dell’ospedale psichiatrico, presidente dell’ente turistico provinciale, fratello dell’ex presidente del governo regionale , bell’uomo elegante dai gesti misurati, parlatore eloquente. Leila Tandoj era soprattutto assidua di Danika La Loggia, moglie del professore , di origine slava e poco ossequente alle norme che regolano l’esistenza della società siciliana, ancora musulmana per certi aspetti. Alle due donne ed ai loro consorti si unirà sovente il barone Agnello, ricco latifondista rapito dai banditi che chiedevano molti milioni di riscatto e fortunosamente liberato da Aldo Tandoj.
Il sodalizio durò circa 11 anni, ed infine il commissario Tandoj fu trasferito a Roma dove visse da solo per alcuni mesi lasciando la moglie ad Agrigento, alla vigile cura degli amici che avrebbero provveduto a distrarla. Infine, decise di portarla con sé e tornò ad Agrigento in breve licenza per curare il trasloco. La sera del 30 marzo 1960, poco prima delle otto, rincasava a fianco della moglie nella centralissima Viale della Vittoria. Lo fulminarono con quattro rivoltellate. Alcuni passanti videro gli assassini, ma diedero indicazioni irrilevanti. Un proiettile vagante colpì un ragazzo, Antonio Damanti, che discorreva con un amico affacciato alla finestra. Il ragazzo mori all’ospedale, vittima incolpevole di intrighi nefandi; Aldo Tandoj morì sul marciapiede portandosi nella tomba una grossa soma di segreti.
Le indagini si orientarono verso il mondo criminale ch’egli aveva combattuto, ma gli ingranaggi mafiosi non tardarono a muoversi: «La mafia non ha mai attaccato la polizia, si disse; bisogna cercare in altra direzione». La nuova direzione fu il delitto passionale, la cosiddetta pista solare di molti crimini mafiosi che Leonardo Sciascia ha sottilmente descritto nel libro «Il giorno della civetta». Nel caso di Aldo Tandoj c’erano molti elementi per sostenere la tesi passionale; la dimestichezza di sua moglie col prof. Mario La Loggia poteva essere una relazione amorosa. Il prof. La Loggia poteva aver pagato due sicari per uccidere l’amico che voleva privarlo di uno svago portandosi a Roma la moglie . Sospettati mandanti nel delitto su commissione, Leila Tandoj e Mario La Loggia furono arrestati il 10 maggio 1960 con cinque uomini che facevano da galoppini elettorali al professore, fra i quali doveva esservi il sicario dalla mira infallibile.
Dopo sette mesi di carcere, tutti furono rimessi in libertà per insufficienza di indizi . Ciò non significa che siano stati assolti, l’istruttoria continua e si prevede che solo fra un paio di mesi Leila Tandoj, il prof. La Loggia e gli altri cinque conosceranno il verdetto del magistrato, che potrebbe essere di assoluzione piena, oppure di rinvio a giudizio. Tuttavia, opinano i difensori, il fatto che siano stati rimessi in libertà e già un’indicazione. Se così è, significa che il giudice istruttore si è trovato dinanzi al vuoto, autentico o artificiosamente creato. Tutto sarebbe crollato, a incominciare dalle conturbanti descrizioni di orge nella villa del prof. La Loggia, un campionario di gesti, parole, atteggiamenti che dovevano essere una trance de vie e sono, invece, un grossolano romanzo a fumetti per compresse fantasie provinciali.
«Dicevano che avrei fatto uccidere Aldo perché voleva condurre la moglie a Roma; lei pensa ci sia città più adatta per nascondere una relazione d’amore illegale!». Dietro alla sua scrivania, il prof. La Loggia discorreva della sua vicenda senza alterare la voce; psichiatra di buona fama, conosce i moti dell’animo e sa dominarli. Gli domandai chi poteva avere interesse ad accusarlo del delitto per commissione, ed egli rispose: «Colui che ha ucciso Tandoj, evidentemente». E chi ha ucciso Tandoj? Forse non lo sapremo mai, come non sapremo chi ha ucciso il sindacalista Miraglia, il segretario provinciale della dc Montaperto, il sindaco di Favara, il vice-sindaco di Licata, il vice-segretario regionale dc Campo, il candidato dc alle elezioni regionali Gilio e moltissimi altri di nome più oscuro, tutti agrigentini «giustiziati» alle spalle come il commissario Tandoj.
La tesi del delitto passionale sembra sia stata ora abbandonata , ma intanto i veri colpevoli si sono costruiti alibi incrollabili; in questi casi la mafia rivela una versatilità diabolica, crea testimoni falsi e per chiudere una certa partita arriva a offrire il colpevole alla polizia, ma morto. Alcuni giorni dopo l’uccisione di Miraglia, il commissario Tandoj fu chiamato al telefono ed una voce sconosciuta gli disse che l’assassino del sindacalista giaceva morto su una trazzera vicino a Castelvetrano. Trovarono il cadavere di Bartolomeo Oliva crivellato dalla lupara: era un contadino con qualche trascorso penale, ma quasi certamente estraneo all’assassinio di Miraglia. Quando vuole liberare gli amici potenti dai sospetti per un delitto clamoroso, la mafia fa uccidere un qualsiasi ladro di bestiame e lo indica autore del crimine.
Ha tentato di fare altrettanto per l’uccisione di Aldo Tandoj. Mi ha raccontato un amico che pochi giorni dopo il delitto ci fu a Casteltermini, borgata poco lontana da Agrigento, una riunione eccezionale di mafiosi che incaricarono un di offrire alla polizia l’assassino del commissario, s’intende morto. La polizia avrebbe rifiutato e le indagini scivolarono lungo la pista solare del delitto passionale. Non posso affermare l’autenticità dell’episodio, ma conoscendo i metodi della mafia lo credo verosimile; <strong>molti delitti sono stati archiviati dopo la scoperta degli autori già «giustiziati» dalla mafia, ma quanti di quei morti erano gli assassini reali?
E’ un rompicapo che nemmeno il commissario Tandoj ha potuto risolvere, la mafia rimane indecifrabile anche per i tutori dell’ordine che, talvolta, ne sono vittime loro stessi, e non solo fisicamente. «Tandoj conduceva una vita superiore ai suoi mezzi» mi diceva il prof. La Loggia
. Altri mi hanno sussurrato che sulla sua automobile sono state trovate tracce di stupefacenti e che nel suo alloggio di Roma aveva una valigia a doppio fondo. «Che faceva con una simile valigia un commissario di polizia?». Un movente a quel delitto, benché vago e offensivo per il morto, bisogna trovarlo dopo che la moglie e gli amici di Aldo Tandoj sono stati scarcerati. Il prof. La Loggia ha ripreso le sue occupazioni professionali e mondane, la signora Leila Tandoj ha ottenuto a ottobre la licenza magistrale per fare la maestrina e, dice, «rifarsi una vita». La mamma di Antonio Damanti, il ragazzo ucciso per errore, vaga in una sua dolente malinconia disfacendo la sera e rifacendolo la mattina, il letto del figliolo, per risentirlo vivo. Intanto, l’istruttoria prosegue nel segreto degli uffici e tra l’indifferenza degli agrigentini, avvezzi ai delitti impuniti.