Pirandello fu celebrato più per quello che nella sua opera non c’è, che per quel ch’essa ha di vivo e affascinante. La critica si è sbizzarrita sulla « filosofia » di Pirandello, ma quella filosofia non esiste; Pirandello non fu né filosofo né, in senso stretto, pensatore; fu un artista, e con la sua straordinaria, nevrotica sensibilità dell’irrazionale, ai segreti di una psicologia dissociata, si trovò a dar voce, dialogo, personaggi all’inquietudine del tempo.
Dalla sua paradossale dialettica di drammaturgo i commentatori trassero sofisticate astrazioni; ma a noi non interessa più la presunta ideologia di Pirandello, interessano le sue novelle, i suoi drammi, la poesia, e, a meglio intenderli, la concretezza della sua vita d’uomo.
Gaspare Giudice ci dà una vasta biografia dello scrittore siciliano, foltissima di fatti, penetrante, accorta (Luigi Pirandello, nella collezione « La vita sociale della nuova Italia », Utet); e per dimostrare subito quanto aderente e illuminante sia il dato storico e biografico, ecco un punto essenziale. A venti anni, nel 1887, Pirandello lascia la Sicilia, e il biografo si domanda: che resta in lui di siciliano?
Sappiamo che per certi aspetti del suo talento ragionatore e sottile egli fu detto « figlio della Magna Grecia », « sofista siceliota », « cicala greca »; ma questa è pura rettorica; la Sicilia che segnò per sempre la memoria e la fantasia di Pirandello è tutt’altra, è la Sicilia dell’Ottocento, Girgenti, Porto Empedocle, una regione ancora arabizzata, ancora dominata da antichissime tradizioni, medievale e feudale, ove era possibile che un ricco proprietario (il suocero stesso di Pirandello, Calogero Portulano) impedisse ai contadini di avere il cimitero nelle sue terre, ove le « zolfare » erano una specie di allucinante inferno che ingoiava uomini e ragazzini, e dalla quale lo scrittore trasse un estremo e radicale pregiudizio di moralità
nelle cose d’amore, un concetto della verginità e castità « legato al tabù sacrale del sesso », un che di doloroso, di incantato, di pavido e di puro che ritroveremo poi sempre nei suoi rapporti con le donne.
Pirandello che, professore alla Scuola di Magistero, a Roma, arrossisce se un’allieva lo guarda con troppa insistenza, così attaccato, così intimamente fedele alla moglie divenuta pazza, da tenersela con sé, in casa, anche quando la convivenza era divenuta intollerabile, assurda, Pirandello che nell’ultima stagione della sua vita s’innamorò di un’attrice bellissima, Marta Abba, ma sempre le fu accanto in una platonica devozione fatta di rispetto, di sogno, di incomparabile nobiltà, è lo stesso che, fanciullo, aveva scoperto per caso quel pauroso groviglio di amore e morte, di lussuria e d’odio, che sta al fondo dell’istinto.
Un giorno il piccolo Pirandello, che non aveva ancor visto un morto, sente dire che nella torre adibita a morgue c’era un tale.
Il bambino mosso da irresistibile curiosità, se ne va tutto solo a vedere, e inciampa nella panca funebre: all’improvviso vede il corpo giacente. E tosto, nella chiusa atmosfera ( è il Nardelli a narrare l’aneddoto) « Luigi percepì un piccolo rumore, quasi un frullo…
Trattenne il respiro. Quel frullo tornò a farsi udire, non d’ali, non d’aria. Un frullo strambo », e il piccino scorge un uomo e una donna allacciati. E’ la cosa orrenda che incise per sempre la sua sensibilità. Ma il Giudice sottolinea che forse quel nefando spettacolo non sarebbe bastato a determinare tanta parte del comportamento successivo dell’uomo e dello scrittore se non ci fosse stata un’altra sua aspra esperienza: quella col padre. Pirandello era un fanciullo molto affettuoso, espansivo, e suo padre era un omaccione violento, duro, che deluse completamente, che soffocò il desiderio di esprimersi, di « comunicare » del suo piccolo. Come se ciò non bastasse, a far prorompere la ribellione del figlio, questo padre era adultero, aveva un’amante, e Luigi, a quattordici anni, si fa paladino della madre contro il padre che la tradisce.
Ci siamo soffermati su questi particolari non per gusto delle torbide miserie della vita, ma perché, a nostro parere, illuminano la fantasia stessa di Pirandello meglio assai di molte divagazioni estetiche. In tutta l’esistenza dell’autore di Così è (se vi pare) e in tutti i suoi scritti, così brillanti, così avventanti, ritroviamo un senso remoto di umiliazione e di insofferenza, di orgoglio ferito e di aggressività corrosiva, qualcosa che ci riporta costantemente, inflessibilmente, a una distruzione interiore avvenuta nella notte stessa delle sue origini, e alla quale egli cerca di sfuggire con i fantastici artifici, con lucida malizia. Ch’egli ripercorra i paesi della sua Sicilia, o si aggiri con Mattia Pascal nella Roma umbertina, o tenti i grandi miti della sua più impegnata e meno felice drammaturgia, rimane in lui, attivo operante delirante, quel « troppo immediato apporto autobiografico », che tanto fastidio dava a Benedetto Croce. In noi la sua natura di uomo represso, timido, un po’ sadico, tenero, ossessionato dai fantasmi (i suoi famosi « Personaggi »), desta una curiosità acuta.
Complesso, stravagante, si sa, spesso inafferrabile; ma a dargli definito rilievo è un romantico destino teatrale. Pirandello prediligeva la narrativa, si sentiva romanziere e novelliere, tuttavia, fortunatamente, l’istinto di teatrante riuscì a vincere, e a rivelarlo nella sua essenza. Uomo di teatro Pirandello era nato; e certe sue novelle bastò ritoccarle, scandirle in dialogo, perché diventassero commedie. Nel libro del Giudice, è riportato un tratto che fa rivivere Pirandello « attore », con quella sua capacità di diventare davvero non solo questo o quel personaggio, ma tutti i personaggi delle sue commedie. Pirandello legge un copione e Niccodemi descrive: « Il suo viso è di una mobilità incredibile. Fa pensare a una folla di visi in azione… ». E su questa immagine finiamo.
E’ l’immagine stessa della sua sorte di dissociatore della coscienza e del cuore umano, che, poi, soltanto nell’incarnazione scenica dei personaggi temuti e amati, evocati e subiti, frantumati e viventi, esprime la pienezza della sua arte vera, lo stimolante segreto di una vita affacciata sul nulla.
Francesco Bernardelli in Il dramma, anno 39, n.319, aprile 1963