Completamente immerso nel verde e in un silenzio assoluto che induce spontaneamente alla meditazione e a circa mille metri d’altitudine, si erge solenne l’Eremo della Quisquina, il cui primo nucleo venne edificato nel 1625 quando il principe di Ventimiglia donò agli Stefanesi delle reliquie di Santa Rosalia, i cui resti erano stati scoperti l’anno prima nella grotta del Monte Pellegrino a Palermo. L’Eremo comprende, oltre agli elementi conventuali e alla cripta, una chiesa e la grotta, nella quale, secondo la tradizione, dimorò per dodici anni Rosalia Sinibaldi. La prima, storica comunità s’insediò nell’eremo nel 1690 seguendo l’esempio del genovese Francesco Scassi, che vi si ritirò con tre compagni. Tra gli altri personaggi famosi che vi hanno dimorato ricordiamo Fra’ Vincenzo (al secolo Bartolomeo Pii) e il conte modenese Carlo Boccolari. Nel 1807 l’Eremo fu visitato da Ferdinando di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, che rimase particolarmente impressionato della spiritualità che vi si respira. Comunque, non sempre l’eremo ha significato tranquillità e misticismo perché taluni tristi episodi hanno turbato, squassandola, l’atmosfera sacrale tipica del posto: l’omicidio di Fra’ Bernardo (1922), l’attentato a G. B. Peruzzo (1945) vescovo di Agrigento, i furti del 1973 e del 1982 che hanno privato la chiesa di diversi oggetti sacri e di trentadue tele, in particolare di opere dei fratelli Antonino e Vincenzo Manno e di Federico Panepinto. Le tele sono state rimpiazzate da altre dì pittori stefanesi moderni quali F. Chillura, A. Leto e G. Rizzo. La chiesa, in una navata, venne costruita sui finire del XVII secolo e conserva ancora numerose opere d’arte. Da una botola sistemata al centro della navata si accede alla cripta, dove veniva no sepolti gli eremiti. Il complesso, quantunque costruito in tempi diversi e costituito — come abbiamo detto — da più strutture, appare unitario, armonioso e in simbiosi con il luogo. Il fondo della Grotta accoglie una statua in marmo di S. Rosalia dormiente, attribuita al Pennino (sec. XVIII). Secondo un diffusa credenza, solo entrando nella grotta con fede e devozione sincere non si è bagnati dall’acqua che scivola nella parete d’ingresso, molto angusta. Tratto da “Nicchie ed edicole votive – conventi, santuari, chiese rupestri della Montagna agrigentina”, ITC Bivona, a cura di E. Giannone. | |
