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Le origini del Marsala, vanto del genio dei siciliani

13 Aprile 2022 //  by Elio Di Bella

I battenti di una porta, cigolando sinistri sui cardini, si chiusero isolando dal mondo la “cittadella del vino”. Mura altissime come in una fortezza; viali larghi e luminosi, immensi ambienti lunghi decine e decine di metri, colme di botti a perdita d’occhio. Silenzio: un silenzio pesante che smorza i passi, soffoca le voci; più discosti: giardini come aiuole fiorite, berceaux di gusto squisito, una palazzina con salotti stile e letti vuoti, deserti, coperti di sette. Dappertutto odore forte, penetrante,  ossessivo di vino, ed afferra alla gola. È ancora ansimare sordo di macchine, battere di colpi su botti panciute, muovere rapido di mani femminili attorno alle bottiglie, luccicanti: cristalli preziosi, colorate trasparenti con mostruosi giubbini. Lontanissimi, smorzati in quell’ebbrezza diffusa nell’aria, il fischio di una locomotiva e  un sordo fragore d’onde marine. Nei polmoni, nella testa, fin sul cervello, negli occhi: vino, vino sempre vino, rosso cupo, caloroso, smarrente.

La “cittadella del vino” sorge sulla riva del mare a Marsala e la strada ferrata sembra contener gli sviluppi e le espansioni. Ogni mattina, alle otto, 171 persone, tra operai e impiegati, ne varcano la soglia e si mettono al lavoro. Stringono entro grandi cerchi di ferro le doghe delle botti; azionano pompe, aprono valvole. Con il liquido che, sordamente scorre nei tubi di rame, tesi da un campo all’altro dello stabilimento, decine di mani riempiono fusti e bottiglie. Sempre così senza sosta, ogni giorno. Un milione di bottiglie vengono in un anno riempite nella “cittadella” e spedite; 2000 ettolitri di vino scuro forte, compresso in grandi botti, ogni mese, vengono caricati sui vagoni o nelle stive, per correre il mondo. Ma nello stabilimento della “cittadella” silenziosa del vino, il rosso liquido, forte ed odoroso, rifluisce incessantemente, riempie gorgogliando i giganteschi tini di cemento fasciate all’interno di vetro, si ingolfa nelle botti di rovere accatastate lungo le cantine lunghe fino a 200 metri e lì risiede, invecchia mischiandosi a  vini vecchi di secoli, acquista sapore e forza e ne viene cavato fuori, alla luce, da sottili tubi di rame, che pescano nelle botti rigonfie.

La “cittadella” prende il nome da un siciliano, Florio, che nel 1833 costruì un suo stabilimento tra due similari, sorti in precedenza per l’iniziativa di due inglesi, il Woodhouse, costruttore del più antico, e lo Ingham. Per 20 anni, Florio non ricavò una lira: perdeva a chiusura dell’esercizio, immancabilmente. Non se ne curò. Aspettava; intanto immagazzinava vini. Ogni anno nuovo vino andava a colmare le botti grandissime e lì stava; quando a venderlo, era un altro discorso: dei due stabilimenti inglesi i fusti uscivano a iosa, carichi di varietà pregiate di Marsala, e sui velieri raggiungevano l’Inghilterra. Laggiù i vecchi signori, i lunghi calici sottili di cristallo, bevevano il Soleras, la varietà del Marsala pregiata raffinata, eccitante per forza dall’alcool,  più splendente dello Xerez, dolcemente odorosa, più inebriante del Porto.

Florio, dicevamo, aspettò vent’anni. Poi, lentamente si impose; l’industria crebbe, le vecchie cantine, ricche di vini saggiamente raccolti e lasciati invecchiare, si votavano, si riempivano incessantemente. Il Marsala col suo nome siciliano correva per il mondo, innaffiava le mense delle corti e dei raffinati, dava al popolo la gioia di godere, assaporandolo con voluttuosa abbondanza e da poco prezzo, un vino pregiato degno coronamento e ricercato suggello di pranzi abbondanti e copiose bevute.

Oggi la “cittadella del vino” del suo nome famoso, Florio, raccoglie l’eredità degli stabilimenti Ingham e Woodhouse che, tutti insieme riuniti occupano, tra complesso principale e dipendente, ben 350.000 ettari di terreno, sui quali nel maggio del 1943 s’accanì la furia della guerra. Cento bombe devastarono gli impianti, producendo danni gravissimi (non ancora indennizzati dallo Stato), 10.000 ettolitri di vino si sparsero intorno, inzuppando la terra e il sangue degli operai, colpiti mentre erano intenti al lavoro,  rosso il selciato,  le macerie sconvolte. Pini immensi, della capacità di 18.000 ettolitri, furono sventrati e divelti. Restavano le cantine con le riserve di vini antichissime. Fu questa la base della ricostruzione del più grande complesso vinicolo siciliano, lentamente avviata per la tenace volontà da un uomo, il conte Marone Cinzano, tra ostacoli e condizioni di mercato sempre più aggravandosi e difficili.

Chi percorre gli stabilimenti a una sensazione strana di cosa fuori dell’ordinario. Non si finisce mai di camminare. Generazioni si sono succedute tra quelle mura antiche e costumi diversi hanno lasciato tracce, orme. Accennavamo ai berceaux, ma ci sono, anche due giardini d’inverno con le voliere agli angoli e campi da tennis in cemento e, ancora la palazzina per gli ospiti in stile neoclassico. Lo stabilimento, invece, si articola nelle distillerie e nel complesso vero e proprio per la produzione del Marsala.

Il vino misterioso, che da questa contrada prende il nome, sapore inconfondibile, è risultato dell’opera sapiente del tempo, che fa invecchiare il liquido nelle botti, cui per dar forza e vigore viene aggiunto all’alcool, onde conferirgli sapore e giusta dolcezza, mosto cotto. Negli immensi magazzini di invecchiamento si trovano botti vecchie di secoli, botti di rovere, che di per se stesse, per la qualità del legno pregiato, rappresentano valori inestimabili. Hanno la capacità di venticinque-trenta ettolitri stanno ammucchiate, lunghissime fila come ventri rigonfi. Un operaio le batte con un martello di legno, sorvegliando se il legno vecchio, ormai, di secoli riveli la minima increspatura, giacciono le botti, sotto grandi archi di pietra dura a sesto acuto: nell’aria è un profumo fine, ma chi sosta a lungo in quell’afrore avverte come un principio di stordimento.

Il vino invecchia lentamente: dagli stabilimenti un buon Marsala non esce, se non dopo un invecchiamento prolungato per sei anni, qualità più raffinate hanno 20 anni, ma c’è un tipo che del 1860 e piacque a Garibaldi e altri più antichi, fino a quello messo in cantina da Florio nel 1840, e, ancora più lontani nel tempo, i Soleras di Ingham e di Woodhouse del 1836 nel 1815, ultracentenari. La prodigiosa misteriosa virtù dei vini è che, aggiungendo in una botte vecchia di un secolo una quantità minima di vino nuovo, questo acquista le caratteristiche della massa, con cui si confonde.

Con procedimenti particolari, controllatissime aggiunzioni, secondo quella che i tecnici chiamano scala di invecchiamento, pur asportando per il consumo piccoli quantitativi di vino, qualora se ne sostituisca in proporzione conveniente, le botti conservano sempre lo stesso vino, vecchio di secoli. Le scorte di tali vini preziosi permisero alla Florio di riprendersi, seppur a fatica.

Nelle cantine si celano, infatti, capitali e ricchezze liquide praticamente inestimabili: questa appunto, la forza degli stabilimenti, nel loro insieme, il complesso più formidabile e organizzato della industria vinicola siciliana. Alla produzione pregiata si affianca quella corrente, che viene elaborata nei tini in cemento – laddove vini di più alta importanza invecchiano nei fusti di rovere – ma che sempre presenta caratteristiche di alta qualità per l’accuratezza della lavorazione, la perfezione della tecnica produttiva e l’abilità delle maestranze, che traggono dallo stabilimento vita e lavoro.

Nell’aria inebriante la “cittadella del vino” conserva un’aria di mistero: solo i tecnici ne conoscono i segreti, che si tramandano come formule rituali, alchimie inafferrabili, patrimonio di pochi. Uno solo, il direttore tecnico, conosce certe proporzioni e può stabilire alcune dosi; tutti gli altri ignorano i segreti, che si tramandano di generazione in generazione, come un formulario rituale.

L’accuratezza delle lavorazioni, la perfezione delle manifestazioni fanno la gloria di un’industria, che appartiene a Marsala, vanto della Sicilia, come tutte le glorie del lavoro isolano, è  opportuno conoscerla, valutarla; ignorarla sarebbe disconoscere un’ operante positiva realtà nell’economia isolana, che va, invece, apprezzata, sorretta e affiancata come un problema fra gli altri, di fondo per il progresso e il benessere della Sicilia tutta, che trae anche da questa forma di attività produttiva, le premesse per un potenziamento delle strutture produttive.

Non c’è straniero visitatore che non resti  ammirato, posto di fronte a un complesso industriale, come questo, che produce merce di altissima qualità ed inestimabile pregio con metodi rigorosissimi e assoluta serietà mai venuta meno, anche quando svilire il Marsala fu vezzo e mezzo per far quattrini. Ed è esso gloria dell’ingegno del lavoro siciliano, frutto di anni anni di applicazione di fatiche, profuse dalle generazioni succedutesi nel tempo a governare operare nella “cittadella dei vini”: chiusa, misteriosa, oggi avvolta di silenzio, nell’aria carica greve d’ebbrezza

Giornale di Sicilia del 18 maggio 1952, Riti misteriosi della cittadella del vino

Categoria: Storia SiciliaTag: florio, marsala, sicilia, vino

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