Marittima e montuosa, vulcanica e fertile, indolente e appassionata, ricca e povera, terra colma di storia e superpopolata, la Sicilia è l’isola dei contrasti.
Me ne sono potuto rendere conto, in pochi giorni ad Agrigento, più agevolmente che a Palermo e Catania, città troppo grandi per poterne afferrare subito il carattere e analizzare l’insieme. Questo mi ha permesso, non soltanto di ammirare il luogo e di visitare le stupende rovine della città antica, ma di auscultare il polso, mescolandomi un poco alla sua vita quotidiana, di un agglomerato che possiede circa 40.000 anime.
Sono trascorsi sessant’ anni da quando Johannes Brahms e il suo amico J. V. Widmann hanno visitato Agrigento. L’attuale proprietario dell’albergo Belvedere, non era che un bambino, ma egli ricorda tutto molto bene e mostra con fierezza le firme che il celebre compositore tedesco e l’insigne critico del Bund hanno lasciato sul libro di suo padre; fierezza tanto fondata in quanto in un suo piacevole scritto, Widmann consacra quasi due pagine per lodare l’ospitalità ricevuta e vantare il colpo d’occhio che si gode dalle finestre dell’albergo e giustificandone il nome.
Il figlio ha ripresa la tradizione paterna e se scopre il vostro interesse per il passato di Agrigento, questo grande amico di Pirandello, vi mostra la sua personale collezione di vasi greci, di figurine di terracotta e di cristallo di zolfo.
Il panorama inafferrabile è rimasto identico a quello descritto dal Widmann e abbraccia tutto Agrigento, dalla città ai templi, al mare.
La città attuale copre, a 300 metri di altezza, un crinale della collina che porta alla fortezza della città antica. L’ellenica Akragas doveva però ricoprire più della metà della costa che devia per scendere poi dolcemente verso il mare africano, raggiunto, dopo sette chilometri, a San Leone e più all’ovest a Porto Empedocle. Lo testimoniano le tracce delle mura di cinta, che oggi serrano solo ricche distese di mandarini, olivi, e nella valle riparata, di aranci. A mezza costa, su una curva rocciosa, si vedono gli antichi templi. La vasta estensione che li separa dalla città, convaliderebbe la tesi dello storico Diogene Laerzio, il quale sostiene che al tempo del suo splendore, Agrigento contava circa 800.000 abitanti. Pindaro, che la conobbe allora, la saluta come « la più bella delle città abitate dai mortali ».
strada dei templi
Fondata nel 582 da coloni venuti dalla vicina Gela, non tardò a soppiantare la sua metropoli e a diventare la rivale di Siracusa.
Ma le due città dovettero riconciliarsi di fronte alla minaccia cartaginese, annientata, nel 480 dalla vittoria di Imera, dovuta a Gelone di Siracusa e Terone di Agrigento. La sua ricchezza si manifestò, in modo particolare, nel numero dei templi con i quali fu ornata. I -cartaginesi, ritornati all’assalto, nel 406 la saccheggiarono. Siracusa che aveva avuto la possibilità di opporre loro resistenza e di respingerli potè risollevarsi, ma Agrigento dovette soccombere, riconoscendo la supremazia siracusana sulle colonie greche della Sicilia.
Le antiche rovine sono innumerevoli a Agrigento. Templi rupestri, templi greci, monumenti romani, necropoli cristiane fanno la gioia degli archeologi. Cinque soprattutto i questi templi greci (su dieci che sono stati identificati), formano la sua celebrità. Tutti e cinque sono stati costruiti sul rilievo che si erge sulla metà della costa e che la strada di Siracusa, a tre chilometri dalla città moderna, raggiunge alla Porta d’Oro, dove batteva il cuore dell’antica colonia.
Questi templi dorici datano dalla fine del VI e V secolo, cioè a dire appartengono al periodo aureo.
Le guerre, i barbari e i terremoti hanno compiuto la loro distruzione. Il più grande di questi monumenti, quello di Giove Olimpio, che fu costruito in seguito alla vittoria di Imera, in fatto di dimensione, non cedeva che al tempio di Diana in Efeso. Oggi copre il suolo con le sue imponenti rovine, fra le quali si trova, bene o male ricostruito, uno dei giganteschi Atlanti, alto sette metri e mezzo, che sosteneva l’architrave. Un po’ più all’ovest, di fronte ai mandorli che cominciano a fiorire i primi giorni di gennaio, quattro colonne ad angolo rialzate, sopportano un frammento di frontone e formano un pezzo di architettura particolarmente armoniosa. È il tempio attribuito a Castore e Polluce.
All’est, dominanti la Porta d’Oro, otto colonne d’un tempio d’Ercole sono state rialzate e, al di sopra delle disordinate rovine, profilano contro lo sfondo marino, la loro processione di pietre. Fra innumerevoli tombe vuote, una strada alberata sale al tempio della Concordia. Questo è il più conservato e, forse, il più bello di Agrigento. Ricorda nella sua quadratura, il Theseion ateniese. Ad un chilometro di distanza appare la sagoma decapitata, il canto interrotto, ma intenso, del tempio arbitrariamente attribuito a Giunone Lacinia. Di questo non resta che il basamento e le colonne, alcune delle quali sostengono ancora l’architrave.
tempio della concordiaAi piedi della sommità sui cui si trovano i principali templi, a qualche passo dal crocevia da dove partono le strade per Porto Empedocle, San Leone, Siracusa e Agrigento,
un alto piedistallo reca una specie di piccolo tempio quadrato, dai muri ciechi e fiancheggiati da quattro colonne ioniche. La tradizione ne fa la tomba di Terone, in realtà si tratta di un mausoleo dell’epoca romana. Di questa epoca deve egualmente datare il presunto oratorio di Falaride che si può vedere, risalendo Agrigento, a due passi della chiesa di San Nicola. Questa è d’altronde strana, perciò la sua data resta controversa: gli uni la suppongono una costruzione dell’epoca sveva, gli altri l’attribuiscono al XVI secolo. In ogni modo lo stile romano-gotico, conferiscono a questo santuario cristiano una sensibile gravezza, nella quale si suppone avvertire l’influenza dei vicini templi dorici.
Per completare la visita delle rovine greco-romane, lo straniero deve visitare il museo archeologico, dove si trovano bei pezzi di scultura, fra i quali il famoso Efebo arcaico assieme ad una ricca collezione di vasi greci. Nella sala capitolare della cattedrale, le sculture di un magnifico sarcofago dell’epoca di Adriano narrano la tragica storia di Fedra e Ippolito. Fuori della città, la collina che porta ad Agrigento raggiunge il più alto vertice alla rupe Atenea, la rocca di Atena, dove si trovano alcune rovine attribuite ad un tempio. Bisogna salire verso sera per vedere il sole immergersi nel mare d’Africa mentre l’ombra si allarga sulla campagna, sulla città e sul caos montuoso ed arido che si increspa a nord.
Il giorno successivo attraverserà il quartiere moderno, attristato dalla vicinanza delle prigioni, del manicomio e del cimitero, per affrontare le rocce che si spingono nella piccola valle dove qualche volta scorre il San Biagio,
per raggiungere le rovine di un santuario rupestre, dei frammenti dell’antico mino di cinta, oltre alla vecchia cappella di San Biagio, costruita con e sugli avanzi del tempio di Demetra. Ma non potrà lasciare Agrigento senza rivedere la sua collina sacra e ridiscenderà alla Porta d’Oro per ricontemplare l’incomparabile sfilata dei templi. Dall’alto del loro piedistallo naturale questi benedico no la campagna, e la loro solitudine e l’eguale distanza dal mare e dalla città, conferiscono, al vasto paesaggio, una grande solennità. Ci si trova in presenza di uno di quei luoghi che l’uomo ha nobilitato abbandonandolo, in quanto spira ancora in essi lo spirito. Lo straniero non può, non senza rincrescimento, lasciare la fioritura di questi poemi di pietra e la loro taciturna grandezza, grato, nello stesso tempo, di essersi per loro riconciliato con le creature e di ritornare nel fragore delle città, più leggero.
Daniel Simond, in Sicilia, Sciascia edizioni, Caltanissetta 1957