Negli anni che abbracciano il 1945 sino all’incirca il 1960, o giù di lì, nel nostro mondo della scuola circolava una gratuita illazione — oggi Bufalino direbbe «diceria» —, riferita all’insegnamento dell’italiano negli istituti tecnici e per geometri da parte dei professori di lettere. … –
In quegli istituti l’insegnamento era da serie B, cosi come da serie B erano gli insegnanti delle materie letterarie; perché un vero insegnante di lettere avrebbe dovuto insegnare in un liceo; e classico, naturalmente! La «diceria» non era circoscritta alla Sicilia, ma vagava pettegola per tutta la penisola, tanto che qualche volta creava dei complessi nei malcapitati docenti. .
Ad Agrigento — ricordo — in quegli anni, il «problema» vivacizzò l’ambiente, e non soltanto quello scolastico. Se il liceo era il liceo, l’Istituto tecnico, quello dei ragionieri per intenderci, aveva la professoressa di lettere Maria Alaimo, meglio conosciuta come la «signorina Alaimo». L’ago della signorina Alaimo fece bilanciare il «problema» e così tutti vissero felici e contenti, mentre la «diceria» si sgonfiava sempre più: e non poteva essere altrimenti.
Le ragioni di quell’«ago» c’erano ed erano più che valide (me ne resi conto dopo che conseguii il diploma all’ Istituto tecnico «M. Fodera»; dopo essere stato allievo ribelle di Maria Alaimo con la quale osavo dialogare a viso aperto, forse oltre il consentito, su questioni letterarie ed etico-religiose, non per niente le sue lezioni in aula e negli interminabili pomeriggi, in qualche fredda anticamera di sagrestia, avevano lasciato il segno meraviglioso dell’apprendimento, al di là della prospettiva di un buon voto trimestrale).
Il vecchio Istituto Foderà era situato all’inizio della discesa che portava in piazza Municipio, venendo da via Atenea; vi si accedeva da un vecchio portone di legno grigio, per una scalinata consunta d’orme di generazioni. Dopo un cancello e dopo avere sbirciato un atrio a cielo aperto con un pozzo misterioso, si arrivava ai lunghi corridoi, alle aule spaziose e odorose di polvere fra echi di «partite doppie». La era sufficiente l’ombra della signorina Alaimo a fare volatizzare ogni presenza fuori ordinanza e fuori intervallo: erano sacri anche i corridoi. Al suo passaggio cessavano, come per incanto, i cicalecci nelle aule che attendevano il cambio dell’insegnante.
Ma non era, come si suol dire, «tremenda»: esercitava, sapeva esercitare la sua professione; e, «malgrado» insegnasse in quell’istituto agrigentino, attorno a lei si creò un mito; un mito che affondava le radici in una matrice cristiana e filosofica dell’esistenza, filtrata da studi profondi che gli provenivano dalla frequentazione del Magistero di Roma, da docenti che si chiamavano Attilio Momigliano, Giustino Ferri, Manfredi Porena, oltre ad un certo Luigi Pirandello suo insegnante di stilistica.
In verità noi studenti, a quel tempo, sconoscevamo il passato universitario della nostra signorina Alaimo;
per noi era sufficiente conoscere quello che lei pretendeva, affinché, maturando, potessimo essere «degni della società» alla quale andavamo incontro!
Ricordo le lunghe note, quasi dei piccoli trattati, che scriveva negli stessi fogli dei temi fatti in classe, dove l’eventuale errore di grammatica o di forma passavano in seconda linea nei confronti del contenuto, della filosofia! Le sue note sapienziali si aprivano a concetti moraleggianti in simbiosi con l’argomento letterario, o di fantasia, da noi trattato nel tema; e non importava se svolto a casa o in classe.
Aveva un incedere pesante, accentuato dalle scarpe dal tacco basso, mascolino; e se ci sorrideva era come si trattasse di una gratificazione insperata. Qualche volta portava un cappellino, una specie di caciotta, con o senza la veletta, anche quando veniva a scuola; e quando compariva il pomeriggio per una lezione «chi vuole venire venga!» oppure si presentava in qualche circolo per tenere una conferenza, o soltanto per assistervi, possedeva il carisma di fare accorrere i cultori e gli amanti della letteratura, giovani o anziani che fossero: perché rappresentava un inimitabile punto di riferimento dell’Agrigento culturale di quel periodo. In quelle occasioni, di solito, si accompagnava alla sorella, con la quale si somigliava moltissimo: si sarebbero potuto scambiare per gemelle; e mentre questa, Concetta Torricelli, era rimasta vedova, la signorina Alaimo era rimasta nubile.
Sui perché fosse rimasta tale, non poche volte si accesero le nostre congetture e curiosità che — ricordo — rimasero inappagate! A pensarci bene, una volta qualcuno ci disse che la signorina Alaimo era stata la «prediletta» di Pirandello. E certamente di predilezione dovette trattarsi; ma di una predilezione molto larvatamente platonica e più professionale. Non a caso, nel 1934, Pirandello, presentandola a Marta Abba, dopo uno spettacolo al Teatro Regina Margherita disse che Maria Alaimo «era una delle alunne più intelligenti che avesse avuto al Magistero di Roma» (e Pirandello non era uomo dai facili complimenti). «Anche» intelligente; senza considerare il fatto che entrambi possedessero il «bacillo» del Caos e del «mare africano» che li aveva colpiti entrambi, anche se per strade diverse, urto all’essenza del loro essere.
Maria Alaimo vide la luce il 2 luglio 1894 a Palermo, dove suo padre esercitava la professione di medico oculista. Nativo di Porto Empedocle, il dottore Libertino Alaimo raggiunse presto fama nazionale per avere lottato contro la malattia del tracoma che in quegli anni affliggeva la Sicilia, e non soltanto essa. Fu autore di una quarantina pubblicazioni scientifiche, e quando nel 1901 ritornò a Girgenti fondò e ne fu direttore direttore per molti anni, il settimanale «La Scopa», un foglio senza peli sulla lingua fin dal suò nàscere.
Ad Agrigento Maria Alaimo frequentò le scuole di primo e secondo grado; quindi si reca a Roma per iscriversi a quel Magistero; e fu là che conobbe Pirandello, già amico di suo padre. L’esame di ammissione in quella Università di Magistero lo sostenne il 25 ottobre 1912, svolgendo il tema: «Un luogo a voi caro per bellezza o per memorie che vi ridesti», il tema fu dettato, e poi corretto, da Luigi Pirandello che vi trovò «…uno stile elegante ed incisivo, ricchezza di sentimenti e la contemplazione delle cose con una venatura di romanticismo…».
Non poteva essere altrimenti! E poi: non li accomunava la Valle dei Templi,
i mandorli e gli ulivi saraceni che si specchiavano alla foce dell’Ipsas, non ancora schiacciati dalle ombre dei cementi di argilla alla rinfusa della sovrastante Agrigento?
Nel 1920 la signorina Alaimo si aggiudicò il concorso a cattedra per l’insegnamento d’italiano e storia negli istituti tecnici superiori, optando per il «Michele Foderà» di Agrigento, dove poi insegnò per una quarantina d’anni, io ebbi il privilegio di conoscerla là e di formarmi alla sua «scuola», trascurando le lezioni di ragioneria, con le stucchevoli «partite doppie», che dovevano essermi più pertinenti. La signorina Alaimo morì ad Agrigento il 19 giugno 1971 e fu sepolta a Porto Empedocle, nella tomba di famiglia.
Il reverendo Biagio Alessi, amorevole e scrupoloso ricercatore, riscopritore di personaggi, di cose della provincia agrigentina, ha raccolto in volume (non ancora apparso nelle librerie) la «storia» di Maria Alaimo e, soprattutto, una corposa serie di scritti editi ed inediti sui pensieri della Alaimo su Pirandello, tali da offrirci una singolare testimonianza di prima mano da parte della sua allieva prediletta.
Il libro «Maria Alaimo – Sintesi di Pirandello» consente di approfondire ulteriormente le inesauribili questioni pirandelliane alla luce anche di quanto stimola il sottotitolo: «Saggi, riflessioni e note critiche tra edito e inedito». La sovracopertina, di Andrea Carisi, rappresenta una delicata allegoria di motivi pirandelliani fra i quali spicca il volto del Maestro, fra particolari nobeliani e «maschere nude»; il volume fa parte della Collana di documentazione delle Edizioni del Centro Culturale Pirandello di Agrigento ed è stato stampato da «La Magnifica» sotto il controllo tipografico Ardente. Nel libro sono riportati conferenze, conversazioni e articoli giornalistici che Maria Alaimo stilò per il pubblico, ma forse anche per se stessa: per giustificarsi e per giustificare la poliedricità di interessi culturali di Pirandello (credente e miscredente) vissuti in un continuo turbinìo esistenziale.
Per esempio, nella conferenza tenuta al Circolo di Cultura di Girgenti, il 10 gennaio 1925, che aveva per tema: «Pirandello e il “suo modo”», la Alaimo, fra l’altro, ebbe a dichiarare che «…non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal linguaggio riflessivo di Pirandello; non bisogna — come il Tilgher ha fatto — pigliare alle lettere una certa terminologia pseudo-filosofica che Pirandello, nel libero campo delle sue intuizioni, si permette di usare; perché le sue intuizioni artistiche sono spesso così indeterminate, da adagiarsi in termini che hanno solo in apparenza un valore universale. Tutto ciò perché la responsabilità di un sistema filosofico non pesa né dovrebbe pesare in Pirandello».
Nella medesima conferenza, quando si trattò di fare una comparazione fra i personaggi di Verga e quelli di Pirandello osservò, con rara intuizione critica, che «…i personaggi pirandelliani erano sì dei vinti inesorabilmente della vita, ma sui vinti verghiani si proiettava un raggio di sconsolata pena – che li componeva in un dignitoso, sincero dolore. I vinti pirandelliani erano già grotteschi incoscienti della lotta camuffati a sostenerla e a pareggiarla, deformati nella sconfitta da un sentimento di compassione non pura e non dignitosa».
Ora, se si considera che la critica di Maria Alaimo si palesava in tutta la sua genialità in un periodo non ancora «inflazionato» come l’attuale, si può dedurre che la critica d’oggi non abbia potuto fare a meno delle «sue» tesi, seppure forse dettate da una fortunata frequentazione del Maestro il vita.
Nel testo inedito di una conferenza (L’avventura eroica del Risorgimento nell’opera di Pirandello) si legge — è sempre la Alaimo che scrive — che Pirandello definì la politica «un gioco di promesse», ricordando, altresì, alcune dichiarazioni del suo Maestro fatte al «Giornale d’Italia»; «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E come tale, molto semplice e parco, potrei aggiungere casto».
Così come, in una intervista rilasciata al corrispondente del «Piccolo della Sera» di Trieste, il 21 ottobre 1924,dichiarò: «La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni vedono non meditate e buttate giù di petto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale.
Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me ne occupo, non me ne sono mai occupato. Se alludete al mio recente atto di adesione al fascismo (vi si iscrisse nel settembre del ’24 – n.d.r.), vi dirò che è stato compiuto allo scopo di aiutare il Fascismo nella sua opra di rinnovamento e di ricostruzione».
Maria Alaimo «scopre» in tutto ciò un’intima logicità pirandelliana;
come se avesse detto: «Il mio tormento è, sì scompositore, scompaginatore, demolitore delle forme. Perché, del mio tormento interiore il primo a soffrirne sono proprio io, io stesso».
L’essersi assunta la responsabilità di «fare dire» a Pirandello ciò, rappresentava per la Alaimo la consapevolezza di «sentire» quasi all’unisono.
In occasione delle celebrazioni del 25° anniversario della morte di Pirandello, la signorina Alaimo scrisse una serie di quattro articoli che hanno per tema: 1) Umanesimo di Pirandello; 2) Il «suo» problema religioso; 3) Il «suo» problema morale; 4) Il «suo» problema sociale.
Nella premessa, pubblicata nel settimanale diocesano agrigentino «L’Amico del Popolo» riferita ai quattro articoli che avrebbero visto la luce da lì a pochi giorni, ebbe a considerare che «è innegabile che, alla genesi del suo processo interiore, sta una visione tragica dell’esistenza.
Ma ciò che più duole, è che nessuna concezione trascendentale interverrà a proiettare quella sconsolata intuizione di fede. Né il suo pessimismo scompositore e disgregatore, gli darà modo di trovare per altre vie, che non le naturali e terrene, riposo o tregua. Tuttavia, certi persistenti atteggiamenti in tutta l’Opera, sono indice di umanesimo che, per la carica etica che sottende lascia perplessi… Non per niente gran parte della produzione letteraria, il Teatro, nasce all’insegna delle «Maschere nude». Maschere da strappare scappare; travestimenti da far cadere, imposture da smontare».
Il libro curato da Biagio Alessi porta intelligentemente anche un articolo di Maria Aiaimo un articolo pubblicato il 28-11-1962 sul quotidiano palermitano, nel quale si parla delle Tre case di Pirandello. «…Nato in una contrada di campagna, empedoclino per famiglia, agrigentino per, l’anagrafe, abitò fanciullo ed adolescente fra le due città. In Porto Empedocle ebbe due case vicine, distrutte, o, rese irriconoscibili dalle riedificazioni posteriori, nel rione che, dallo sbocco della via Spinola, cala verso la Marina (nel gergo empedoclino per Marina si intende il centro del paese -n.d.r.) lungo il palazzo Cappadona, oltre l’inizio della via Roma. In Girgenti dimorò con la famiglia in una malinconica casa, che sorgeva, in una «viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso» nei pressi” della chiesa di S. Pietro, là dove passa la strada che di Pirandello porta il suo nome.
Studente liceale ed universitario, ebbe alloggio presso la zia Sara e lo zio Rocco Ricci Grammitto, in Palermo, e, probabilmente, in una stanza ammobiliata a Bonn, in Germania». Se quelle furono le case «ufficiali» di Pirandelio, la Alaimo, che conosceva vita e vicissitudini del suo Maestro, nell’articolo ne elenca un numero imprecisato: «Non una, ma dieci, cento, o forse, nessuna… un senza casa, se per casa si intende la stabile e permanente». In effetti soggiornò a Roma, nel Viterbese, a Rocca di Papa, a Milano e in molte città d’Italia, della Francia, dell’Inghilterra, della Germania, della Svezia e delle due Americhe.
«L’asse esistenziale che ha per poli estremi lo stanzone della nascita, al Caos, e l’aula delle celebrazioni Nobel, a Stoccolma, oscilla, nel quadrato di un settantennio, tra Parigi, Praga, New York, chiamatovi dai personaggi del suo Teatro, che lo costringono a seguirli davanti alle platee del mondo».
Comunque per Maria Alaimo «tre case fra tutte stanno nel ricordo e nel cuore di Pirandello: le case della sua fanciullezza empedoclina lontana, immortalate nelle due liriche che portano ambedue il titolo «Ritorno». In una: «Ecco la casa antica» c’è la casa dei tempi ricchi e felici, con l’alto terrazzo che si affaccia sulla Marina brulicante e vociante del traffico delle navi e dello zolfo, cui fu legata la fortuna del padre. E c’è la «casa vicina» dal «balconcino modesto», alla quale si affaccia, pallido fantasma, il Pirandello fanciullo dei tempi della povertà, dopo il crollo finanziario paterno.
Nell’altra lirica è evocata la casa agrigentina del Caos «dell’alto pino solitario esposto da cento e più anni alle urlanti libecciate che spesso flagellano la costa».
Il libro continua con altri articoli, come «Pirandello e la morte», «Il testamento di Pirandello in un foglio di carta da un soldo»; «Oggi di Pirandello si cerca l’aneddoto non la
sofferenza» pubblicato il 30 novembre 1961 e Pirandello, anima» pubblicato ne «L’Amico del Popolo» del 9 marzo 1969.
«L’universalità e Provincialità nella sua narrativa: Pirandello ed Agrigento» è l’ultima conferenza inedita che Maria Alaimo tenne ad Agrigento e che Biagio Alessi ha ritenuto di porre a chiusura della pubblicazione.
Certo si è che al di là delle fonti originali della Alaimo, dalle quali non si può prescindere per lo studio della personalità di Pirandello, Agrigento e il mondo della cultura continuano nella ricerca degli infiniti «perché» dell’agrigentino: una operazione che, probabilmente, non avrà mai fine.
La «signorina Alaimo» è già riuscita a disvelarcene le più «intime» misteriosità e saporosità e, nel nostro caso, ne ha rappresentato la inimitabile intermediatrice. Eppure i nostri ricordi continuano, per altri versi, a «relegarla» ai giorni di scuola, fra i banchi con sù incisi i nomi dei primi amori e cuori trafitti da treccie sottili.
Federico Hoefer, in La Sicilia. quotidiano, mercoledì 18 marzo 1987