
Estratto da Memorie sulla Sicilia di Guglielmo Capozzo, Palermo 1842
SITUAZIONE E RICINTO D’AGRIGENTO.
Il fiume Acraga circondava dal lato occidentale la cittadella e seguiva poi le mura della città dalla stessa parte. Al mezzodì, partiva dal piede delle mura una collina ed inclinavasi verso il mare d’ Africa; a tramontana ed a levante i dirupi sostenevano le mura e sprofondavansi in burroni scavati dalle acque delle montagne. Tutto lo spazio chiuso in questa cinta ergevasi ad anfiteatro verso il settentrione. Ma presso la cittadella trovavasi la rocca ateniese, che ne era disgiunta da una gola profonda e che dominava pure gli altri quartieri. Ogni quartiere aveva la sua cinta, le sue porte, i mezzi propri di difesa. E ve ne erano quattro principali: Camica e la Rocca ateniese; Agrigento sotto Camica , e finalmente la città, il più vasto e più magnifico di tutti.
Fuor delle mura dalla parte del levante era un quinto quartiere o sobborgo, chiamato Neapoli, o finalmente un altro sobborgo ancora estendevasi lunghesso il corso della Acraga fino al mare, dove trovavasi il porto di commercio, ossia l’emporio.
Le mura di grossezza ed altezza considerabili, posavano in più siti sopra la viva roccia e sopra scoscendimenti che ne accrescevano vieppiù l’altezza. Questo vasto recinto era coperto di palagi, di case numerose, di monumenti, di templi , ed eziandio di magnifici sepolcri però che il lusso degli Agrigentini punto non cessasse colla vita. Gli seguiva pure nei campi; i carri ed i corsieri di Agrigento erano rinomati. I suoi più ricchi cittadini ostentavano una prodigalità regia. Gellia, un di loro, alimentava e vestiva al lor passaggio interi squadroni. Grandi piscine, limpidi vivai vaste cloache, magazzini immensi, opera dell’ingegnere Feace, assicuravano la salubrità della città o somministravano il bisognevole a’ suoi abitatori. Credesi di riconoscere gli avanzi di quelle costruzioni gigantesche presso le alture dell’antico ricinto; ma le case, i palazzi, che lo coprivano sono spariti. Alcune masserie sparse, rovine che vestono boschetti di olivi ed arbusti odoriferi, campi coltivati, giardini, parecchi conventi, oratori , scorgonsi qua e colà su quel rialto, che fu un tempo calcolato da 800,000 abitanti compresi quelli dei sobborghi e della circostante contrada. Diodoro non fa salire che a 250,000 il numero degli abitanti della città nel momento in cui fu presa da’ Cartaginesi. Intanto, sotto quell’ombre pacifiche , ad ogni passos’incontrano tombe ; che gli Agrigentini conservavano in mezzo ad essi le ceneri dei padri, ne la mollezza delle loro abitudini spaventavasi di quelle tristi memorie. E da dire che a lato di quelle ceneri rispettate sorgevano pur anche monumenti funebri ai lor cavalli, ai cani loro favoriti; fantastico e bizzarro miscuglio dei sentimenti più religiosi e dei capricci del lusso e delle dovizie.
Le rivoluzioni ed i secoli divorarono la vasta città ed i suoi voluttuosi abitanti; ma le tombe ed i templi stettero nel suo ricinto come testimoni della debolezza umana e della divina grandezza, quelli nascosti sotto le masse imbalsamate d’una vegetazione splendida e rigogliosa, questi dominando i boschetti colla maestà delle loro rovine, colla nobiltà dei portici loro. Tre templi tuttora s’innalzano, dalla parte del mezzodì sul terrapieno e presso le antiche mura che parallele alla spiaggia del mare stendevansi dall’augusto e profondo burrone che costeggiava la città a levante, sino al letto dell’Acraga che dal lato di ponente la limitava.
TEMPIO DI GIUNONE LUCINA IN AGRIGENTO
Quello che ti sembra sospeso all’angolo dell’oriente, sopra masse di rupi e di mura crollate, è degno de’ più bei tempi dell’ architettura greca, e sebbene siano le sue colonne per metà cadute, e ne ingombrino il ricinto, trovasi agevolmente la forma primiera ed il complesso del tempio. Formavisi esso d’ un portico di trentaquattro colonne, sei per ciascuna facciata, ed undici ai lati, ovvero tredici, contando due volte quello degli angoli. Erano di ordine dorico come quelle di quasi tutti i templi eretti in quell’ età , vale a dire, dopo le vittorie dei Greci sopra i Persi, e dei Siciliani sopra i Cartaginesi; i capitelli di grande semplicità; le colonne scanalate e formate di quattro pezzi, posavano immediatamente e senza base sul fondamento elevato a sei gradi. Tale basamento occupava il mezzo di un terrazzo al quale ascendevasi per quattro scalinate. Fu creduto riconoscere in questo bell’edilizio il tempio di Giunone Lucina, ed aggiungevasi che Zeusi lo avesse decorato con quel dipinto famoso che rappresentava Giunone vestita soltanto della sua beltà divina, e quale si offerse dinanzi agli occhi del frigio pastore. Aveano le più belle fanciulle di Agrigento consentito a svelare le loro forme dinanzi all’artista che dovea rintracciare quelle della regina de’ cieli. Nondimeno pare più probabile che il quadro di Zeusi fosse destinato ad ornamento del rinomato tempio di Giunone Lucina , situato presso Crotone , nell’ Italia meridionale.
Secondo alcuni autori fu pure in questo tempio che Gellia, quel ricco agrigentino, si rinchiuse con tutti i suoi tesori nel momento della presa della città fatta dai Cartaginesi e vi si fece divorare dalle fiamme:ma Diodoro Siculo pone positivamente siffatta catastrofe nel tempio di Minerva. situato molto, lontano da quello del quale parliamo. In somma nissuna prova storica conferma il nome di Giunone Lucina a questo edifizio dato e passato di tradizione in tradizione
MURA D’AGRIGENTO
Partendo dal tempio di Giunone, nella direzione del tramonto, seguonsi gli enormi ruderi delle mura che difendeano la città dalla parte del mezzogiorno. Terone le aveva fatte costruire dopo la battaglia d’Imera, adoperandovi le braccia dei prigioni cartaginesi, i cui discendenti le doveano abbattere meno d’un secolo dopo. La forma e la grandezza di quelle mura non furono superate dalla cinta formidabile che Dionigi fece innalzare in appresso tutto intorno a Siracusa. Ma se la ricchezza, la popolazione, l’ operosità e la magnificenza d’Agrigento rialzaronsi ancora dopo il sacco che le diedero i Cartaginesi le mura non furono interamente ricostruite. Sembra anzi che si valessero dei loro avanzi per farne sepoltura. I massi, che sussistono tuttavia, sono forati nei fianchi ed anche nella grossezza da un numero infinito di quelle aperture a bocca di forno chiamate columbarie e destinate a ricevere urne cinerarie giusta l’uso dei Romani.
TEMPIO DELLA CONCORDIA IN AGRIGENTO.
Verso il mezzo di questa linea di massi rovesciati, di fondazioni indistruttibili e di voti sepolcri, sorge ancora intatto in tutte le sue parti il tempio della Concordia, ammirabile per la nobiltà e la semplicità delle sue proporzioni, per l’effetto che produce, pel colore risplendente e dorato dei materiali ond’è costruito. E pur esso di ordine dorico, a colonne scanalate e senza base, posate sopra un fondamento formato di quattro scalini. Il tempio è esastilo e doppio periptero; 52 piedi largo, lungo 122 piedi, con 31 colonne che ne formano il giro ; ai due lati disposte in una fila di 13 e con 6 per ciascuna facciata. Questo portico esterno trovasi separato dal muro di cella per la larghezza di un intercolunnio. Delle 6 colonne della facciata del tempio, due stanno in linea colle file laterali, due altre coi muri dei lati della cella che sono terminati da due pilastri o ante. Finalmente le due colonne di mezzo corrispondono a due altre colonne poste nel pronao io fondo al quale sono il muro e la porta che formano la cella. Tutte le colonne sono leggermente rastremate e coronate da un capitello molto semplice. La pietra, onde sono composte, è d’un colore dorato che le dà lo splendore del marmo. Si riconosce tuttora in alcune parti più riparate lo stucco o smalto onde sono state rivestite e la cui grana porosa doveva aumentare l’aderenza. Lo stile di questo monumento non lascia dubbio intorno all’epoca della sua costruzione; ma ancor se ne ignora la destinazione primitiva ; essendogli il nome della Concordia stato dato senza ragion sufficiente, in conseguenza della scoperta di una iscrizione romana trovata molto lontana di là e che probabilmente non tiene relazione nissuna con questo tempio evidentemente d’origine greca e di greca architettura. Consagrato per tempo al culto cattolico, dovette forse a questa pia destinazione lo stato di conservazione nel quale ancor si trova dopo scorsi tanti secoli, presentemente è abbandonato. L’interno è strettissimo e doveva essere, assai oscuro; infine, per convertirlo in chiesa eransi forate nelle mura laterali della cella tre finestre centinate, che fanno a ciascun lato molte, cattivo effetto. Trovansi ragguagli estesissimi intorno a questo prezioso monumento dell’antichità in Dorville; Saint , Non Hovel , nelle vedute della Sicilia pubblicate da Osterwald, nelle lettere di De-Foresta, nel viaggio in Sicilia di Devayres , nelle memorie del conte di Forbin, ecc.
TEMPIO D ERCOLE IN AGRIGENTO.
A ponente del tempio della Concordia e presso un sentiero che conduceva ad una porta di Agrigento, trovavasi il tempio d’Ercole, del quale non rimane in piedi che una sola colonna intorno alla rinfusa i fregi, le cornici, i capitelli: frantumi che ancor danno l’idea della forza e della grandezza, o dimostra che il greco genio avea dispiegata(2)
tutta la sua vigoria e distribuita l’eleganza e la nobiltà sulle varie parti che lo componevano. La statua del Dio avea voce di un capolavoro della greca scultura; e gli Agrigentini l’attorniavano d’incensi e di omaggi. Il pretore Verre abusando dell’autorità di Roma confidatagli, concepì il disegno d’ impadronirsi di statua sì preziosa ; però non ardiva di toglierla apertamente, ma d’ordine suo, un suo fido, chiamato Timarchide, alla testa di una truppa di schiavi, penetrò nottetempo nel santuario, e volea con corde e con leve svellere il Dio dal suo piedestallo. Se non che i sacerdoti spaventati chiamarono il popolo in ajuto della sua divinità protettrice; laonde impegnossi entro il santuario una zuffa ed i satelliti del pretore furono respinti. Zeusi aveva dipinto per questo tempio un quadro che rappresentava Ercole fanciullo soffocante due serpenti sotto gli occhi di sua madre Alemena. Superbo l’artista dell’ opera sua prescelse di donarla agli Agrigentini piuttosto che affiggervi un prezzo che gli sarebbe sempre parso inferiore al valere del suo capolavoro.
TEMPIO DI GIOVE OLIMPICO IN AGRIGENTO.
Presso il tempio di Ercole e dall’altra parte della via, di cui dicemmo, predomina un vasto sito occupato dalle fondazioni e dalle prime pietre del tempio di Giove Olimpico ed ancora pochi anni or sono coperto dell’ enorme cumulo dei frantumi e dei materiali di quell’edifizio colossale. Nel momento in cui la Grecia innalzava a Giove Olimpico i templi rinomati di Elide e di Atene, vollero le città di Sicilia emularne la magnificenza e la pietà. Fondò Siracusa il superbo monumento, che dominava il porto e la città. Selinunte dedicò al signor della folgore un tempio le cui reliquie pare che ancora oltrepassino colle lor masse l’idea delle forze umane. Ma il tempio di Giove Olimpico d’Agrigento gli offuscò tutti per la grandezza del disegno, per l’ardir della costruzione, per l’alleanza della statuaria colla architettura nelle sue decorazioni non meno nuove che straordinarie.
Il disordine compiuto di quelle rovine gigantesche, fra le quali appena discerni, in mezzo a massi immensi ed informi, alquante metope, alcuni triglifi di un architrave appartenente all’ordine dorico, e parecchi capitelli analoghi d’ una dimensione enorme, non permetteva di riconoscere la disposizione primitiva di questo suntuoso edifizio ed il senso positivo della descrizione che fatta ne aveva Diodoro.
“ I loro templi, dice egli, pe’ fabbricati e per gli ornamenti, e singolarmente quello di Giove, mostrano la magnificenza degli uomini di quella età. Gli altri edifizi sacri sono stati od abbruciati o demoliti interamente nelle frequenti espugnazioni che la città ha sofferte, e la guerra impedì , che si facesse il coperto all’Olimpio, che ormai solo mancava per essere finito: nè da quel tempo in poi, essendo stata diroccata la città, gli Agrigentini poterono mai più compierlo. Codesto tempio è lungo trecento quaranta piedi, largo sessanta, ed alto centoventi, toltene le fondamenta. E certamente è il maggiore di quanti sieno nell’ isola; e per la grandezza del fabbricato degno è di essere paragonato anche a tutti quelli che possono vedersi negli altri paesi, imperciocchè quantunque non sia stato con-dotto a termine in tutte lo sue parti, vedesi apertamente anche oggi qual ne fosse il primo getto. Rispetto a che esso ha questo di singolare, che mentre altrove i templi da taluni si chiudono con muraglie, e da altri si fanno sostenere con colonne, esso partecipa dell’uno e dell’altro genere di costruzione, perciocchè insieme colle muraglie alzansi al di fuori colonne rotonde , e al di dentro quadrate , e il circuito delle colonne al di fuori ha venti piedi, ed esse hanno scanalature sì ampie, che può starvi entro il corpo di un uomo: nell’ interno poi il circuito medesimo ha dodici piedi. Di ampiezza e d’ altezza stupenda sono anche i portici, nella parte orientale dei quali vedesi la battaglia de’ Giganti a basso rilievo, che è lavoro, per la estenzione e l’ eleganza, eccellentissimo; e nella parte occidentale v’ è rappresentata la presa di Troia, ove si vede ognuno degli eroi, che in quell’ impresa trovarcarci, espresso ingegnosissimamente nelle forme sue proprie”
Del resto Diodoro non dà verun ragguaglio sulla disposizione interna dell’edifizio, sulla sua divisione in tre navi, sull’opistodomo, il quale, se si voglia giudicarne dalle fondazioni, occupava quasi interamente quella di mezzo; infine ei non parla affatto delle figure gigantesche che decuravano il santuario e sorregevano gli architravi sopra i quali doveano posare i principali sostegni del tetto. Fazello , che scriveva verso il 1558, e la cui opera latina, De rebus siculis, è ancora una tra le migliori guide cui giovi seguire
in tutto ciò che concerne alle antichità ed alla storia della Sicilia , riferisce che nell’anno 1400 vedeansi, ancora , in mezzo alle ruine del tempio, innalzarsi tre giganti che ne sostenevano la massa, che a quell’epoca un tremuoto gli aveva abbattuti , ma che le rovine conservavano il nome di tempio dei Giganti, e che appunto pur da quelle figure gigantesche erano venuti gli stemmi di Girgenti, che infatti portano sullo scudo tre Atlanti sostenenti una benda con questa leggenda:
Signat Agrigenlum mirabilis aula gigantum.
Si sa d’altro canto che nel medio evo molte città adottarono, per ornare il campo dei loro stemmi, i monumenti che le decoravano, come una porta, una torre, una colonna, un tempio ecc.
Ma il silenzio di Diodoro, ma l’ingombro delle immense macerie del tempio che non permetteva alcuna verificazione, ma l’oscurità del passo di Fazello sull’uffizio di quei tre giganti, avevano fatto considerare da alcuni scrittori siccome apocrifa , da alcuni altri siccome dubbiosa 1′ esistenza dei Giganti nel tempio. I viaggiatori finirono col non farne più menzione. Per altro l’illustre e dotto Denon, nelle note, o a meglio dire, nelle memorie curiosissime che aggiunse alla traduzione francese del viaggio di Swin-Burn, parlò della tradizione relativa ai Giganti, e dichiarossi per la probabilità di quella singolare decorazione di cui del resto Vitruvio citò parecchi esempi. Houel, osservatore esatto e giudizioso, cercò soltanto di misurare e riconoscere il ricinto del tempio: verificò egli l’esistenza delle mezze colonne incastrate e dei pilastri interni corrispondenti , credette che le facciate fossero esastili, cioè a sei colonne, e parla bone! altresì di una specie d’incavo ch’ei notò nel muro laterale, e poteva benissimo, secondo lui, indicare l’ ingresso ovvero uno degli ingressi del tempio, osservazione che non è statapoi confermata.
La costruzione di un molo destinato a chiudere il porto mercantile di Girgenti, impresa verso il mezzo del secolo XVII, fece adoperare indistintamente i materiali tolti senza scelta e senza precauzione nelle rovine del tempio di Giove. Nissuna indagine fu allora fatta per 1’interesse dell’ arte nè per lo studio del monumento. A’ giorni nostri, fu con laudevolissimo e magnanimo divisamento ordinato lo sgombramento del sito del tempio, e operazione tale fè prima luogo a diversi rilievi curiosi ed a scoperte che gran luce diffusero sopra la forma di quel vasto monumento. Levando i frantumi ammonticchiati, trovaronsi non solo frammenti del fregio e triglifi, ma, ciò che dovette colpire di stupore e maraviglia, parti intere di statue colossali di stile e di dimensioni gigantesche. Tutti i quali frammenti, avvicinati, numerali, ordinati sul suolo, ben tosto parecchi colossi, nella posizione di Atlanti, poterono ristabilirsi più o meno compiutamente. Si fu Cokerell , architetto inglese, aiutato da Politi di Girgenti, che primo adunò questi elementi di ristaurazione.
L’esame delle mura di cinta diedero resultati conformi alla descrizione di Diodoro. Nell’interno trovaronsi le prime serie di pietre dei muri che separavano la nave di mezzo da quelle dei fianchi; erano continui e cinti da basi in isporto formanti o pilastri o, com’è probabile , almeno per l’interno, i piedistalli di quei colossi che probabilmente sostentavano un ricco architrave colla sua cornice. Cokerell, ne propose un uso diverso; stabili egli le cornici delle divisioni interne sopra due pilastri semplicissimi, e vi pose sopra due file di giganti destinati a sostenere i pezzi principali del colmo. Ma a quell’ altezza sì belle statue avrebbero perduto tutto il loro effetto, tutto il grandioso e lo sporto della cornice ne avrebbe nascosto tutta la bassa parte. Hittorf, uno dei più abili architetti francesi, ed al quale si devono indagini preziose, studi esatti ed una ristaurazione osservabilissima su quel grande monumento, cercò di esitare il detto inconveniente mettendo sopra i pilastri una semplice fascia senza cornice.
E d’ uopo confessarlo, l’ uffìzio dei giganti invece dei pilastri sembra più semplice, più razionale e di miglior effetto. Non si concepisce punto che quelle figure enormi non avessero a reggere sulle braccia muscolose e sulle teste inclinate se non dei pezzi di legno e dei cavaletti che l’altezza in cui si sarebbero trovati avrebbe fatti comparire ancor più leggeri. Altronde si sa, per testimonianza di Diodoro, che il coperto del tempio non fu impreso, ed infine, riesce poco probabile che tre di quelle figure avesero potuto sussistere isolate a grande altezza allorchè distrutto era il resto del tempio; mentre, situate più basso,appoggiate a pilastri ed a contrafforti potenti, poterono resistere lungamente alle scosse che terminarono collo spezzarle anche esse. Lo stile di quegli Atlanti pare che tenga il mezzo tra quello delle figure egiziano e quello della scuola d’ Egina. Il carattere delle teste è africano. Si sono pure trovati alcuni frantumi d’una statua colossale di donna, e delle scolture che pare abbiano appartenuto ai frontespizi del tempio.
Se l’ uffizio di queste figure gigantesche diè luogo a diverse conghietture, sono parimenti insorte opinioni diverse rispetto alla forma delle due facciate di questo tempio. Si son riconosciute, dal lato meno distrutto, sette mezze colonne in vece di sei, incastrate nel muro, il quale per conseguenza non ha apertura in mezzo. Cokerell ne con-chiuse che si entrasse nel tempio per due porte praticate tra la prima e la seconda colonna, e tra la sesta e la settima, vale a dire, alle due cantonate della facciata principale. Cotale ristaurazione, bisogna confessarlo, è poco soddisfacente , e produce un effetto meschino , come si può convincersene gettando gli occhi sulla tavola pubblicata da Osterwald nelle sue vedute di Sicilia. Hittorf pose l’ingresso del monumento in modo più probabile, più grande e più naturale. Rimarcò egli che essendo altra facciata del tempio distrutta sino alle fondamenta, nulla impediva di credere che da quel lato la porta, disposta in grande dimensione, tenesse il luogo della settima colonna che occupa il mezzo all’altra estremità, e cosi si trovasse in faccia alla nave principale ed all’ ingresso dell’opistodomo.
Noi crediamo egualmente che non nella facciata , ma si bene ai lati del tempio, negl’ intercolunni, convenga porre i vani delle finestre delle quali si son trovate le intelajature ed i listelli. Infatti simili finestre erano necessarie per dar luce alle navi dei Iati , separate dal centro mediante un muro pieno , mentre il mezzo del tempio rischiaravasi dall’alto secondo l’uso quasi generale negli edifizi di tal genere. Presumesi eziandio che l’architettura fosse decorata di stucchi di diversi colori, dei quali si sono trovate alcune tracce.
TEMPIO DI ESCULAPIO IN AGRIGENTO.
Questo tempio, situato sopra una collina fuor del ricinto d’Agrigento , dalla parte del mare, non conservò che alcuni pezzi di muro e due colonne tronche ed incastrate nelle costruzioni d’una masseria. Ma essa fissa in modo chiaro e positivo diversi fatti riportati da Polibio nella narrazione dell’assedio che, durante la prima guerra punica, i Romani posero dinanzi ad Agrigento. Il campo loro principale, dice il detto storico , era assiso in faccia al tempio di Escolapio, ed una divisione campeggiava a sera , tra la, città ed il monte Tauro. L’esercito di Annibale stanziava tra quei due corpi , presso la porta di mare, vicino al tempio di Ercole. (Abbiamo parlato della porta e del tempio qui citati). In tale posizione, il generale cartaginese era padrone del corso dell’Acragas e della comunicazione col mare; un altro esercito cartaginese , trincerato sul monte Tauro stringeva il secondo corpo dei Romani tra questa montagna e la città dalla parte dell’occidente. Il tempio di Esculapio, molto prima di quest’epoca ed al momento del sacco della città per opera dei Cartaginesi, al principio del regnò di Dionigi, era stato da essi saccheggiato e spogliato di una statua di Apollo, capolavoro dello statuario Mirone, che aveva il proprio nome scolpito sulla coscia del Dio. E fu pure Scipione che restituì questa statua agli Agrigentini dopo la presa di Cartagine; e Verre pur fu che lo rapì di nuovo, senza prevedere che l’eloquenza di Cicerone presto punirebbe la profanazione, al pari di tutto le altre onde l’avido pretore aveva atterrita la Sicilia.
SEPOLCRO DI TERONE.
Questo nome dato da une tradizione volgare ad un monumento sepolcrale, situato presso il corso dell’Acragas, fuor delle mura, non è nè dalla storia confermato nè dallo stile del monumento. Ciò che Diodoro riferisce rispetto al ,, sepolcro di Terone non concorda nè con la grandezza nè colla situazione di quello di cui parliamo e che deve essere stato costrutto sotto il romano dominio. Terone, il cui coraggio, i talenti e le virtù aveano sì alto spinto la potenza e lo splendore di Agrigento, ebbe regno lungo e glorioso. Trasideo suo figlio gli succedette, ed i suoi vizi, la ferocia , l’imprudente politica ebbero in breve distrutto l’opera gloriosa del padre suo; la ruppe egli coi Siracusani che ne tagliarono a pezzi l’esercito. Scoppiò contro di lui lo sdegno degli Agrigentini, riparato a Megara, vi fu dannato a morte. Agrigento intanto fece la pace e conservò il diritto di governarsi da se.