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canicattì panorama 1931
canicattì panorama 1931

Canicattì, le origini. Nuovi documenti sulla nascita del paese

2 Marzo 2017 //  by Elio Di Bella

canicattì panorama 1931

Il presente studio si basa su alcune fonti documentali,

non sufficientemente esplorate, riguardanti le origini dell’Universitas Candicattini, conservate negli archivi di Stato di Palermo ed Agrigento e nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre locale, con un particolare riguardo ai movimenti migratori interni della popolazione, dalla fondazione (1467) al periodo aureo del duca Giacomo Bonanno Colonna (1619-1636) .

Le prime poche e scarne notizie, relative al feudo di Cannicattini, sono state riportate da Filadelfio Mugnos, nel suo trattato sulle famiglie nobili e notabili siciliane, sotto la voce Buonanni e Palmeri; questi ultimi, nobili naritani, sono indicati quali primi signori della nostra terra.

Grazie all’opera di ricerca svolta da Patrizia Sardina, della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, abbiamo certezza dell’autenticità di alcune notizie riportate dal Mugnos: la docente infatti ha rinvenuto nell’Archivio di Stato di Palermo alcuni precisi riferimenti documentali relativi alla vicenda politica di uno dei primi signori feudali di Canicattì, Luca Formoso, il quale venne privato del feudo per avere aderito alla ribellione promossa da Guglielmo Raimondo Moncada contro i Martini. La studiosa ha potuto constatare, inoltre, l’esistenza dell’atto di acquisto del feudo di Canicattì venduto da Antonio Palmeri al nipote, l’agrigentino Andrea De Crescenzio nel 1448.

E’ bene precisare che siamo ancora in piena età feudale,

in una fase storica precedente alla costituzione dell’agglomerato urbano di Canicattì.

L’istituzione dei feudi risale all’età normanna allorquando i sovrani dell’epoca concessero ai loro militi, a titolo di ricompensa per i servigi resi, importanti proprietà fondiarie. Tale forma di ricompensa era sconosciuta agli arabi che favorivano la piccola proprietà contadina

Tali beni, a volte davvero ragguardevoli, rimanevano, formalmente, di proprietà della Corona che, in qualsiasi momento, poteva revocare tale beneficio.

Nel corso dei secoli la classe feudale, per le note vicende politiche del regno di Sicilia, ampliò a dismisura il suo potere, a discapito della Istituzione Regia, la quale non ebbe più alcun potere decisionale nei territori baronali. Ciò si protrasse sino al 1812, data dell’abolizione della feudalità, sebbene il latifondo mantenne invariata la sua connotazione fino alla riforma agraria del 1950.

Ritornando al milite Andrea De Crescenzio, possiamo affermare che è suo merito avere assunto l’iniziativa di fondare Canicattì nel luogo ove adesso sorge, come risulta dal primo documento storico, riguardante la Canicattì moderna, conservato nell’Archivio di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, registro n. 65: è la licentia populandi, concessa a Palermo dal Viceré Lupo Ximenes di Urrea, sotto il regno di Giovanni II d’Aragona. La data che reca il documento è «3 febbraio 1467», ma Patrizia Sardina ha potuto accertare che tale data va spostata di un anno a causa della modalità di numerazione dell’anno inclizionale.

Nel caso specifico, l’estensore dell’atto ha assunto <do stile dell’Incarnazione di Cristo», secondo cui l’inizio dell’anno corrispondeva con la solennità dell’Annunciazione, il 25 marzo. Poiché il nostro documento è di febbraio, esso ricade ancora sotto l’anno inclizionale precedente ma di fatto è del 1468.

Il tenore di questo documento fornisce alcuni elementi essenziali riguardanti la nostra terra. Al nobile agrigentino viene concessa la possibilità di popolare ed abitare illud interram sive casale redducendo et ordinando cum muris seu moenibus et cum turribus et mergulis; siamo ancora in epoca tardo medioevale ed è ancora normale parlare di fortificazioni a difesa dell’abitato ed infatti il nostro signorotto può innalzare una cortina con torri merlate in ditto pheudo cum castro terraque seu casale. E’ questo il punto nodale riguardante lo stato dei luoghi: siamo in presenza di un castello in un semplice casale o, più esattamente, di un feudo abitato.

Al nobile Andrea viene concesso merum mixstum imperium remedire, cioè la facoltà di esercitare la giusti-zia sia civile che criminale, e, ancora, popolaris gentibus et hominibus tam regniculis quam exteris ad hoc regnum concurrentibus et venientibus habitatumque et populatum facere, ha cioè la possibilità di popolare detto feudo accogliendo gente proveniente da ogni dove.

Un’operazione di tal genere rispondeva ad un preciso disegno politico:

la fondazione di nuovi pae-si, infatti, conferiva al barone prestigio ma soprattutto comportava l’assegnazione di un seggio nel braccio militare del Parlamento o un voto in aggiunta, se il barone già possedeva questo privilegio. Ovviamente tutto ciò comportava, per tutti i feudatari dell’epoca, un notevole impegno finanziario per tutta una serie di oneri che ricadevano sul titolare della licentia, primo fra tutti la costruzione di un numero di abitazioni non inferiore ad ottanta oltre ad una chiesa, un mulino, un granaio e un frantoio. Per attirare i coloni si prometteva l’esenzione delle imposte per alcuni anni oltre ad alcuni diritti comuni ed ancora l’affitto di terre ad un canone minore per una durata maggiore.

canicatti

Forse a causa della difficoltà di reperire coloni e per l’impegno finanziario richiesto che lo sviluppo del nuovo centro fu molto lento. Cento anni dopo, infatti, nel 1569 molte case erano ancora disabitate: nella prima raccolta di atti comunali presente nell’Archivio Comunale di Canicattì, risalente proprio a quella data, i giurati dell’epoca, in un atto ricognitivo, attestarono l’esistenza di trecentottantatre case abitate e ben settantacinque vuote o diroccate. È plausibile supporre che la popolazione di allora non superasse le 1400 anime.

Sarà merito della famiglia Bonanno, succedutasi maritali nomine ai De Crescenzio, avere incrementato fortemente le opere di edilizia civile con importanti interventi urbanistici.

Risale al 1593 il primo dato ufficiale relativo alla popolazione residente:

alla fine del volume 177 del Tribunale del Real Patrimonio, ove sono raccolti i primi riveli di Canicattì, viene registrata la presenza di 656 fuochi, cioè nuclei familiari, con 1220 maschi e 1237 femmine.

I riveli, ai quali si fa riferimento sono documenti preziosissimi, propri del Regno di Sicilia, che corrispondono ai moderni censimenti, ma con una precisa connotazione di carattere fiscale. Essi sono importanti perché permettono allo studioso di affacciarsi al mondo di allora e conoscerlo nella sua spoglia realtà. Su ogni foglio sono registrate le famiglie: le persone con il loro nome, la loro età, (soltanto per i maschi) e il dettaglio dei beni “stabili” (case, terreni), dei beni mobili (bestiame e derrate), inoltre i crediti e i debiti, i censi e le soggiogazioni. La fine del documento reca, oltre al reddito netto, la firma del rivelante in una grafia spesso stentata ma, nella stragrande maggioranza, reca soltanto un segno di croce con le iniziali S. R. S. N. (signum rivelantis scribere nescit).

Nella maggioranza dei casi, tali documenti rap-presentano una realtà che è lungi dall’essere prospera; raccontano di una vita fatta di stenti e di privazioni, di duro lavoro, stremata da carestie e da epidemie. Gran parte della popolazione infatti viveva in condizioni di estrema miseria in «casuncole terrane», spesso costituite da un unico ambiente, in assoluta promiscuità. Solo pochi residenti abitavano in ambienti più vasti, solitamente a piano terra; rare le case «solerate». Pochissimi possedevano «oro e argento lavorato».

I riveli verranno redatti per tutto il 1600 e poi nel 1714 e nel 1749; in ultimo nel 1811-1816, diversi dai precedenti .

Ma chi sono i rivelanti di quell’epoca? Alcuni cognomi sono ancora presenti; di altri se ne è persa la memoria. Altri si sono trasformati nel soprannome, come è avvenuto per le due famiglie Novella, non legate da vincoli parentali, che pro-venivano rispettivamente da Naro e da Castrogiovanni, divenuti Carusotto, i primi, e Gallo, i secondi. Lo stesso è avvenuto per la famiglia Stringi, in origine Capici. Tra le altre, sono presenti le famiglie Adamo, Aronica, Attardo, Baldacchino, Bennichi, Calco, Corbo, alcuni Di Caro, Di Naro, Gloria, Gambino, ancora Gallo, La Monaca, Lo Brutto (provenienti da Racalmuto; altri Lo Brutto giungeranno successivamente da Castrofilippo, senza avere alcun legame di parentela con i primi), Lo Porto, Lo Vermi, Amorella (divenuto poi La Morella), Lauricella, Martines, Messina, Mantegna, Marino (divenuto poi Roccaro), Pagliarello, Pala-muso, Pitralito, Rinaldo, Rizzo, Russo, Sammarco, Siminatore, Trupia, Vassallo, Vella e molti altri ancora. Sono scomparse, invece, le famiglie dei maggiorenti dell’epoca, come gli Armonia, i Corvaia, i Cutaia, i Neri e i Malandrino provenienti da Noto, i Mossuto, proprietari di masserie, la famiglia Xaxa , la famiglia d’Albergo e la famiglia di Nicolò Lo Longo che dichiarava nel 1593 ben 1.297 onze nette di rendita.

Un notevole incremento demografico viene registrato nella prima metà del Seicento con l’apporto di nuove forze lavoro o di qualche professionista, molto raro in verità.

Sono i volumi del 1616 – ai numeri 179, 180, 181 – a fornirci utili informazioni sui residenti. Costoro, infatti, al momento della dichiarazione, indicavano la loro città di origine. La popolazione esistente proveniva da diversi luoghi della Sicilia e non, come molti ritengono, soltanto dalla vicina Naro, città limitrofa ma demaniale, la quale limitava il fenomeno migrato rio come tutte le altre città regie. Un massiccio flusso migratorio dalle città demaniali avrebbe potuto, infatti, compromettere seriamente il loro sistema economico poiché queste erano già oppresse da un fiscalismo spropositato a causa dei donativi alla Corona.

Rimane comunque elevato il numero delle famiglie provenienti dalla “Fulgentissima” come Avanzato, Bonavia, Bordonaro, Calascibetta, Comparato, Dainotto, Ferraro, Greco, Racalbuto, Rubbè, Safonti, Sciabbarrasi ed alcuni Puma.

Altri Puma provenivano da Racalmuto, insieme ai Curto, Blundo, Livatino, Mulè, Sferrazza, Montana e alcuni Parla.

Un grosso flusso pervenne da Caltanissetta: Brunco, Chiarenza, Giuliana, di Natale, Guarneri, La Torre, Maira, di Prima, Miceli, la Valle per citarne alcuni. Un altro gruppo giunse dall’attuale Enna: Alaimo, Chiaramonte, Carrubba, Leto, Gagliano, Capizzi, Gangi, Pellegrino.

Ma si registrano anche presenze da Agrigento (Greco, Cimino e Burgio) e da Pietraperzia, da dove giunsero i Sena. Da Licata sono originari i Cirami, i Gravina, non più esistenti, e i Provenzano.

Provengono da Mussomeli alcuni Lombardo, Di Lio, Cipollina e Frangiamore.

Un gruppo di famiglie, ancora oggi presenti, giunge da Malta: Caruana, Farruggia, Sacheli, Vella, Zagara.

Nonostante numerosi autori riportino la notizia della presenza a Canicattì di una colonia di taorminesi, in nessun atto notarile, né in alcun rivelo, è stata riscontrata, fino adesso, la provenienza di nuclei familiari dalla città di Taormina. Questa, invero, perse la metà dei suoi abitanti tra il censimento del 1584 e quello del 1651: ciò avvenne in un arco temporale di circa due secoli dopo la fondazione di Canicattì, in un periodo in cui esistono sufficienti elementi documentali tali da ridimensionare alquanto la portata di questa notizia, che appare sempre più semplicemente infondata.

Nonostante i Bonanno provenissero da Siracusa e da Caltagirone, poche famiglie vennero al loro seguito: infatti solo una della famiglie Russo è aretusea e solamente i Buttafuoco e i Di Ventura sono calati-ni. Da Limina, altro feudo dei Bonanno, provenne la famiglia Rumeo alla fine del sec. XVII. Si registrano presenze da Scicli (Di Martino, Stracquadaino), Modica (Cannella, Vaccaro), Comiso (Iudicello), Mazzarino (Giorgi, Gueli), Militello (Rubino), Monterosso (Scollo), Butera (Costantino), Sutera (La Mattina, Di Franco, Antinoro), Gangi (Giunta, Massaro, Scrimali), Partanna (Marrone). Dalla lontana Castania, ora Ca-stell’Umberto, proviene la famiglia Lionti.

La posizione centrale del paese al centro di importanti vie di comunicazione, la fertilità della terra, le numerose attività artigianali, che ben presto vi si svilupparono, favorirono un continuo incremento della popolazione, con flussi mai interrotti.

Un ulteriore contributo alla storia locale può es-sere offerto dai rogiti notarili conservati in Archivio di Stato di Agrigento. Il volume più antico conserva gli atti del notaio Nicolò Monteleone e risale al 1577. Seguono, in ordine di tempo, la raccolta di atti del notaio Giuseppe Menni, dal 1585 al 1589, e quella del notaio Antonino Greco, dal 1588 al 1611. Si tratta purtroppo di raccolte incomplete: molta parte del patrimonio documentario, infatti, costituito dagli atti notarili dell’epoca e in genere del Seicento, presenta parecchi vuoti incolmabili.

Spesso i rogiti notarili riservano agli studiosi interessanti scoperte in grado di aprire nuovi squarci nella ricerca storica. Inoltre questi documenti consentono di completare il quadro degli usi di quel tempo. Tutte le fasi della vita dell’uomo, ed in genere della comunità, erano accompagnate dalla stesura di atti notarili: dalla compravendita di poche unità di misura di frumento, all’acquisto di animali, dalla concessione di un prestito tra privati, alla redazione dei capitoli matrimoniali sino alla dettatura del testamento.

A completare il quadro del patrimonio documentario dei primi anni di vita della comunità canicattinese è il prezioso Archivio Parrocchiale custodito nella Chiesa Madre dedicata a San Pancrazio. Ivi sono conservati i registri ove venivano annotati i sacramenti impartiti (battesimi, cresime, matrimoni) e registrati i decessi. Frammentarie le più antiche annotazioni dei battesimi, perlopiù illeggibili, del giugno 1584, sono appena due fogli estremamente deteriorati: il primo battesimo individuabile è di Francesca, figlia di Prospero Barba, battezzata dall’arciprete di allora Don Mariano Tropia, padrini Giuliano (?) e Suor Antonia (?); il primo volume dei battesimi continua con le registrazioni dal gennaio 1602. Tutti i battesimi di allora vennero celebrati nella maior ecclesia.

I primi matrimoni registrati risalgono all’aprile del 1579, sino al gennaio 1586 per poi riprendere nell’aprile 1587 e giungere all’ottobre 1593.

Il primo atto leggibile recita testualmente «fuoro beneditti da me Don Mariano Tropia Ierolamo Venetiano de la cit-ta di lalicata con Rusinella filia di lo condam Joanni e Margherita Cutaia iusto lo Sacro Concilio Tridentino fatti li soliti tri banni presenti Filippo Mussuto e Pasquali Barba». Tutti i matrimoni furono celebrati nella Chiesa Madre.

I primi decessi registrati risalgono ad aprile del 1582: si tratta di un solo foglio pressoché illeggibile; il primo decesso individuabile, del 24 aprile, è di «Antonio di Factio di la gità [sic] di Siragusa sepulto a San Francesco», come pure un altro foglio riporta i morti del settembre dello stesso anno per poi proseguire sino al dicembre del 1597. Le inumazioni avvenivano nella Matrice, nella chiesa «di lo Carmino», a San Francesco e nella chiesa San Sebastiano.

In questi documenti è conservata l’intera memoria della nostra comunità: è la nostra storia, sono le nostre radici. Inoltre tali documenti consentono un sistematico studio statistico-demografico: sono considerati la primaria fonte per compiere approfondite analisi di tale genere su aggregati umani di dimensioni ridotte. Il presente contributo vuole essere un invito ad uno studio più ampio del periodo storico su cui ci siamo soffermati, poiché sarebbe auspicabile un’inversione di tendenza negli studi storiografici locali che tendono a privilegiare sommamente gli ultimi due secoli.

di Piero Napoli

Categoria: Storia ComuniTag: canicattì

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