Visione splendida quella dell’antica Agrigento tanto da lasciare nell’animo di chi vi arriva sosta riparte, carezzevole come l’onda a limite di spiaggia, il ricordo.
La Valle dei Templi la si può ancor vedere quale nell’aprile del 1787 Wolfgang Goethe la vide: “dalle nostre finestre scorgiamo in lungo e in largo il lieve declivio dove si stendeva la città antica, ora tutto rivestito d’orti e di vigneti, sotto la cui verzura appena si crederebbe che si nascondano le vestigia di quartieri urbani un giorno sì vasti e popolosi. All’estremità meridionale di questa pianura verdeggiante florita si vede spuntare il tempio della Concordia e ad oriente i ruderi del tempio di Giunone…”.
Ti viene voglia di soffermarti a lungo a passeggiare fra il grigio del ruderi antichi, il verde delle erbe selvatiche e l’ispido groviglio bizzarro dei fichidindia, per goderti sul sentiero dei miti l’oro e la cenere dell’ “ apollineo pentagramma dei templi”. Così come assieme a tanti altri lo godette e descrisse Ezio Bacino : “cancellato il cui confine tra il mondo della natura e quello dell’edificazione umana. L’intelletto greco si fa mediatore equanime fra l’uno all’altro regno aspirando dalla terra, dal cielo e dal mare circostanti la sua spontaneità e le felicità espressive per immetterle nella struttura dei templi, e di imprimervi quella liricità armoniosa che li fa simili al mare, al cielo, agli alberi, al sole. Per una collusione d’amorosi sensi pare che tutta la valle adagiata ai piedi dell’ acropoli agrigentina tra la scalea della città e il litorale della marina tragga misura e proporzione proprio fra quelle che intercorrono tra una colonna e l’altra che ne fissano l’altezza e il cerchio e che incidono nell’azzurro smaltato l’alternanza metrica dei triglifi e delle metope sotto la rigorosa geometria dei timpani triangolari…”.
l’incanto della Valle
Comitive di turisti vi si attardano curiosi e se talora sembrano dimenticare la superba struttura dei templi, è per assaporare piuttosto l’incanto della valle, dell’Acropoli, del mare, dacchè lo spirito umano, a contatto con la grandezza dell’arte, si sente maggiormente risospinto alla muta contemplazione anziché all’attenta osservazione.
Mai più strani turisti – turisti abituali – sono i pastori che “con la bisaccia gittata di traverso sulle spalle, armati di verghe e di falcetti, il nero sguardo acceso e misterioso” vagano fra i macigni dorati del labirinto dedaleo, è sembrano ombre uscite di tra il groviglio delle rovine e delle erbe, ombre che non si vedono vivere, e ignari sono della filosofia amara di Pirandello eppure anch’essi appartenenti all’umile e oscura tragedia quotidiana della piccola gente.
E qui si può essere d’accordo con chi disse Agrigento città fatta apposta per generare uno scrittore della tempra e del carattere di Pirandello, abituato a contrapporre una realtà ad un’altra nel gioco serissimo dei contrasti e degli sdoppiamenti umoristici; perché è una città antichissima e nuova solenne in certi aspetti, piccola e angusta in certi altri, lieta e dolorosa, luminosissima nella Valle dei Templi, tetra nelle strette viuzze della città medievale attraversata dalla ripida e tortuosa via Atenea”.
Ma forse anche le città sono un po’ come le donne, che quando ci riescono simpatiche si cerca di indovinare anche l’anima che si nasconde sotto il fuggevole aspetto esteriore.
Forse appunto come quelle donne che con le brocche in mano fanno ressa ad una fontanella e nel cui viso l’ardore siciliano si placa in molli lineamenti greci, ma che sotto nascondono un’anima che non sempre puoi veder rilucere negli occhi schivi, bassi, scontrosi.
Girgenti (o Agrigento?) invaghisce, ma nello stesso tempo lascia tristi. I picconieri, i carusi, gli scavatori di zolfo sono personaggi che non lasciano credere alla gioia.
Ecco pertanto una città che si sdoppia appunto come la personalità umana: una essa è per il turista che percorrendo sentiero dei miti rincorre grandezze e tempi che furono; un’altra per il viandante che contempla quell’ammasso di case dell’Acropoli con l’occhio che solo si appaga d’una novità; un’altra ancora di chi vive la sua giornata mangiata dal tempo, contesa dagli assilli, tormentata dal bisogno. Così come del resto forse ogni altra città, che l’uomo della strada può vedere più svagato e il poeta con l’animo commosso.
Anche Agrigento ha i suoi cantori, fra cui squisito e garbato Giuseppe Longo, il poeta di Callihore il quale in Agrigentum canta: “serpe fra i colli scintillando l’Akragas – sol quella voce resta di te storia degli uomini… Voce sacra delle antiche memorie. Ne luce del sole in vasto ritmo fondesi – con la morte la vita e tutto è un cantico – che empie la terra ai cieli l’acque raggianti e l’anima… – E la vita non è la breve favola, – ma l’immortale respiro dell’universo, giovane! ”.
Agrigento è una città che non si dimentica. Grande resta il desiderio di ritornarvi: così, magari, in un tardo pomeriggio estivo per una passeggiata fra gli antichi templi della vecchia città, e due svagati passi fra le nuove case dell’Agrigento moderna: là con la visione lontana e vaporosa di elleniche bellezze, qua con quella più vicina reale di un gruppo di studentesse libere, gioiose, spensierate come l’età comanda (e le vacanze permettono).
Domenico Ferraro, L’Ellenica Agrigento città che non si dimentica, in Giornale di Sicilia 1 luglio 1956