
“Il quartiere di Santa Maria dei Greci dove avevo sempre abitato, il piano Serroy dove avevo sempre giocato, via Atenea dove avevo sempre passeggiato, la Passeggiata meraviglioso salotto buono della città. Ma anche il resto: il Natale, il Venerdì Santo, la fiera di San Calogero, la festa dell’Immacolata, gli stessi facchini di piazza o gli alassaneddi cotti delle notti invernali, rese malinconiche dal canto notturno di un banditore di quella verdura cotta, venduta da poveri che si adoperavano per attenuare la fame di altri poveri”. Il filo della memoria annoda luoghi e personaggi trasfigurati dalla nostalgia del ricordo di un mondo che non c’è più, quello della vecchia Girgenti. Un mondo che non vive solo nelle ingiallite cartoline d’epoca, ma anche nel cuore di persone come il professore Giuseppe Iannuzzo, nato il 7 aprile del 1920 a Girgenti, come allora si chiamava l’attuale Agrigento e scomparso pochi anni fa. Lo abbiamo intervistato pochi mesi prima che ci lasciasse.
Lei ha trascorso la sua infanzia nel cuore del centro storico. Quale ricordo ne ha ?
“Ho un ricordo fantastico della vita nel centro storico. Oggi è tutto trasformato. Negli
anni Venti – quelli in cui ho passato la mia infanzia – la strada principale era la via Duomo. Lì pulsava la vita. Nella piazzetta di fronte alla chiesa di Santa Maria dei Greci, dove abitavo, vi erano tre negozi di generi alimentari, gestiti da persone dal nome curioso, come la signora Ciricinnotta. Soprannomi che mi incuriosivano. Un’altra veniva chiamata Milla, ma faceva Petronilla”.

Come viveva la gente in quel contesto ?
“C’erano differenze sociali notevoli. Le case erano abituri, costituiti spesso da stalle e stanze. Al piano terra del mio stesso stabile c’era una famiglia di contadini che aveva in casa una stalla, accanto alla stanza di soggiorno. Trovavi in simili case poche sedie. Chi comprava un letto, lo metteva in mostra tanto era fiero dell’acquisto. Moltissimi avevano letti rudimentali, dei cavalletti di ferro su cui poggiavano delle assi di legno. Una della prime innovazioni sarà la rete metallica. Dove c’era una certa agiatezza i materassi erano di lana d’inverno e di crine d’estate. Ma la stragrande maggioranza aveva solo il materasso di paglia. Non vi erano gabinetti, ma “u ittaturi”, una sorta di lavandino in cemento, con i cantari e gli orinali. La gente vestiva di stracci e tanti rimanevano nel proprio quartiere e non andavano molto in giro perché si vergognavano. Per la festa di San Calogero bastava una camicia nuova per credere di avere un nuovo vestito .
Lo Stato era presente ? C’era assistenza per questa povera gente ?
“Il malessere economico era diffusissimo e non c’era alcuna assistenza sociale. Vi era in via Barone la condotta medica e lì c’era un piccolo pronto soccorso gestito solo da un infermiere, don Totò, soprannominato “Cagnolo”. Si andava l’ospedale solo per andare a morire, neanche per partorire.
Lei nasce però in una famiglia abbastanza agiata per quei tempi.
“I miei nonni avevano gestito una locanda, che sorgeva al piano Lena, che era il centro commerciale del centro storico, e c’era la pescheria. Un altro centro commerciale era il piano San Giuseppe antistante il circolo Empedocle. Mio padre aveva studiato in Seminario, si chiamava Francesco, era nato nel 1883. Dopo fatti clamorosi legati all’opposizione di Don Romolo Murri, fondatore di un partito non gradito al Papa, uscì dal seminario. Nel 1905 infatti in seminario vi fu una rivolta, da parte dei seminaristi che seguivano l’idea cattolico-liberale di Romolo Murri. Mio padre apparteneva a quel gruppo di giovani seminaristi, che scese in via Atenea per difendere Romolo Murri che era stato sospeso a divinis. Allora il seminario venne chiuso su ordine di un visitatore apostolico venuto da Roma. Mio padre decise di abbandonare il Seminario e fece il telefonista, allora l’invenzione del telefono era recentissima. Poi imparò il mestiere di orologiaio, grazie all’artigiano Vutera. Aprì allora un negozio e vi faceva l’orologiaio, l’ottico e l’accordatore di pianoforte. Sposò mia madre, Giovannina Di Caro.
Quali furono i suoi studi e le sue esperienza culturali nella Girgenti al tempo del fascismo e della guerra ?
“ Nell’istituto Schifano feci l’asilo e la scuola elementare. Grazie a mio padre ho imparato ad amare la musica e a nove anni suonavo il pianoforte. Avere il pianoforte costituiva una sorta di status symbol. Allora noi ragazzi andavamo a lezione di pianoforte dalla signora Bianchetta, che più tardi divenne preside. Ho fatto le superiori all’Istituto magistrale, che si trovava allora in via Pirandello. Avevo ottimi insegnanti come il padre La Rocca, che insegnava anche al liceo classico. Subito dopo entrai all’università di magistero a Messina, ma andavo soprattutto per gli esami e per seguire qualche corso”.
Poi scoppia la guerra…
“ Nel luglio 1942 mi laureo e il 15 agosto vengo mandato per il servizio militare a Trieste. Poi fui ufficiale ad Asti sino all’otto settembre del 1943. Non tornai subito ad Agrigento, mi trasferii a Padova e ricordo che lì vi furono dei terribili bombardamenti. Nella mia famiglia abbiamo dato un grosso un grande contributo durante la seconda guerra mondiale. Mio fratello maggiore fu militare di leva e fu prigioniero in Germania, si chiamava Alfonso. Un altro mio fratello si trovava a Lubiana, si chiamava Franco”.
Quando è rientrato ad Agrigento quali altre esperienze nell’immediato dopoguerra hanno caratterizzano la sua giovinezza ?

“ Arrivo ad Agrigento nel 1945 e ricordo di aver visto il Liceo Classico in macerie perché era stato bombardato dagli Americani. Durante quel bombardamento del 12 luglio del 1943, era morto Tito Contrino, vice preside del liceo Classico. A me caro perché era il padre di mia moglie Liliana. Il professore Contrino quando sentì arrivare gli aerei e la sirena per l’allarme, andò con il preside Beniamino Sciascia a scuola per salvare i registri. Ma ci fu il bombardamento e i due professori morirono sotto le macerie.
Io intanto comincio la mia attività di insegnante all’istituto magistrale Politi. Lì conobbi anche colleghi che avevano subito “l’epurazione”, come Margherita Cottalorda, che era stata mia insegnante, prima, e poi mia collega e infine preside. Ricordo poi i colleghi e presidi Giuseppe Guastella e Salvatore Di Vincenzo”.
Ritrova anche i vecchi amici …
“Tutti quelli che torniamo dalla guerra, portiamo nelle nostre famiglie e in città una certa turbativa. Trovai Agrigento molto trasformata. Si parlava di intrallazzi. I giovani avevano tanta voglia di divertirsi ed i reduci, precocemente invecchiati dalla guerra, avevano però tanta voglia di recuperare. E si organizzarono molte feste e tutti riuscivano per l’entusiasmo dei partecipanti. E se ne fecero all’Hotel des Temples, alla Prefettura, al circolo Empedocleo, al salone di Santo Spirito e poi d’estate al tennis Club e più tardi alla Focetta. Amavo andare a mare, ma non c’erano autobus. Solo una corsa per San Leone, il lido di Agrigento. Un mio amico, Angelo Amore, lasciò l’incarico che aveva al Banco di Sicilia e comprò un camioncino per organizzare delle corse per chi voleva andare a San Leone. Ebbe profitti maggiori di quelli che percepiva facendo il cassiere”.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Agrigento è al centro di grandi trasformazioni. Si costruisce tanto. Ma si distrugge pure, come l’abbattimento della Villa Garibaldi. Cosa ricorda di questi due decenni ?
“Nel 1953 mi sposo con Liliana Contrino.
. Dinanzi alla distruzione della Villa Garibaldi l’unico che reagì fu l’avvocato Francesco Macaluso, che dirigeva un periodico molto battagliero. Ma dinanzi alla volontà della gente di avere palazzi nuovi e ben fatti non resisteva nulla. La città si è trasformata, ammodernata e ha consentito a tanta gente della provincia che si è trasferita nel capoluogo di vivere meglio. Tanti aspiravano a venire ad Agrigento. Tutta gente che ha portato molta vitalità, specialmente nel commercio, perché gli agrigentini aspiravano soprattutto all’impiego negli uffici. Tanta gente che arrivava dai paesi metteva invece su negozi e facevano gli imprenditori”.
Questa furia costruttiva fu però anche la causa della frana del luglio del 1966…
“Del periodo della frana ricordo in particolare che era stata allestita una tendopoli sulla strada verso San Leone che ebbe la visita del Presidente della Repubblica Saragat del il capo del governo Aldo Moro. Mi colpì il fatto che non avevano scorta.”.
L’anno dopo la frana, il professore Giuseppe Iannuzzo si è trasferito a Roma, dove tuttora vive. Ha cinque figli: Gianfranco, attore molto affermato; Patrizia, insegnante di Lettere a Roma; Gabriella, architetto per interni (tornata stabilmente ad Agrigento); Elio, perito agrario, che fa l’accordatore e il restauratore di pianoforte; Cinzia, laureata in lettere e discipline dello spettacolo, ed ha lavorato alla Regione Lazio. Nella capitale Giuseppe Iannuzzo dirige un periodico “Agrigentini a Roma”. E’ il suo atto di amore per una città lontana dagli occhi ma non dal cuore.
di Elio Di Bella