1. Premessa. L’antropologa americana Margaret Mead ha osservato che l’immagine non è importante in quanto tale, ma è piuttosto importante il suo studio, poiché la fotografia non è uno strumento per registrare la «verità di quanto sta fuori», bensì la «verità di quanto sta dentro»: nella mente del fotografo o dell’antropologo1 . La fotografia, come gli altri strumenti di rappresentazione del reale, non è la trasposizione iconografica della realtà tout court, quanto la perimetrazione di quella porzione di spazio che il fotografo percepisce e, attraverso il mezzo tecnico, esperisce. La realizzazione di immagini fotografiche comporta difatti una serie di trasformazioni: vere e proprie operazioni di traduzione, attraverso le quali frammenti di realtà vengono fissati sulla pellicola. L’immagine fotografica non è mai semplicemente denotativa, ma rinvia sempre al processo cognitivo e progettuale che ne ha predeterminato la formazione, attribuendogli così senso e significato. D’altro canto, tutti i prodotti culturali rispecchiano il «pensiero» che ha saputo fondarli, e per intenderli è necessario ricostruire le procedure mentali che ne hanno definito la costituzione2 . Se la fotografia è riproduzione del reale attraverso specifici punti di vista, essa rinvia anche ai modelli di rappresentazione di chi guarda: alla sua personalità ed esperienza individuale, orientata e condizionata dalle convenzioni culturali stabilite presso il gruppo sociale a cui appartiene. Se si considera che la realtà non ha mai un significato univoco e obbligatorio, la rappresentazione iconica risulta ancora più ambigua e corre il rischio di divenire alienante quando viene assunta in sostituzione della realtà stessa. Il segno iconico deve essere pertanto interpretato sia per ciò che rappresenta l’immagine (livello denotativo)
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