Agrigento non è solo la Valle dei Templi.
La città conserva testimonianze di una storia intensa che dai Geloi arriva fino ai Chiaramonte, attraverso il passaggio di greci, bizantini, musulmani, scoprendo tesori d’arte ancora pressoché sconosciuti.
La storia della città non manca certamente di bibliografia, ma gli studi di varia epoca e di vano valore, che riguardano prevalentemente il VI e il V secolo a.C., nascono dalle ricerche archeologiche, che accentrano il loro interesse esclusivamente sulla cosiddetta Valle che dai Templi si denomina, cioè su quella parte del territorio che è l’àstu della pòlis rodio-cretese, trascurando, con pochissime eccezioni, l’Acropoli che della città classica fu parte vitale e, oggi, costituisce il corpo della città che da quella si generò.
Il risultato è che lo splendore dell’apoikìa rodio-cretese elide la città in cui vissero e operarono gli agrigentini dell’età di mezzo e vivono e operano gli agrigentini odierni: Agrigento o è la Valle dei Templi o non è, proposizione palesemente falsa perché l’Acropoli, la Città del Colle registra una perenne presenza antropica in un impianto urbano iconograficamente immutato dai trogloditi fino a noi a causa delle caratteristiche orografiche del Colle; questa “fissità” topografica è il segno dell’identità tra la pòlìs ellenica e la città medioevale e tra questa e la città moderna; ne consegue che il discorso su Agrigento nel Medioevo non può che aver inizio dall’Acropoli della pòlis ellenica in cui, nel trascorrere dei millenni, la vita non è mai cessata: così analizziamo l’impianto urbano dell’Acropoli e la vita che si sviluppa in esso e nella Valle, una vita sovrabbondante le cui motivazioni, i cui sviluppi e la cui fine sono, fin dalle origini, collegate alle sorti dell’ecumene mediterranea in maniera cosi stretta da rendere impossibile la tessitura della storia agrigentina come la storia locale, anzi come cronaca municipale, se non per negarne l’identità storica e la grandezza umana da essa precedente; quando questa grandezza verrà conculcata e si dissolverà nella memoria storica, sarà l’Acropoli che offrirà ricetto a una comunità mutevole nel tempo, come a verificare il celebre apoftegma del Sofo: pànta reî os potamòs; e sarà ancora l’Acropoli creare l’identità di questa comunità che potrà, per sempre, dirsi agrigentina.
impianto urbanisticoIl nuovo che emergerà, mentre l’impero di Roma si dissolve sulle rive del Tevere e tanta parte dell’umanità uscirà, per usare una pregnante espressione del Barbagallo, dal sanguinoso ergastolo, il verbo del Cristo si impianterà ancora sull’Acropoli dove, nel delubro di Atena, sorgerà la prima cattedrale dedicata a Santa Maria. Queste vicende si svolgono mentre in Agrigento torna a risuonare la primigenia lingua dell’Ellade che diviene anche lingua del culto cristiano e delle cancellerie episcopali.
La figura di Gregorio (591-630) di Agrigento va liberata dagli schemi consueti all’agiografia e immersa nella vita tumultuosa del suo tempo, in cui il Cristianesimo, già religione di Stato, occupa le e civiche divenendo elemento di conservazione mentre il malessere sociale, veicolato dalla precaria situazione economica delle masse, turba l’ordine pubblico; allora, le comunità cristiane si spaccano, le fazioni imperversano e recitano un copione obbligato: gli ottimati, gli abbienti sono sempre ortodossi, i ceti subalterni tentano di scuotere il giogo portando avanti il discorso eterodosso; Gregorio, studioso e taumaturgo, una volta divenuto vescovo, assume il ruolo di uomo delle istituzioni e delle classi egemoni che le istituzioni monopolizzano; il suo antagonista Leucio quello di intruso e, per forza di cose, di eretico.
Così, il vescovo e l’intruso sono soprattutto i capi di due fazioni che lottano senza esclusione di colpi: la lotta, con il prevalere della conservazione, avrà esiti clamorosi sull’immagine della città e sull’ubicazione di un edificio dell’importanza della chiesa cattedrale, che verrà spostata e ubicata fra le rovine della Valle dei Templi, fuori della città, creando una situazione certamente emblematica.
La conquista musulmana (827), nel suo lento dispiegarsi, agisce in profondità, travolgendo quello che resta delle strutture di governo bizantine, e corrode quel che resta dell’organizzazione ecclesiastica, che pare non sia molto: per quel che se ne sa, la serie episcopale agrigentina si è interrotta da tempo per motivi che sfuggono ma che è facile intuire; comunque, nel generale rimescolamento delle carte, la residua (e ormai scarsa) popolazione cristiana non pare che viva in condizioni peggiori di quelle che esistevano sotto l’impero, anzi la pressione fiscale diventa accettabile e, per quanto riguarda la deminutio capitis, c’è sempre, sol che lo si voglia, la possibilità della conversione all’islam e, quindi, la possibilità del conseguimento della parità, nei diritti e nei doveri, con i conquistatori.
Questi problemi non hanno, comunque, grande incidenza in Agrigento, dove la presenza islamica è preponderante e i cristiani sono esigua minoranza, come minoranza sono gli ebrei che, tuttavia, dispiegano un grande dinamismo che li porta a mediare fra Cristianesimo e Islam.
In ogni modo, Agrigento musulmana e un grumo di energia, una città prospera che si ritaglia un ruolo notevole nella tormentata vicenda dei Siciliani di fede musulmana (tali si dissero, tali si sentirono e non li si può chiamare diversamente). La vicenda dell’islam in Sicilia va seguita uscendo da schemi vieti che inclinano al folklore e instaurando un fecondo dialogo con gli scrittori più seri di cose agrigentine.
Nell’età degli Altavilla ad Agrigento la scena della Città del colle è dominata da Gerlando di Besancon (1088-1100), l’uomo di ferro il cui nome – come viene suggerito dalla Legenda Aurea – è già un programma che il Pontificato romano porta avanti per mezzo dei dinasti normanni: la latinizzazione dell’Isola e, prima ancora, la rifondazione del popolo di Dio, dato che la diocesi, parte del nuovo Stato cristiano, è pur sempre terra dell’Islam e, di conseguenza, egli è un vescovo in partibus infidelium; come per lunghi anni tali saranno i suoi successori, uomini del Re prima che uomini di Dio, e tuttavia capaci di generare la nuova cristianità agrigentina, quel pussillus grex che costituirà la popolazione della città e della diocesi quando, nel 1246, Federico 11 (1215-1250) re e imperatore sradicherà definitivamente con violenza e trascinerà a Lucera, i Mussulmani di Sicilia; ma capaci anche di apportare un notevole contributo alla formazione della piccola e media proprietà terriera per mezzo della concessione in enfiteusi della locazione pura e semplice delle terre della Chiesa.
Nel periodo che precede l’avvento dei Martini (1392-14 10), i due poteri forti del territorio sono quello dei Chiaramonte e l’altro dei vescovi: avventuroso e appariscente il primo, sommesso, ma fortemente radicato, il secondo e destinato a permanere nei secoli, mentre acquista contorni più netti l’ordinamento delle Universitates civium che affiancherà il potere episcopale nella gestione della comunità.
Invero, con la tragica sorte di Andrea Chiaramonte, la cui sentenza di condanna a morte viene eseguita il 1 giugno del 1392 a piazza Marina dinanzi il Palazzo dello Steri finisce la dinastia chiaramontana. Da allora, sarà chiaro a tutti che la titolarità del potere locale è dei magistrati civici, ma sarà un potere flebile e condizionato che impiegherà secoli a diventare adulto e, frattanto, il civile progresso di Agrigento resterà affidato ai vescovi.
Da questo pur sommario profilo, con il quale si è voluto appena accennare alla ricchezza e alla complessità di una storia lunga quasi mille anni (per una trattazione esaustiva rimando al mio recente volume “Agrigento- DaII’apoikìa rodio‑creteste alla saga dei Chiaramonte” ed. Penino 1999), è facile comprendere come la Città del Colle abbia rappresentato il fulcro della vita agrigentina nei secoli, e costituisca oggi un area ricca di testimonianze archeologiche e di emergenze architettoniche che, se non sono di clamorosa evidenza come quella della Valle dei Templi, rivestono tuttavia un importanza fondamentale quanto quelle, sia come dato artistico sia come dato storico.
Tali emergenze architettoniche, non di rado turbate da improvvide superfetazioni posteriori, e troppo spesso trascurate dall’indifferenza della classe politica, esigono di essere recuperate nel loro originario valore artistico e storico; è questo, il punto di partenza ineludibile per un corretto recupero della storia sociale e artistica di Agrigento, ed un dovere morale per ogni agrigentino che voglia preservare l’identità culturale e civile della propria città
di Vincenzo Librici Alfio