In Sicilia, dopo l’insurrezione del 1848, non era spento il proposito della liberazione dai Borboni e per’ mezzo degli emissari di Mazzini, all’idea di un separatismo, che aveva dato la sua impronta ai moti del ’48, si era sostituita l’idea dell’unità nazionale italiana.
Vari tentativi insurrezionali si ebbero negli anni dal ’48 al ’60 per opera della propaganda mazziniana di cui i più ferventi apostoli erano i due esuli siciliani Francesco Crispi e Rosolino Pilo e il modenese Nicola Fabrizi, il quale aveva posto la sua sede di azione a Malta.
Negli anni più vicini al ’60 la notizia che a la Società nazionale capeggiata, dal La Farina (anche lui esule siciliano) appoggiava la politica di Cavour, fece sì che tutte le menti siciliane fossero già preparate alla idea della fusione con l’Italia.
’’L’idea dell’unità della patria era al di sopra di ogni concezione di partito; ‘repubblicani o monarchici avevano ormai in essa una base comune. .
Nel febbraio 1860 il Benza, piemontese, portava a Palermo messaggi segreti del La Farina, incitando i siciliani ad insorgere e promettendo che il Piemonte, sebbene non potesse (dato l’atteggiamento delle potenze europee) dare loro appoggio che a rivoluzione compiuta, avrebbe protetta la Sicilia liberata contro il pericolo di essere riconquistata.
Mazzini, dal canto suo, scriveva ai siciliani: “Non si tratta più di repubblica o di monarchia, si tratta di unità nazionale, d’essere o non essere”.
Cosi, incitati contemporaneamente dai cavouriani e dai mazziniani, i siciliani cominciarono a sollevarsi.
La prima scintilla fu data da Francesco Riso, con il moto di Palermo del 4 aprile 1860. Il moto fu immediatamente, represso nel sangue ma le squadre dei ribelli delle zone interne dell’isola che dovevano unirsi ai rivoltosi di Palermo, seguitarono ad errare per le montagne, rifugiandosi a notte nei vari paesi e sostenendo scaramucce con le colonne borboniche staccate che si mandavano da Palermo sulle loro piste.
Quelle squadre, formate per lo più da giovani contadini della parte occidentale dell’isola che seguivano i loro signori, attendevano l’arrivo di Garibaldi preannunziato da Rosolino Pilo che, assieme a Giovanni Corrao, il 10 aprile era sbarcato in Sicilia per tener viva 1’ insurrezione.
Il 20 aprile, dopo la grande adunata tenuta a Genova, nella villa Spinola, Francesco Crispi comunicava ai suoi amici in Sicilia : «verso il venticinque del mese io con altri sotto Garibaldi, avendo armi a sufficienza, verremo costì; fa che ci aspettino fra Sciacca e Girgenti ».
La partenza avvenne invece il 5 maggio e 1’11 di quel mese i Mille sbarcavano in Sicilia.
Il primo progetto di sbarco comunicato da Crispi e la direzione (come dice Garibaldi nelle sue «Memorie» e nelle sua opera «I Mille») erano per Sciacca ma poiché le navi borboniche da guerra che sorvegliavano la costa fra Trapani e Sciacca, trovandosi presso Capo S. Marco, avevano avvistato le due navi di Garibaldi e ritornavano a tutto vapore per raggiungerle, fu deciso di sbarcare nel più vicino porto di Marsala.
In Sciacca l’ardore della liberazione dall’odiato governo borbonico era sempre ben vivo. I patrioti e specialmente la gioventù studiosa, cospiravano malgrado l’occhiuta sorveglianza del sottintendente Buonafede il quale aveva fra l’altro vietato che si potesse andare in più di quattro persone e proibito l’uso dei cappelli flosci di feltro che portavano i liberali a cui dispregio aveva fatto crescere le barbe lunghe ai beccamorti.
Erano noti i preparativi dei moti del 4 aprile ed alcuni giovani fra cui Alfonso Friscia, Melchiorre Vetrano e Francesco Lombardo erano pronti a partire per Palermo quando arrivò la notizia dell’infelice esito di quella insurrezione. Pochi giorni prima era stato a Sciacca segretamente il cospiratore Costantini ed erano state spedite a Corleone molte capsule di fucile e polvere da sparo (che allora si fabbricava in Sciacca) per essere distribuite alle bande degli insorti strette intorno a Rosolino Pilo
L’11 maggio si intese il lontano rombo del cannone e due giovani di Sciacca Ignazio Bongiovì e Alfonso Friscia, per impedire le comunicazioni con Agrigento, tagliarono i fili del telegrafo nella contrada del Suvarìtu. Il 13 giunse la notizia dello sbarco dei Mille a Marsala; l’entusiasmo fu immenso. Un Padre del convento di S. Francesco di Paola (il P. Francesco Rubino da Castelvetrano), scriveva così, in quel giorno, al suo concittadino Bartolomeo Amari-Cusa: « …Qui c’è una squadra pronta di 400 persone e aspettano una dettagliata notizia per sapere onde marciare; qui c’è un fremito, un brulichio immenso, la popolazione non può frenarsi e aspetta il momento desiderato per andare a vendicare i santi diritti ».
La notte seguente Luigi Azara, Giuseppe Campione, Alfonso Friscia, Francesco Lombardo e Bartolomeo Tommasi innalzarono sulla aquila di pietra della facciata del vecchio municipio (l’attuale Pretura) una grande bandiera tricolore preparata dai fratelli sarti Michele e Vincenzo Sarzana, i quali, per incarico dei fratelli Friscia e del pittore Vincenzo De Stefani-Falco, avevano inoltre segretamente preparato migliaia di coccarde tricolori.
Avutane notizia, il sottintendente Buonafede, chiamata la polizia (allora comandata dal montevaghese Vincenzo Mendolìa) fece atterrare la bandiera; poi lo stesso Mendolìa fece radunare i proprietari della città nell’atrio superiore del Collegio dove li esortò a stare tranquilli. Ma verso mezzogiorno un fratello del Mendolìa, venendo a Sciacca da Marsala, narrò in ogni particolare lo sbarco dei Mille, portò alcune copie dei proclami di Garibaldi ed esortò il fratello a non compromettersi.
Il comandante mise in opera il consiglio ed avvisò subito l’avv. Calogero Amato-Vetrano, suo vicino di casa, al quale consegnò i proclami promettendogli di lavarsene le mani.
La notizia si sparse in un baleno per tutta la città; un’immensa folla si raccolse nell’atrio del Collegio e ne uscì in corteo con la banda musicale in testa, inneggiando all’Italia. La bandiera atterrata poche ore prima fu rialzata e numerose altre bandiere tricolori vennero esposte alle finestre. E nella generale esultanza i rappresentanti e gli impiegati del governo borbonico non ebbero fatto alcun male; erano solo fatti segno a dileggio e costretti a nascondersi al grido di: « Un surci c’è ! ».
Vennero bruciati i ritratti della famiglia borbonica regnante ed i registri del magistrato giudiziale. A sera, il Comitato rivoluzionario, presieduto dall’avv. Calogero Amato-Vetrano, dispose che alcune squadre di giovani volontari armati tutelassero l’ordine pubblico in città.
La mattina seguente la nave da guerra borbonica Ercole, proveniente da Marsala, vide sventolare sul campanile di S. Michele la bandiera tricolore, si fermò e, per atterrarla, sparò alcuni colpi di cannone che non andarono a segno per il tiro troppo lungo che fece cadere i proiettili nella vallata di Perdirici, oltre le mura di Porta San Calogero.
Non ci fu alcun danno a cose né a persone, ma lo spavento fu grande: il popolo in gran parte abbandonò le case, spargendosi nelle campagne. Alcuni giovani, visti staccarsi dalla nave due canotti, corsero alla marina. Un ufficiale sbarcato con alcuni marinai, disse che il comandante, Carlo Flores, voleva a bordo le autorità rappresentanti il governo borbonico. Si recarono così a bordo l’ex sindaco Mariano D’Agostino e l’arciprete Michele Sortino, ai quali il comandante comunicò che se entro un’ora non fosse stata tolta la bandiera, avrebbe bombardato la città.
L’ordine, per evitare danni alla città, fu eseguito e dall’avvenimento il 1860 fu chiamato dal popolino « l’annu di li cannunati ».
In quei giorni di trambusto, ave-vano acquistato autorità alcuni facinorosi, fra cui più noto tale Salvatore Sutéra, detto Pedimanzu. Costoro volevano a tutti i costi uccidere il sottintendente Buonafede e Alfonso Friscia dovette faticare non poco a distoglierli dal tristo proposito; non riuscì però ad impedire che la plebaglia, aizzata da Pedimanzu assaltasse le carceri (che si trovavano nella spianata dell’attuale mercato) e liberasse i detenuti, mettendo al loro posto alcune guardie di polizia, alle quali fu detto: «Voi prima mettevate in carcere noi, e noi qua mettiamo in carcere voi ».
Dopo questa bravata Pedimanzu richiese ed ottenne dalla plebe il titolo di governatore e si fece temere ed ubbidire, ma dopo tre giorni il Comitato rivoluzionario, minacciandolo nella vita, lo costrinse a ritirarsi e a cedere le chiavi del carcere dove i poliziotti prigionieri sarebbero morti di fame, se mani pietose non avessero lanciato del pane attraverso le grate. Dopo circa un mese Pedimanzu e i suoi due figli furono arrestati e di loro nulla più si seppe. Rimase in Sciacca il detto: «Guvirnasti tri ghiorna, comu Pedimanzu ! ».
Intanto si formavano in città squa-dre di volontari per ingrossare le file garibaldine. Una squadra di 45 giovani, guidata da Alfonso Friscia, Melchiorre Vetrano, Francesco Lombardo, Nicolò Friscia e Gaetano Vesco da Corleone, partite da Sciacca il 16 maggio si unì due giorni dopo a Vita con le squadre di Mazara e di Campobello di Mazara, il 20 rag-giunse il campo garibaldino ,al piano di Renda e poi partecipò alla presa di Palermo.
Un’altra squadra partì il 20 e da Garibaldi fu assegnata al seguito del colonnello Orsini nella sua marcia strategica che servì a distogliere grosse colonne borboniche facendo loro credere che i garibaldini si ritirassero per la via di Corleone puntando su Sciacca. Di questa squadra faceva parte Gaspare Vetrano il quale, molto pratico dei luoghi, fu utilissima guida.
Molti altri giovani saccensi da soli o a piccoli gruppi, raggiunsero Garibaldi a Palermo e poi a Milazzo e a Messina.
Il 22 maggio Garibaldi, stando al Parco, nominò governatore del distretto di Sciacca Giovan Lorenzo D’Agostino. Si costituì così una regolare amministrazione composta dai più notabili cittadini e venne emessa una deliberazione con cui si consentiva alla dittatura in Sicilia del prode generale Giuseppe Garibaldi in nome del re d’Italia Vittorio Emanuele. I corpi volontari per la difesa della città furono sciolti e al loro posto venne istituita la Guardia nazionale della quale fu comandante, col grado di maggiore, 1’ avv. Calogero Amato- Vetrano che poi lasciò il suo nome al nostro fiorente Istituto agrario da lui munificamente fondato.
Si raccolsero fondi per la guerra ed il contributo raccolto fu cospicuo sia da parte di privati che da parte di istituti. I monasteri contribuirono anch’essi in maniera notevole: il monastero grande dette 40 onze, quelli di Valverde e del Giglio 20 onze ciascuno; quelli di S. Caterina e del Carmine 10 onze ciascuno.
Le varie fasi della guerra furono seguite con grande interesse e la entrata di Garibaldi a Napoli, il 7 settembre, suscitò vivissime manifestazioni di giubilo.
Il plebiscito per l’annessione al regno di Vittorio Emanuele ebbe luogo il 21 e il 22 ottobre. A Sciacca (che allora contava 13.962 abitanti), votarono 3257 cittadini, dei quali 2351 per il sì e 6 per il no.
Il 26 ottobre il consiglio civico deliberò la cittadinanza onoraria al Prodittatore Mordini, dichiarandolo benemerito della Patria.
Pochi giorni dopo arrivarono i soldati italiani: fanteria, bersaglieri, carabinieri. Questi alloggiarono nel Collegio, gli altri nel convento di S. Domenico.
La nostra città e l’isola nostra univano i loro destini a quelli dell’Italia, madre comune; si traduceva così in luminosa realtà il sogno dei martiri caduti per la libertà e le speranze di chi per essa aveva sofferto carcere ed esilio.
Son passati cento anni e l’impresa dei Mille, pur tanto a noi vicina nel tempo, già si colora ci leggenda.
Per i giovani delle nuove generazioni essa non è che un episodio della meravigliosa storia del nostro Risorgimento nazionale, ma per noi che l’udimmo dalla viva voce dei nostri vecchi che vi parteciparono, è qualche cosa di più grande,; di più; bello e di più puro, perché nessun libro di storia potrà darci la commozione che ci pervadeva quando, ancor giovanetti, sentivamo tre-mare nel racconto la voce dei nostri nonni e vedevamo scintillare e inumidirsi i loro occhi che avevano visto Garibaldi: 1’ Eroe dei due mondi !
Alberto Scaturro, Sciacca nel 1860, in Kronion, n.1-2 (gennaio-aprile 1960) anno XII