
Desto di buon mattino dall’incomodo letto volli per curiosità visitare la via in costruzione Campobello — Ravanusa. Son pochi Chilometri di strada nei quali si vollero accumulare più spropositi che terra, e il cui andamento anche ad un profano pare suscettibile di radicali miglioramenti, una volta che si abbia di mira più l’interesse generale che l’individuale di qualche proprietario grosso o piccino. In ogni modo però bene o male, con maggiore o minor spesa, la strada c’è e m’inchino riverente davanti a questo fattore principale di ben essere e di progresso, sicché in faccia a quelle opere già eseguite si può perdonare molto, anche se hanno molto peccato…?!!
Volli pure sbizzarrirmi fino ad entrare in una di quelle zolfare condotte da una società non del paese. Non l’avessi mai fatto. Qui, come nelle altre, le tremende parole del prigioniero di Ham scritte allorquando a traverso le grate di un carcere aveva bisogno di prepararsi la strada della libertà e dell’impero, ricevono la più tremenda sanzione —
“L’ industria questa sorgente di ricchezza, non ha nè. regola, nè organizzazione, nè scopo. E una macchina che funziona senza regolatore; e senza alcun riguardo alla forza motrice. Avviluppando ugualmente nelle sue ruote uomini e materia, deserta le campagne, agglomera in caverne senz’aria una popolazione numerosa, indebolisce gli spiriti come i corpi, e getta in seguito sul intrico, quando gli son divenuti inutili gli uomini che hanno sacrificato per arricchirla le loro forze, la loro gioventù, la loro esistenza. Vero Saturno del lavoro, l’industria divora i suoi figli e vive della loro morte » (Auvres de Napoleon III liv. II pag. 112).
Questa verità sanguinosa dovrebbe pesare sulla costanza dei nostri re dello zolfo che sacrificano intere generazioni al demone insaziato ed insaziabile dell’ignoranza boriosa o caparbia. Entrare in quelle mute dove il picconiere sferza e deturpa lo schiavo fanciullo — contemplare gli sforzi, le agonie, i contorcimenti di questi piccoli demoni col lume sulla testa ti appaiono strisciando sulla terra come serpi di cui è impossibile classificarne la specie.
Udire le strida, gli aneliti, i gemiti interrotti e il sibilo dell’aria che mal si fa strada negli aggravati polmoni di piccole creature che consumano in pochi anni di lavoro la intera esistenza — è tale spettacolo in faccia al quale trattieni a stento una lagrima e la bestemmia ti sale volontaria sul labbro. La tratta di questi derelitti figli della sventura, non può che assomigliarsi agli osceni contratti che la società permette per la donna perduta. Qui come là, il debito incatena il fanciullo o la donna alle voglie di un padrone, alla sete sfrenata di guadagni—- qui sotto il peso di un carico che non può portare si accascia e cade una tenerella esistenza, là sotto il cumulo del disonore muore col sorriso sul labbro o la morte sul cuore una giovane vita che la società spinse ridendo su quella strada.
Eppure dagli innumeri tempi s’alzano frequenti preghiere, e uno stuolo di preti predicano la carità e il rispetto per la creatura di Dio; eppure immagini ed amuleti coprono le pareti di tutte le case, e campane e tamburri e mortaretti, e ridicole feste, e trionfi pagani di pagane divinità farebbero credere ad un paradiso, se non si sapesse che appunto per questo avvengono siffatti insulti alla umana creatura, e se la statistica non ci ammaestrasse già che la superstizione e l’ignoranza sorelle della barbarie, hanno nel prete il loro apostolo principale, il loro nume, il precursore loro. Però a mio avviso la società dovrebbe occuparsi una volta di questi delitti consumati in pieno giorno e da tutti —,ed una legge severa e punitrice dovrebbe assolutamente impedire un sì obbrobrioso mercato.
Che non vi sono mezzi per togliere il fanciullo da quel lavoro che lo uccide? No, tutti lo sanno e tutti lo conoscono — il male si è che non si vuole incominciare, il male si è che oramai si è fatto il callo su tanta miseria, il male si è che lo zolfo sostituì il cuore nei nostri produttori.
Tornai da quella gita agitato e commosso, e giurai a me stesso di non entrare più in siffatte bolge di cui non sarà facile dimentichi troppo presto la fatale impressione.
Il progresso effettivo, gazzetta ebdomaria, n. XLVII, anno I, n.1, Favara, 7 settembre 1867