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Riedesel: Agrigento

You are here: Home / Storia Agrigento / Riedesel: Agrigento

5 Novembre 2015 //  by Elio Di Bella

 

Riedesel, Johann Hermann

  Dal Viaggio in Sicilia e nella Magna Grecia, lettere indirizzate dall’autore a Winckelmann, 1753.

Girgenti (Agrìgentum, Axpayac) dista 40 miglia da Sciacca ; l’attuale città è situata a 4 miglia dal mare, sulla vetta di un’alta montagna, ove s’ergeva anticamente il castello della città greca. Se mai si destò tanto vivo in me il delizioso sentimento che ispira la bella vista e l’amena posizione, fu quando gettai di buon mat­tino lo sguardo sulla campagna che si scorge dal convento degli Agostiniani, ove ero stato accolto la sera prima.

Immaginate, ca­rissimi amici, un pendio che, dalla mia finestra al mare, si estende per quattro miglia in lunghezza e dalle 6 alle 7 miglia in larghezza ai due lati, e questo pendio rivestito di vigneti, di olivi, di man­dorli, di magnifico grano, già in piena fioritura il 7 di aprile, di eccellenti legumi, infine di tutti i prodotti che può fornire la terra, piantati alternativamente in gradevole varietà; i possedimenti dei vari proprietari separati da siepi di aloe e di fichi d’india ; piu di cento usignuoli che riempiono l’aria dei loro canti ed in mezzo a questa meravigliosa campagna, il tempio, molto ben conservato che porta il nome di Giunone Lacinia, il tempio ancora completo della Concordia, i ruderi di quello di Ercole e le rovine del colossale tempio di Giove che si possono scorgere da lontano. Non è il caso di esclamare :

Hic vivere vellem

Oblitusque meorum, obliviscendus et illis,

Neptunum procul et terra spedare Jurentem ?

Avendo bisogno di riposo, mi limitai quel giorno a visitare ciò che la città rinchiude di più rimarchevole : mi recai alla cat­tedrale, ove ebbi occasione di ammirare nel marmo, attualmente adibito a fonte battesimale, uno dei migliori, forse il più bello di tutti gli antichi bassorilievi che il tempo abbia conservato.

Guarda­tevi bene dal giudicarlo dai disegni del d’Orville e di padre Pancrazio, stracciate piustosto queste pietose illustrazioni di quanto l’antichità offre di più perfetto. Questa fonte battesimale fu tro­vata nei fossati dell’antica Agrigento ; ciascuno dei quattro lati è differente dagli altri, sia pel soggetto, sia pel lavoro. Il davanti, che certamente si presentò in questa posizione nel vecchio fosso contiene nove figure : gli eroi, in cui la figura principale è un altorilievo ; tutto quanto l’antichità ci ha trasmesso di belle forme e di belle idee ci si trova riunito, è uno dei più begli uomini che si possa vedere, non è un essere comune, ma uno di quei mortali destinati dalla natura ad imprese straordinarie ; egli spicca di più delle altre figure, è più grande, più bello, più completo ; in una parola il capo d’opera della natura e dell’arte che la imita. Le altre figure, che rappresentano i compagni dell’eroe, sono pure dei capolavori in quanto concerne le proporzioni e le belle forme, ma non raggiungono la bellezza della principale.

La vecchia, che sembra stia davanti all’eroe in attitudine di supplicante, è un po’ piccola in confronto alle altre figure, ciò non di meno perfetta nel suo genere. Al lato destro di quell’arca, la figura che cade svenuta offre l’esempio della più bella donna che l’arte possa esprimere ed il profilo del suo viso ha tutta la perfezione, tutta l’armonia che lo spinto umano possa rappresentare. Le braccia, specie quello steso e sostenuto da una ninfa o da una delle sue compagne, è il modello della più sublime bellezza ; il panneggia­mento ha tutta l’eleganza, tutta la nobiltà, tutta la naturalezza im­maginabile, e le attitudini sono eccellenti. Il lato posteriore rappresenta una caccia, in cui tre uomini armati, l’uno di una lancia, l’altro di una grande pietra che si appresta a scagliare, e il terzo, a cavallo e munito di un dardo, cercano di colpire un enorme cin­ghiale. Il lavoro è scadente ed infinitamente inferiore a quello della facciata. Il quarto lato è del medesimo stile di quello posteriore ed è di minor rilievo ; rappresenta un uomo steso per terra, ro­vesciato dalla sua quadriga ; un altro uomo frena i quattro cavalli dall’aspetto imbizzarrito ed impetuoso ; infine, si distingue, a dir il vero a mala pena, un mostro simile ad un drago che sembra abbia spaventato i cavalli.

Avrete certamente letto l’opinione di padre Pancrazio su questo monumento, ch’egli vorrebbe far passare per la tomba di Finzia, l’ultimo re di Agrigento, la cui stona fornì, secondo lui, i soggetti del bassorilievo. Oltre al fatto che Finzia, come lo sapete meglio di me, non è morto ad Agrigento, ma a Cartagine, non mi sembra probabile che si sia potuto porre ad un tiranno tanto de­testato un’arca funeraria di tale magnificenza ; voi sapete inoltre molto bene che la spiegazione data da questo padre alla sua storia lascia molto a desiderare. Dopo aver esaminato lungamente e con molta attenzione quest’arca, sono ancor un po’ indeciso se essa rappresenti la storia di Ippolito e di Fedra sua matrigna o quella di Ettore che Achille trascina dietro il suo carro. La prima ver­sione mi sembra la più plausibile .

In tal caso la fronte rappre­senterebbe, nella figura principale e nella vecchietta, Ippolito che la nutrice vuole cattivarsi, come nella tragedia ; un lato la disperazione di Fedra pel rifiuto o la morte d’Ippolito, la parte posteriore il giovane eroe a caccia ed il quarto lato la sua deplore­vole fine causata dalla fuga dei cavalli, spaventati alla vista d’un drago uscito dal mare. Non sono schiavo della mia opinione, forse la tragedia greca e quella di Racine hanno sedotto e deviato la mia immaginazione ma pure mi sembra che il bassorilievo si accordi singolarmente con questa stona.

Dalla cattedrale fui condotto alla segreteria del capitolo ove mi venne mostrato forse uno dei più bei vasi antichi in ter­racotta che sia conservato sino ai nostri giorni. L’avrete visto nell’opera di padre Pancrazio : se egli abbia indovinato o meno, pretendendo che le figure rappresentino da una parte Ulisse disceso agli inferi e dall’altra i suoi compagni al momento della metamorfosi provocata da Circe, è una questione di cui lascio la decisione al vostro discernimento, lo confesso che questa spiega­zione non mi soddisfa affatto e non mi pare per nulla esatta.

Questo vaso è uno dei più grandi e, ripeto, uno dei più belli dell’antichità, esso ha quattro palmi e mezzo, misura di Napoli, in altezza, ed una bella forma ellittica ; lo sfondo è nero e le figure sono gialle, disegnate squisitamente, i profili di gran bellezza e le proporzioni esatte. Si ammira il miglior stile greco del tempo in cui la perfezione delle arti aveva raggiunto il culmine presso questa nazione e non ho visto di simili vasi in Italia. Quelli che ho visto in Sicilia sono generalmente belli e depongono in favore del gusto dei suoi antichi abitanti e dell’abilità dei suoi operai.

Non deciderò se questi vasi siano, in quanto riguarda il materiale, le forme ed i colori, un’imitazione dei vasi etruschi o campani, oppure se fu il caso a produrre una somiglianza così perfetta. Mi sembra però più verosimile che i Greci di Sicilia abbiano imitato i vasi etruschi, ottenendo maggior perfezione nel disegno delle figure. Si sa che c’erano in Sicilia delle città particolarmente rinomate per la bellezza dei loro vasi come Terme di Selinunte, Camarina, ecc. La storia ci insegna inoltre che Agatocle era il figlio di un vasaio. Può darsi quindi che i lavori della terra etrusca siano stati in quei tempi oggetti di lusso e ricercati come ai nostrigiorni le porcellane del Giappone e della Cina. Perchè non si sarebbe tentato dapprima di imitare, indi di perfezionare questi vasi, come facciamo noi per le porcellane?

Si trovano inoltre varie arche nelle altre chiese della città e sulla piazza del mercato un’iscrizione relativa al tempio della Concordia, assieme ad altra iscrizione in lingua barbara, tolta dal tempio di Giove Olimpio. Le arche sono romane ed essendo iscrizioni riportate da Fazello e da altri autori è inutile che io mi ci soffermi.

 

 

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Categoria: Storia AgrigentoTag: viaggiatori

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