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Ravanusa. Gli Zolfatari. Ricordi

28 Ottobre 2015 //  by Elio Di Bella

di ANTONIO DI BLASI

Ignoro, da circa sessant’anni, come stanno le cose alla “Pirrera”(miniera) del Principe di Trabbia che sorgeva nella conca Galliano della valle dell’Himera. Non so se tuttora esiste.

Ora dovendone parlare, data la distanza che da essa mi separa, non ho la possibilità di attingere informazioni alla fonte, né di verificare di persona. Pertanto la mia esposizione che vuole solo esaltare la figura umana della categoria che lavorò molto, rischiò parecchio e manciò poco, pochissimo, si baserà sulle reminiscenze del passato. Se incorrerò in qualche inesattezza chiedo scusa a priori.

La “Pirrera” la vedevo da lontano quando andavo a Sommatino. Qualche volta sono stato sul posto. Di essa ricordo le innumerevoli torri a campanile che fumavano notte e giorno, le casette e le baracche basse allineate tutte insieme, i blocchi sagomati di zolfo, accatastati a piramide, i Calcaroni ed i Forni Gill disseminati dappertutto, il brulicare della gente in opera,la funicolare con centinaia di vagoncini che trasportavano lo zolfo fino alla stazione ferroviaria di Ravanusa che distava circa 18 Km.

Un tempo, a Ravanusa, c’erano parecchi minatori e fra questi gli zolfatai erano in numero rilevante. Quasi tutti abitavano nel rione “di lu chianu di lu Funnacu”.

Partivano prima dell’alba del lunedì mattina e rientravano all’imbrunire del sabato sera. Sull’uscio di casa si congedavano dalle loro donne, madri o spose.

Con i tascapani d’altri tempi pieni di cibarie, “gasteddi, tumazzu, ulivi e atru cumpanaggiu”, si lasciavano con malinconia. Non si baciavano…non era in uso. Non si dicevano: “Ciao!”…sarebbe sembrato affettato ci guardavano negli occhi e si parlavano con le pupille.

Prima di partire lui,allungando mollemente la mano con ritrosia, ostentando indifferenza diceva:”Ti salutu Mari”. Lei, soffocando una certa commozione che le stringeva il cuore, evitando di fare teatro dei propri sentimenti intimi, rispondeva, simulando noncuranza: “Ti salutu Calò, sta attentu a li periculi picchi ha li picciliddi da manteniri”.

Quando lui si allontanava,scomparendo nella penombra mattutina, si sentiva il rumore dei suoi passi ed il latrare di un cane lontano. Da quel momento incominciava per lei, fino al suo ritorno,1’angosciosa attesa. Preoccupata, rientrava subito in casa per accettar si che la “lumera di crita” col beccuccio stretto in cima ed affilato, il labbro leporino scanalato ed il manico ritorto, avesse lo stoppino impregnato d’olio, sempre acceso, per ardere a perenne devozione, sotto l’Immagine Sacra. Apprensioni e credenze non mancavano.

Alcuni minatori andavano a gruppi, altri isolati fluendo tutti, come rivoli umani, sull’accorciatoia della strada dell’Acquanuova. La maggior parte andava a piedi. Quelli che erano addetti ai servizi trasporto materiali, andavano con i carretti oppure in groppa al   somarello. La strada era lunga, se ben ricordo, circa 12/15 Km. I carrettieri non disdegnavano di concedere un passaggio ai più anziani.

Partendo tutti pressappoco alla stessa ora finivano per ritrovarsi  insieme sulla sgangherata trazzera, formando una colonna che si snodava fino alla “Pirrera”.

Carri, muli ed uomini appiedati, scorrevano sulla strada maltenuta,come un fiume alla foce. I carri portavano appesi sotto il fondo fra le ruote,la lanterna, il lume a petrolio, con l’involucro di vetro a forma ovoidale, era insaccato in una reticella metallica,fine ed intrecciata,che lo preservava dagli urti di scuotimento.

I carretti andavano uno appresso all’altro facendo sentire lo scricchiolio mordente alle ruote che arrancavano sulla strada, macinando la ghiaietta nei fossi paralleli. il rumore che si sentiva era acuto e straziante.

I lampioni appesi oscillando a ritmo ubriaco,dondolavano la luce assecondando il movimento dei veicoli il chiarore che proiettavano rifletteva a terra lo stampo dei raggi delle ruote in moto.

I pendolari della sorte, coprivano il percorso a gambalesta arrivando sul posto, quando il giorno non si era ancora disteso.

Vestiti di tela, impregnati di zolfo, tenuti a scorta sotto i giacigli degli accantonamenti a riserva, armati di acetilene, casco con lanterna in fronte, tascapane a tracolla, si calavano nei pozzi, dentro le gabbie montacarichi come bestie al macello, per raggiungere le gallerie nelle viscere della terra.

Con picchi, palo e martelli pneumatici, grattavano le falde di gesso e di argilla, per scoprire ed estrarre i banchi di zolfo che affioravano e, coi vagoncini portarli in superficie.

Le acetilene accese illuminavano le gallerie. Le loro fiammelle, fioche e tremolanti, si piegavano sommesse e rispettose, sotto l’alitare del venticello che spirava, lasciando nella scia, un fil di fumo che giocherellava con l’aria vagante.

Operavano tutti a dorso nudo. I sudori erano abbondanti Agivano con lena ed in silenzio, pensando alla casetta, alla donna, ai figli lontani.

La fatica era estenuante, il respiro affannoso, il pericolo sempre all’erta, l’infortunio a portata di mano. Tutti si muovevano con cautela,accompagnati dalla goffaggine delle proprie ombre, ora giganti, ora nane, ora bislunghe ed ora malforme. Lo scenario era lugubre. Le arcate erano puntellate dal sostegno dei travicelli messi ad arte. Le pareti delle gallerie, stillavano gocce d’acqua a non finire. La luce obliqua dell’acetilene si rifletteva sinistra sui visi stravolti, impastati di polvere e sudore. Essi sembravano maschere spettrali, larve umane, esseri irreali.

Al calare della sera,quando, la brezza vespertina,carezzava al rinfresco i visi cotti dal sole, le ultime squadre turiste degli zolfatari come sepolti vivi, ritornavano in superficie, il  volto era imbrattato di sporco e scavato dalla fatica. Gli occhi erano chiusi a “pirtusu” (pertuggio) con le palpebre abbassate per schermirsi dalla violenza della luce viva. I vestiti erano sporchi e le scarpe infangate. Cosi conciati sembravano degli spazzacamini.

L’aria anche se insaporita dall’odore acre dello zolfo, sembrava buona, ottima e veniva bevuta a sazietà dalla gola riarsa.

Con passo lento per la spossatezza ritorna vano negli accantonamenti. Avevano sempre la lanterna in fronte e l’acetilene in mano come fossero dei distintivi da portare sempre appresso.

In quel periodo la mensa aziendale non esisteva ed ognuno si preparava i pasti da sè . Nella Miniera c’era lo spaccio provvisto di tutto. Si acquistava la roba mediante il rilascio di buoni di carta. Dietro le cassette si allestivano i focolai con tre mattoni accostati. I fuochi alimentati dalla legna di fortuna sparsi qua e là, davano l’impressione di un bivacco zingaresco.

Con la conserva di pomodoro si facevano dei sughetti dolci e prelibati. L’odore intenso che emanavano profumava l’aria attorno. La pastasciutta era abbondante il secondo di ripiego. Formaggio o mortadella, sardine in scatola o olive bastavano.

Nella camerata dormitorio c’erano i materassi di crine o paglia stesi a terra, una affianco all’altro. Un solo tavolo al centro. Il pasto veniva consumato stando seduti a terra vicino al giaciglio,alla maniera dei beduini. Il movimento delle persone era confuso. Per passare bisognava aprirsi un varco fra i piedi. Qualche volta si pestavano involontariamente e le invettive che volavano lasciavano il segno. La pulizia era scarsa,la convivenza al limite del sopportabile.

Quando si spegnevano le luci, tutti russavano in coro, tenendo un concerto di alta sinfonia. Nessuno sentiva l’altro però. La stanchezza era tale che il sonno ristoratore,era profondo e saporito.

Il sabato arrivava come la Manna del cielo con le ali ai piedi e l’ansia a motore nel cuore,i minatori,tiravano sulla strada che tagliava le campagne ubertose e ondulate, ombreggiate da piante di ulivo secolare, carrube, mandorle, pistacchi, come in un volo raso terra.

Col berretto schiacciato alla malandrina, il fazzoletto sbarazzino attorcigliato al collo, la camicia abbottonata,  la giacca appesa a cavalcioni sul tascapane a tracolla, sembravano dei soldatini alla prima licenza.

Qualcuno durante la galoppata, si fermava per raccattare, qua e là, degli asparaci selvatici che affioravano sulle rocce di una località che mi pare si chiamasse “serra”.

L’accoglienza a casa pur contenuta nella forma esteriore,era commovente e premurosa. Anche i vicini sentivano il bisogno di fare capolino sulla porta per accertarsi del loro arrivo e salutarli.

Il fischio lacerante della sirena che stracciava l’aria,non si sentiva più . Anche il formicolare delle genti della “Pirrera” era lontano il letto era comodo, le lenzuola di bucato,la famiglia tutta unita. Ce n’era più che a sufficienza per dormire serenamente, invece il pensiero a chiodo fisso dei pericoli della Miniera,tormentava pure quelle ore che dovevano essere di pace e tregua.

ANTONIO DI BLASI

Categoria: Storia ComuniTag: miniera di zolfo

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