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la frana e il terremoto

Nel 1966 Agrigento, nel 1968 il terremoto nella valle del Belice: due storie esemplari, ancora aperte

27 Ottobre 2020 //  by Elio Di Bella

Nel ’66 Agrigento, nel ’67 il terremoto nella valle del Belice: due storie esemplari, ancora aperte, che denunciano il luogo comune dei siciliani “privi di senso dello stato”

I siciliani si dice non hanno il senso dello Stato. E lo si dice e ripete cosi spesso che deve essere vero o almeno, che qualcosa di vero ci deve essere in un’affermazione cosi abituale per i rappresentanti della classe dominante isolana e continentale che si spartiscono, o si palleggiano, la responsabilità secolare dell’amministrazione siciliana.

Altrimenti, se qualcosa di vero non ci fosse, dovremmo concluderne che i nostri governanti sono dei bugiardi? Dio ne liberi! Con i tempi che corrono e con la riesumazione in corso degli articoli “fascisti sino al midollo” del nostro Codice Penale non mi permetterci mai non soltanto una simile affermazione ma nemmeno la semplice insinuazione di un sospetto. Eppure, detto ciò, mi rimangono, forse per protervo campanilismo, alcuni dubbi impertinenti sulla questione dei rapporti fra siciliani e istituzioni. Che noi, “questi siciliani mentitori”, come ha scritto D. H. Lawrence si abbia qualche ragione dalla nostra? Bé, prima di giungere a conclusioni affrettate, oltre che pericolose. vogliamo guardare le cose come stanno? Di queste cose vediamone due, le più recenti: la questione dei terremotati della Valle del Belice e quella della frana di Agrigento.

Per i terremotati, che si apprestano a celebrare, se cosi si può dire, il secondo annuale del cataclisma che li ha colpiti, nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968. Le cose stanno al punto descritto in una lettera da essi inviata al Presidente Saragat. Dice, fra l’altro, il documento: “Ci permettiamo di ricordarle che il Governo della Repubblica Italiana da Lei presieduta si è messo FUORILEGGE nei confronti della  

popolazione della Valle del Belice. La marcia dei terremotati a Roma aveva ottenuto un’importante legge (legge 18 marzo 1968) che prevedeva l’avvio della ricostruzione nel 1968 e il completamento della ricostruzione stessa nel 1971. La stessa legge prevedeva l’impegno del Governo di approntare un piano di sviluppo entro il dicembre del 1968.

Siamo alla fine del 1969 e ancora non è stata collocata una sola pietra per la ricostruzione, non solo, ma nessuna delle famiglie della Valle del Belice sa dove sorgerà la propria casa. Il piano di sviluppo (che deve garantire la costruzione delle dighe e la creazione di 20.000 posti di lavoro permanenti nel settore industriale per i venticinque comuni della Valle del Belice) fino a questo momento nemmeno si vede all’orizzonte. Cosi siamo senza casa, senza lavoro, senza prospettive, relegati nelle baraccopoli clic sono dei veri campi di concentramento…”.

Ecco, chi ha il senso dello Stato, potrà magari obiettare che questi terremotali vanno un po’ troppo per le spicce, scrivendo direttamente a) Presidente della Repubblica, senza “adire le normali vie gerarchiche”. Potrà dirlo, ma a vanvera, perché i terremotati, prima di rivolgersi cosi in alto, ne hanno fatte di tutte. Sono venuti a Roma a sollecitare la legge per la ricostruzione, standosene accampali notti e giorni, nel più assoluto silenzio, davanti a Montecitorio.

Hanno avuto la legge, “il decretone tutto fumo”, come qualcuno in Sicilia lo ha definito in previsione di ciò che sarebbe accaduto. Ed è accaduto che, dopo un anno e nove mesi della sua approvazione. Non una lira dei 185 miliardi con essa stanziati è stata spesa per sopraggiunte difficoltà burocratiche o. più semplicemente, per il mancato adempimento degli atti necessari all’avvio del piano di ricostruzione da parte degli enti preposti (dal Gemo Civile alla Regione Siciliana, dal CIPE al Ministero dei Lavori Pubblici, alla Cassa per il Mezzogiorno e via dicendo).

Dopo la veglia a Roma, in mancanza dell’inizio della ricostruzione e delle opere per l’industrializzazione, i terremotati, in quindicimila, sono andati, il 9 luglio del 1968, a Palermo per manifestare davanti al Palazzo dei Normanni, ottenendo, immediatamente, un brutale intervento della polizia, che, con cariche ripetute, provvide a mandarne all’ospedale alcune decine e  successivamente, la legge regionale del 18 luglio dello stesso anno che prevedeva l’avvio entro trenta giorni di una serie di interventi nell’agricoltura.

Anche in questo caso i terremotati aspettano ancora. E allora? Allora le cose stanno al punto che. invece di case, i terremotati hanno baracche, molte delle quali già cadenti, che sono costate, mentre se ne continuano a costruire, quarantacinque miliardi. Una cifra, a giudizio degli esperti, tale da rendere il costo di ogni baracca molto più alto di quello di una normale casa in muratura. Complessivamente, delle cinquantamila famiglie colpite dal terremoto ben venticinquemila vivono in baracche, spesso semisommerse dal fango, mentre le rimanenti vivono in case che sono di fatto pericolose trappole, trappole del tipo che ha ucciso due anni fa ben 1.500 persone. Unico rimedio, sempre consigliato dalle competenti autorità l’emigrazione.

Infatti, negli ultimi tre anni, immediatamente prima e subito dopo il terremoto, ben trentacinquemila abitanti della Valle del Belice se ne sono andati. Trentacinquemila su duecento, una bella percentuale, non c’è che dire. Queste ed altre cose i terremotati della Valle del Belice sono venute a dirle, alla vigilia di Natale, nelle varie città d’Italia. A Roma le hanno dette in via Frattina. mentre la gente si affrettava a fare le ultime spese natalizie, sotto ombrelli multicolori di luce c suoni di zampogne. Lo hanno fatto, come al solito, nel modo più civile, sistemando “uomini- sandwich es” in tutti i punti nevralgici e distribuendo volantini in cui ricordavano che i baraccali, sessantamila, ci sono anche nella capitale. Sessantamila senza- casa contro 32.000 appartamenti sfitti.

Ma lasciamo i terremotati, che si apprestano a nuove proteste, nella prossima settimana, e passiamo alla questione agrigentina, al “sacco di Agrigento”, che,  a sentire il Pubblico Ministero di istruzione, dottor Vincenzo Mirotta, fu dovuto semplicemente ad “un evento naturale”, tale e quale il Vajont. Ma anche qui,  come dicevano i buoni scrittori ottocenteschi, bisogna fare un passo indietro. Un passo un po’ lungo che ci riporti al 19 luglio 1966, quando un terzo della città dei templi franò a valle; e fu lo scandalo. Naturalmente, secondo le nostre migliori tradizioni, dallo scandalo proliferarono le commissioni d’inchiesta. Per la precisione tre. La prima presieduta dall’ingegner Martuscelli, la seconda dall’ingegner Grappelli e la terza dal funzionario della Regione Siciliana dottor Mignosi.

Delle risultanze dell’indagine della commissione regionale si sono perse, manco a dirlo, le tracce; quelle delle altre due invece hanno dato inizio a vari procedimenti giudiziari. Si deve, per esempio, al lavoro della commissione Martuscelli l’incriminazione, che è di alcuni giorni fa, di ben tredici fra amministratori e tecnici del Comune di Agrigento; mentre dalle indagini della commissione Grappelli ha avuto inizio un procedimento contro ignoti tendente ad accertare le cause della frana che ha provocato il disastro del luglio ’66.

La commissione Grappelli fu nominata dal Ministro dei Lavori Pubblici del tempo, Giacomo Mancini, il 4 agosto 1966 ed era formata dai più illustri studiosi di geologia, idraulica, scienze delle costruzioni e diritto amministrativo operanti in Italia, che nel corso del loro lavoro e nelle loro conclusioni notarono: “Lo stato di incuria e le frequenti violazioni delle norme vigenti in materia urbanistica, edilizia, igienica e idrogeologica su tutto il colle, con rischio della pubblica incolumità”: e ancora: “L’osservazione diretta ha consentito di constatare e verificare le condizioni di precaria stabilità e disordine delle pendici. Tale disordine risulta aggravato, oltre che dall’indisciplinato ruscellamento delle acque meteoriche, dall’abusiva restituzione delle acque usate, dalla irrazionalità dei metodi di coltivazione, dall’intemperanza nell’edificazione, dalle rotture di equilibrio degli ammassi rocciosi a seguito dell’apertura di numerose cave di pietra”.

Da queste conclusioni come si diceva, ebbe inizio il procedimento contro ignoti del quale il Pubblico Ministero ha ora chiesto l’archiviazione, ritenendo, dopo aver consultato esperti diversi da quelli nominati dal ministro Mancini, die non esiste nessuna responsabilità oggettiva e che l’evento franoso si verificò per cause naturali. A questo punto è difficile aggiungere qualcosa; ma tornando alla questione del senso dello Stato mi pare che si possa dire.

Codice Penale permettendo, che ai siciliani di Agrigento e delia Valle del Belice governanti e magistrati stiano raccontando le favole, magari la “favola del buon governo”. Chi racconta le favole non i. necessariamente, un “mentitore”; ma non lo è nemmeno chi lo ascolta e non gli crede. Anzi, personalmente, pur ritenendo l’affabulazione una delle più nobili possibilità umane, credo che essa non debba avere niente a che fare con l’arte del governare e che quando i governanti raccontano le favole ai governanti non resti che evitare di ascoltarli.

PIETRO A. BUTTITTA  in L’Astrolabio, 4 gennaio 1970

Categoria: Agrigento RaccontaTag: frana, terremoto

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