pianete e tunicelle e piviali ricamati da artigiane locali, disegnati da artisti locali, o le belle stoffe tessute in Sicilia
Ordinata in tre giorni, mentre la festa a S. Calogero sbandava le volontà tra l’arsura della piazza intorno al Santuario e quella di S. Agostino, o lungo le strettissime vie medioevali nell’ombra trapunta dalle cento fiammelle variopinte; o lungo il corso, stretto dalla muraglia dei conventi: uno sbandamento da non si dire, nell’ora meridiana, intorno all’immagine del Santo, nero, barbuto, crucciato, posto nella piazza sotto l’ombrellino rosso, pronto a farsi strofinare, leccare, sbaciucchiare, annusare da tutti, grandi e piccini, gobbi, lerci e sani, venuti dalle contrade intorno in attesa del miracolo; pronto a patire cento bimbetti che gli si aggrappano intorno, l’uno facendo sostegno ai piedi dell’altro, per strofinargli addosso fazzoletti e braccetti per averli miracolati.
Ma chi passava dalle belle sale del Ritiro, pagava lo scotto: tu serri una tavola e ne fai mensola, tu la riduci a listelli e ne fai bacheche, tu trasporti un geranio rosso ai piedi di S. Barbara bionda e lucente, o vai a comprar chiodi, o vai a raccoglier gigli.
Così fu fatto ordine nel cumulo di sete, di broccati, di damaschi, di broccatelli, di ricami, di oreficerie, avanzi superbi di un patrimonio artistico, che fu tra i primi di Sicilia e disperso più per colpa degli uomini che degli eventi, patrimonio, in cui l’artista di genio e l’artigiana umilissima lavorarono intrecciando fantasie e esperienze, audacie ed umiltà, raffinatezze di gusto e semplicità paesane.
Il più antico quello che ornava la sagrestia di S. Giovanni o della vecchia Badia, quello è scomparso; quello della chiesa di S. Francesco è ridotto; quello di S. Agostino dimezzato; dimezzato quello di S. Nicola, ma non saperlo, ora che li vedi, questi avanzi ordinati nelle due belle sale, ariose, sulla vallata del Paradiso che sconfina nel cielo, sembra un miracolo che almeno questo si sia salvato ed abbia voce e canto.
Hanno limpida voce e parlano di un artigianato femminile che fu nel settecento siciliano di un’insuperabile esperienza, i ricami provenienti da San Francesco, che stanno nella prima sala, distesi sulla parete, alla luce che accende tra punto e punto di oro e d’argento barbagli di fiamme.
Sono infiorettati da cento e mila fiori; i piccoli posti su girali a voluta, gli altri violenti e sgargianti su lunghissimi steli; fiori di colore, fiori d’oro e d’argento; trapunti in mille guise, a punto piatto e teso, a punto alto, a punto catenella, a punto arazzo; e li domina una sensibilità cromatica tra le più ardenti e raffinate, un’esperienza tra le più meditate e controllate.
Tra la spinta alla cruna e la respinta alla punta, l’ago passò tra seta e seta trapungendo l’epidermide sottile della mano, per anni ed anni, secoli e secoli, come il ricordo della giovinezza forse trapunse il cuore alle monacelle artigiane.
Dalla flora incantata sulla seta si sprigiona un odore acre, come da fiori morenti o pur morti, come furono un giorno le Benedette, chiuse in quei conventi di Naro, che ne ebbe tanti, costruiti in pietra calda e molle, da maestranze agrigentine.
Convenuti per gli Agostiniani, per i Gesuiti, per i Francescani, per i Minoriti, tutti grandi e belli con sacrestie immense, con armadi immensi a cui lavoravano per decenni gli intagliatori locali, i Vinci o quelli di Palma Montechiaro, espertissimi o quelli di Trapani, maestri di grande fantasia.
E nei tiretti immensi, come talami, si sovrapponevano pianete e tunicelle e piviali ricamati da artigiane locali, disegnati da artisti locali, o le belle stoffe tessute in Sicilia o i broccatelli deliziosi che Venezia diffondeva per il mondo.
Ora son qua, accanto ai ricami locali di una fantasia e di una varietà da non si dire, tanto quelli provenienti da S. Francesco come quelli provenienti dalla Badia o da S. Agostino o dalla Matrice, ora son qua anche le stoffe veneziane, impareggiabili nell’aerea leggerezza del filo d’oro che le traversa a formare rami irreali sui quali si slargano fiori di pesco, code di pavoni, fiori azzurri e fiori di ciliegio.
Trame di grazie orientali percorrono i campi serici azzurri i verdi ancor oggi di insuperabile freschezza di tinte; fasce azzurre e rosa si distendono a far binario in campi di roselle primaverili in altre stoffe veneziane, mazzetti floreali sparsi sul fondo bianco della seta allegrano altri piviali ricordi tutti di Venezia, nel ‘700 maestra, all’Italia, di grazie tessili.
Ricami eseguiti da siciliane, stoffe tessuti da veneziani; qua là poi, su damaschi fiammanti stanno le oreficerie e le argenterie rimaste in poche ore a parlare di Palermo e di Trapani, le città in cui nel ‘700 le corporazioni degli orafi e dei corallari univano all’esperienza di produzione una esperienza organizzativa e commerciale tra le più invidiabili sicché ovunque si frughi in Sicilia e forse anche altrove l’oggetto fantastico eseguito in rame e corallo o l’ostensorio sbalzato in variopinto mutare di gradini, li trovi insieme, a nord o a sud di Sicilia o anche qui a Naro, in questo paesino, che la Matrice e il vecchio castello chiaramontano par veglino, eterni.
E tra stoffe e tra ori, ricordi di Venezia, di Palermo, Trapani, sta la statua di S. Barbara, in legno dorato, del ‘500 più puro, forse uscita da una bottega gaginiana con una grazia che non ve n’è di uguale, nel timoroso procedere assorto.
Ti richiama terracotte agrigentine per quanto di realtà e di ideale vi traluce, ma anche le fanciulle naresi, quelle che vedesti procedere nella processione, a passo a passo, lievi, tenendo fra le mani un giglio, con occhi bassi e pudiche.
Bella scultura di legno che non tramontò mai in Sicilia da quando gli arabi ne insegnarono le indorate forme e i prodigi: si vede il legno nei soffitti medioevali, a Collesano come a Nicosia, nelle porte, nelle statue, nei leggii, nei torcieri, scolpito, intagliato, dorato, colorato, in mille guise con un’esperienza che si tramandava di secolo in secolo, inesauribile, rinnovatesi di stile in stile con ogni perfezione. Umili artigiani, ma, oggi nel legno, ieri nella terracotta sapevano nell’umile materia modellare con tutta umiltà il loro piccolo sogno di bellezza e di grazia.
Ora hanno il premio nel ricordo, nell’ammirazione: una sedia come questa, a Parigi; un piviale come questo, a Londra e certo credono, che, in quel momento tutta Londra, tutta Parigi, sia lì davanti ad ammirare, come fa questo buon popolo narese che si rinnova, in perfetta volontà nel Duce, guardando Dio, il futuro, il passato.
E ritorna ad ammirare i vecchi pittori locali, che ieri parvero indegni ed oggi sembrano grandi, se non altro per quel loro slancio, quella bravura compositiva, quella loro esperienza tecnica, che li rendeva ben capaci di fare il quadretto come l’affresco, il grande quadro come la miniatura.
Ritorna ad ammirare, ed ammiriamo anche noi, quel dimenticato artista che fu Domenico Provenzani di Palma Montechiaro, capostipite di una famiglia di pittori che estese le propaggini fino al tardo ‘800, fino al 1892 con quel pronipote Domenico che lavorò nella chiesa del Carmine a Canicattì; maestro che sta di mezzo tra la plastica sontuosità di Vito D’Anna e l’irrequieta sinuosità di un Borremans, maestro patetico, a volte sgargiante a volte leggiadrissimo come in questi quattro ellissi provenienti da S. Agostino, ora improvvisamente capace di creare un autentico capolavoro degno di un epigono riberiano; come il S. Girolamo, qui esposto, bellissimo per contrasto violento di ombra e luce, che modellano la figura del Santo con una forza plastica di eccezionale pittore locale, che ritrovi in quasi tutti gli affreschi delle chiese di Naro, di Palma Montechiaro, di Canicattì, sempre gagliardo e fantasioso nel comporre, rappresentante non ultimo, non indegno della pittura decorativa siciliana.
Piccola Esposizione questa di Naro, voluta dal popolo, fatta dal popolo come un tributo di amore alle glorie del passato. Segno di risveglio e di volontà nel procedere
Maria Accascina, L’ESPOSIZIONE A NARO DEI “BEGLI ARREDI”, in Giornale di Sicilia, 29 Giugno 1938