Naro, città vetustissima, se crediamo ad un suo scrittore citato dal nostro Massa, fabbricata già dai Sicani, distante otto miglia del mare africano e appartenente alla provincia e diocesi di Girgenti; conta undicimila abitanti e parecchi monumenti d’antichità.
Se Racalmuto e Troina domandavano la fondazione d’un collegio che nani non avevano avuto. Naro pretendeva il riaprimento di quello che ci era stato, erettovi dal 1619, come narra lo storico nostro; ed era sì bene agiato, che dei soli fondi non alienati dopo la nostra estinzione, avanza in oggi una entrata di circa 2509 scudi annuali.
Adunque fu come altrove, una missione la causa motrice di tale petizione. Ci andarono nel 1814 quei due Padri che aperto già avevano due anni prima il Collegio di Modica, Girolamo Blandano e Salvatore Macaluso ; capo dei quali o
O Prefetto era quel desso, che lo era stato a Troina e a Racalmuto,Giuseppe Zappala, la cui nota attività e lo zelo instancabile facilmente produsse negli animi degli abitanti quei medesimi effetti che nei due nominati paesi. La missione produsse dapprima una generale mutazione di costumi od un sensibile miglioramento di vita, appresso un forte attaccamento ai Padri ed un efficace desio di ritenerli, all’ ultimo una ferma risoluzione d’ apprestare loro la stanza o di procurarne i sussidi.
Non è credibile il sacro entusiasmo che si accese nel popolo tutto quanto a far sì, che ci fosse restituita la Casa o fornita la rendita. Si raduna il Consiglio della città, o a petizione dei capi tutti di famiglia si addossa una spontanea imposizione perpetua di due grani ad ogni tumolo di generi che andrebbono a molino (decreto 23 marzo). A tal decreto non si opposero che sei private persone; l’intero comune concordemente applaudendo, e davanti le soglie della Curia forte acclamando, in tanto numero che mal capiva entro la piazza, con alte grida d’ approvazione , sanzionò quel fatto e quel dazio.
Vebbero oltracciò i Padri Minori conventuali, come i più facoltosi fra le comunità regolari, ed ancora i più bene affetti verso la Compagnia nostra, che concorrendo colla città al comune voto d’averla seco, con un atto capitolare che di niun’altra religione si legge, si obbligarono a darci annualmente duecento scudi. Tanto era universale il voto, sviscerato l’affetto , efficace la volontà del pubblico e dei privati.
Terminata frattanto la missione, erano i Padri chiamati altrove; ma non venne loro permesso d’andare: che anzi, allo spargersi di quel rumore, mancò poco che non ne seguisse un popolare tumulto. Fu duopo adunque che quasi in ostaggio si rimanesse lo Zappalà, e che in luogo dei due, Blandano e Macalnso, invitati a predicare in altre terre, venisse il P. Giuseppe Gravante.
Era ben differente il carattere di questi due insigni operai, quantunque in parecchie finalità convenissero. Amendue erano stati allevati in altri ordini religiosi, Zappalà presso i chierici Minoriti, Gravante presso i Liguorini; amendue studiosi della salute delle anime e versati lunghi anni nel ministero della parola; l’uno nelle città di Catania dove nacque, o di Messina dove visse; l’ altro per gran parte della isola che illustrò colle apostoliche spedizioni. Amendue per istudio di maggioro perfezione, e con pontificia concessione erano passati alla Compagnia, con vittoria di non lievi nè poche difficoltà di coloro cui sapea male il doversi privare di soggetti già riusciti ed utili lavoratori; e presso di Noi eransi fatti cospicui colle missioni, e resi celebri nelle città che gareggiavano per averli e per ritenerli.
Ma erano in ciò discrepanti, che dove il Gravante era tutto dolcezza e mansuetudine, lo Zappalà tutto era veemenza ed ardore; le attrattive dell’uno allettavano, le invettive dell’altro atterrivano; e queste e quelle ben confacevoli all’uopo: se non che questa volta il dolce del primo a tutti piacque, l’aspro del secondo spiacque a taluni che offesi perciò della sua libertà si volsero indietro, e di promotori che erano divennero disturbatori di quel Collegio.
Che più’ ? si diedero a promuovere la gente, a far partiti ed impedire i progressi dell’incominciato stabilimento. Cominciano ad accusare di nullità il decreto del Consiglio civico sul dazio, perché nè il Consiglio aveva tanta autorità, nè il dazio era di tanta necessità: espongono le accuse al Governo di tumultuante moltitudine, d’usata violenza, di concitata sedizione: non esser che pochi e dell’infima plebe, i postulanti del Collegio: non doversi una città gravare d’un peso eterno, e per oggetto di non estrema importanza.
Queste e siffatte accuse presentate da costoro al Tribunale e dal Tribunale trasmesse alla Corte, volle questa conoscerne le discolpe, le quali, non dalla Compagnia che per nulla erasi in ciò ingerita, ma dalla città che tutto avea per sè maneggiato, le vennero date in questo tenore:
Ad istanza d’alcuni corpi morali e di sei singoli di Naro si tentò nel Supremo Tribunale della R. G. C. Civile la nullità del decreto del Consiglio civico dei 23 marzo; e conoscendo esso Tribunale che tal Consiglio, in esecuzione della parlamentaria sanzione del 1815, era autorizzato ad imporre le grana due a tumolo per l’istituzione di nuove opere di pietà, di pubblica beneficenza e dello scuole, cose tutte proprie della Compagnia di Gesù; egli medesimo, dopo la contraddizione delle parti, ordinò l’esazione di tale imposta .
Cosi promosso, segue la città a giustificare il decreto, e a ribattere le accaso : non la forza, non la frode, non la fazione avere indotto quel pubblico a domandare, il Consiglio ad imporre quel dazio; ma la stima della Compagnia, ma l’amore della patria, ma il proprio interesse e vantaggio: sperare da un Collegio maggiori emolumenti che non traevano da più conventi: l’istituzione della gioventù, lo splendore delle lettere, l’aumento della pietà, il culto della chiesa, questi essere stati i possenti incentivi alla città di Sano per dimandare, per ritenere, per dotare la Compagnia: di diecimila e settanta persone, quanto v’hanno colà, ben novellina e duecento avere per atto pubblico implorata cotale imposizione, e in forma solenne avere obbligata la fede loro al pagamento: il Consiglio avere in ciò secondato le brame di tutti, i comuni suffragi: che se alcuna comunità ricusasse d’indossarsi tal peso, esservi modo d’alleviarmela per altre vie.
Così il popolo narese perorava la causa, e felicemente la vinse. Intanto lo Zappala, designato Compagno del Provinciale dovea far mossa per la visita della Provincia. Ma che ? per quantunque avesse il suo zelo esacerbati quei pochi che dicevamo, non fu mai vero che il più della gente perdesse per mai il menomo grado di venerazione; laonde affatto non sapeva staccarsene, e protestava che dove a fermarlo non bastassero i prieghi, ad ogni patto userebbero la forza.
D’altra banda sollecitato egli a partire adoprava indarno qualunque mezzo; interponea mediazioni, proponea ragioni, meditava fughe, ma tutto invano. In fine risolvette di chiedere in iscritto licenza dal Senato medesimo di andare per breve tempo con promessa di presto ritorno. Fu codesta facoltà per atto di notaro e davanti a testimoni richiesta; sì grande era l’importanza della bisogna ed il tintore della popolazione. Il Maestrato, fatto inteso della petizione e del motivo, rescrisse di questo tenore:
« Gl’illustri Don Magro Morillo e Don Salvatore Colli, componenti il Senato di questa fulgentissima città di Naro, volendo dare risposta all’atto superiore, fatto dal P. Giuseppe Zappala, dicono per iscritto così trattandosi di breve tempo potrà allontanarsi da questa, e noi colla popolazione saremo aspettatori della zelantissima sua persona » (rescritto 16 aprilo). Partì egli di fatto, ma non partì con esso la memoria e il desiderio di lui, accompagnato con lacrime, atteso con impazienza.
Veduto quanto la città stabilì pel nostro sostentamento, egli è a vedere quanto fece a prepararci l’abitazione. Era lo antico Collegio di già occupato, e di regia largizione concesso alle monache della SS. Nunziata, il cui monastero ormai trasformato era ridotto a casa di secolari, e la cui chiesa serviva di parrocchia dal titolo di S. Nicolò. Oltre a ciò quelle monache per adattare all’uso loro il Collegio, aveano erogato somme non tenui.
Ora rinfrancarle di queste spese, restaurare loro l’antico soggiorno, restituirlo alla pristina forma, che s’era cangiata in tutt’altra, trasferire altrove la parrocchia e rendere la chiesa all’antica comunità, era questa un’impresa di lungo tempo, di gravi ostacoli , d’enormi dispendi. Vi ha in quella città un altro monastero, detto del SS. Salvatore, il quale vive sotto la regola stessa che il primo, di S. Benedetto; ma assai più capace, più ricco, più nobile.
Fu dunque richiesto alle Madri di esso, se mai avessero a grado d’accogliere dentro le loro mura le moniali dell’altro Monastero, perchè il Collegio restasse libero ai Nostri. Qui è da notare l’estrema benevolenza di quelle ottime Madri; le quali, avendo di quei giorni veduto negli altri, e sperimentato in se stesse il gran pro che ne tornava dalle fatiche dei Nostri, insieme cogli altri s’impegnarono a ritenerli.
Il perchè, non solo assentirono volenteroso alla richiesta, ma elleno stesse si fecero a domandarlo. Venissero pare, venissero le vergini della Nunziata ad albergare sotto il medesimo loro tetto : vi troverebbero tante sorelle, pronte ad abbracciarle, e a servirle: l’abitazione esser sufficiente per tutte, lo istituto ad entrambe colonne, una la volontà, uno il parere.
Di questa offerta spontanea e libera donazione vollero per atto solenne darne un pubblico attestato; nel quale, dopo aver esposto con alta lode le fatiche dei nostri Padri, dopo rappresentato lo stato attuale del Collegio e del Monastero, i voti del pubblico, le istanze dei privati, il bisogno della città, proseguono dicendo che « mosso dal vantaggio spirituale che i fedeli sarebbono per trarre dalla permanenza dei Padri, la Rev. Madre Suor Maria Vincenza Ortolani e Landolina, Badessa, e le monache tutte (che sono nominato una per una) capitolarmente, riunite dichiarano di voler accettare dentro il loro monastero le religiose tutte dell’altro, previa la conprovazione del Re e dell’Ordinario ».
Non paghe di tanta liberalità aggiunsero le vergini del Salvatore una promessa, di lasciare cioè che per dieci anni le Superiore venissero unicamente tracolle di quelle della Nunziata, cui esse congiunte in uno presterebbero omaggio. Sembrava che quelle volessero sopraffar queste di gentilezze, sembrava che queste dovessero infine restar più che contento di quelle.
Ma, o fosse propria renitenza, o istigazione altrui, di quei pochi cioè che dicemmo irritati o rivolti in contraria sentenza, esse non vollero indursi a mutare soggiorno. Rimaneva che quello che ottenere non potevano nè gli inviti, nè le preghiere, espugnato venisse dal comando e dall’autorità. La Badessa medesima, il Senato, il popolo, tutti rivolgonsi unanimemente al Governo.
E quanto si è alla prima, ella che ad apprestare la sua casa non utile ricavava ma incomodo, e che perciò dovea non porgere, ma ricever le suppliche, ella pur una indirizzonne al Sovrano, nella quale esposto quanto profferiva di presente ed a che erasi per contratto obbligata, soggiunge
“come essa e tutta seco la comunità brama la giovevolissima ripristinazione della Compagnia di Gesù nel Collegio, scongiurando intanto la sovrana bontà di comandare la riunione dei due monasteri, viventi sotto la medesima regola, per la maggiore loro osservanza, per la maggior gloria di Dio, pel bene delle anime e pel contento della città”.
A questa supplica aggiunse la sua il Senato, promettendo di rifare alle monache il demolito loro monastero: nei sensi medesimi si espresse il popolo, che di tal causa costituì procuratore generale il generoso Cav. Gaetano Gaetani, degno nipote della prelodata Badessa, e degnissimo pronipote di quel Giovanni Gaetani, che viene dall’Aguilera numerato tra i primi fondatori di quel Collegio. Queste rappresentanze fatte al Monarca n’ebbero tal rescritto :
«riconoscer degne della Sovrana Sua accoglienza le suppliche della popolazione di fare per ripristinarvisi il Collegio : intanto, poiché si trova occupato, ordinare che i tre Ministri, esaminato l’affare, suggeriscano la maniera, ond’eseguirsi quanto ha proposto il Senato ».
Questa reale determinazione, quantunque nulla avesse conchiuso, servì a riaccendere l’interesse dei popolani. Abitavano i Padri dal bel principio in casa del ch. Priore Don Calogero Travali, prima dignità di quella collegiata; il quale; avendo per tanto tempo apprestato loro ogni servigio, volle in quest’anno rendere un solenne tributo al loro Santo Padre; e però nella chiesa madre solennizzò in onore di Santo Ignazio una pomposissima festa, cui intervenne popolo senza numero.
Fu chiamato a recitarvi l’orazione panegirica il Padre Vincenzo Cavazza, che trovavasi maestro dei nostri accademici a Caltanissetta; e vi tornò di Palermo il P. Zappalà, dopo fatta la visita provinciale. Ognuno può immaginare qual fosse il tripudio della città al rivedere l’amato lor Padre, cui con tanta pena aveano lasciato partire. Ma tale tripudio durò assai poco, dacchè lo Zappalà per altre cagioni dovette ripartire.
Fu questo proprio un rincrudire la piaga appena rimarginata; se non che venne in parte mitigato il dolore della sua nuova partenza, al vedere che insieme con lui partì per la capitale chi dovea sollecitare il negozio. Fu questi il signor Francesco Cannizzaro. Proposito di quella chiesa, che dotato d’attività, fornito d’intendimento, ragguardevole per la carica e impegnatissimo per lo cose nostre, impiegò per tal causa o tempo, e danaro, e fatica ingente. Cosi le prime due dignità, il Priore a Naro, il Prevosto a Palermo, erano ambedue consacrati a pro nostro: e mentre questi a Palermo era dai Nostri trattato in casa nostra, quegli a Naro trattava i Nostri i casa sua.
Avvenne di tal tempo che quattro dei Nostri dal vicino Collegio di Caltanissetta colà si recassero nelle ferie autunnali a visitare il P. Gravante. Furono appena scoverti di lungi, e già corse voce per la città, venire i Padri ad aprire il Collegio. Bastò tal rumore, perchè una turba immensa di gente affollata uscisse fuori lo mura per incontrarli. Non sanno saziarsi di vederli, di sentirli, d’ossequiarli: chi bacia loro lo mani, chi le vesti; tutti gridando lietissimi viva, gl’introducono a modo di trionfo in città. Non capivano le stanze del Travali tanta moltitudine che veniva per salutarli; sicchè in mestieri che, come si osa nei giubilei, coloro i quali entravano per una porta, uscissero per l’altra, per dare luogo a quei tanti che sopravvenivano.
Frattanto, invalsa l’opinione che erano venenti i Nostri ad aprire il Collegio abitato dalle monache, andavano le turbe gridando alto: fuori le monache, fuori dal collegio. Queste a tali clamori atterrite smarriscono, e trepidanti ed incerte non sanno a qual partito appigliarsi. A rassicurarle, i Nostri inviarono persona a dir loro, non essere essi venuti per quivi fermarsi, ma per tosto partirne. Se cotal detto serenò le buone madri, turbò l’esaltante moltitudine, che vide quasi sogno svanito il suo gaudio e quasi nube dissipata la sua speranza. Nel partire che fecero quei quattro furono accompagnati dal popolo insino al castello, dai cui limiti non fu permesso al Gravante tenuto in ostaggio, allontanarsi d’un passo, per paura ch’egli pure fuggisse.
Il popolo sempre più fervido, per affrettare l’ adempimento, dei suoi voti munisce di nuove facoltà il suo agente Cav. Gaetani sopralodato, ed in vari comizi lo destina di comune suffragio a promotore della causa. Io mi trovo alle mani sei atti d’elezione; nel primo dei quali soscrivonsi ben 782, nel secondo 516, nel terzo 403, nel quarto 267, nel quinto 163, nel sesto 251 persone, che a lui commettono la procura suddetta. Qual fossene l’esito, ci toccherà vederlo l’anno venturo.
Fonte Alessio Narbone, Annali siculi della Compagnia di Gesù dall’anno 1805 al 1859 volume secondo 1805-1824, Palermo 1907