Cominciamo con un articolo datato 12 gennaio 1880 che ci racconta di un lungo viaggio del Re d’Italia Umberto I e della Regina Margherita ad Agrigento in occasione di una visita ufficiale in Sicilia. Estasiati da Palermo, i sovrani si accingevano a visitare la città della Valle dei Templi con un treno in partenza dalla capitale siciliana; il giornalista, tal Nicola Lazzaro che presumibilmente accompagnava i reali nei loro viaggi, nel suo racconto non sembra, però, particolamente soddisfatto della linea ferroviaria che conduce a Girgenti definendola “una ferrovia costruita nel modo più barbaro che si possa immaginare“; ad onor del vero non è poi cambiata tanto la situazione ai giorni nostri. Ma andiamo avanti perchè questo è solo l’inizio. I reali lamentarono infatti anche “un servizio tra i più deplorevoli, mancano le coincidenze con ritardi di due o tre ore e non esistono treni diretti“. Il giornalista continua il suo tragicomico racconto: “gli impiegati fanno a loro capriccio, compreso il capostazione“.
Nonostante tutto, lungo il viaggio tante furono le celebrazioni per i reali da Termini Imerese con stazione bardate a festa, bande musicali, giungendo sino a Cammarata ove ad accoglierli vi erano il barone Rizzo che donò una profumata cesta di mandarini e la baronessina, della stessa stirpe del precedente, che porse un mazzo di fiori alla Regina.
Il treno reale che comprendeva oltre ai sovrani, anche i principi di Napoli e D’Aosta e l’onorevole Cairoli, giunse a Girgenti alle 13:40 alla stazione cosiddetta Bassa (nel 1880 non era stata ancora costruita la Centrale realizzata in seguito per volere del Duce Benito Mussolini).
Calda l’accoglienza che i nostri concittadini riservarono al Re e alla Regina d’Italia che prima di arrivare al palazzo di città, percorsero molte vie; il tempo fu tiranno ed una improvvisa pioggia colpì il corteo. La Regina vestiva di un elegante vestito da viaggio coperta da un mantello bianco. Alla carrozza reale se ne aggiunsero altre 60 provenienti da Palermo con Deputati, Senatori, personaggi di Corte, e tanti altri egregi politici ed illustri cittadini. Nei due chilometri che separavano la stazione Bassa dal palazzo di Città, il cronista racconta di strade rifatte apposta per l’arrivo del Re.
Vi ricorda qualcosa tutto ciò? A noi si, per esempio il 1993 quando venne il Papa ad Agrigento: non ci smentiamo mai, il look cittadino viene rifatto solo in occasioni importanti.
Ma torniamo al nostro viaggio indietro nel tempo; nell’articolo si narra di balconi addobbati anche con arazzi raffiguranti la M della Regina Margherita e la U di Re Umberto, campane che suonavano a festa, e donne che agitavano fazzoletti e gettavano foglietti con scritte inneggianti ai sovrani.
Giunti al Palazzo della Prefettura la gente si riversò in quella che oggi è Piazza Vittorio Emanuele, chiedendo che i sovrani si affacciassero dai balconi, ma una pioggia improvvisa impedì non solo lo svolgersi di giochi artificiali pronti per i festeggiamenti ma anche la visita ai templi (“le rovine” li definisce il giornalista). La sera di gala era incentrata sull’opera Il Trovatore (tre atti) ed un balletto.
Poco prima di finire l’articolo, colui che racconta di quello storico giorno per la città di Girgenti, conclude con una sua “nota personale”: “Sapete quanto costa oggi un pranzo di tre meschini ed orribili piatti nei cafèes restaurants di Girgenti? La miseria di dieci lire, ed una carrozza per la stazione lire 20. Questi abitanti ne vorrebbero molti degli arrivi del Re: il Municipio lascia fare, tutto va in piena baraonda, povero chi non sa approfittarne“.
21 Marzo 1877, la “maffia”, con due effe, così come era stata soprannominata in Italia la nascente organizzazione criminale che stava per mettere le sue radici nella nostra terra per sempre, registrava sin dai suoi inizi l’affiliazione dei borghesi, “persone di alto rango” così come li definisce il giornalista di un quotidiano dell’epoca. Ecco il testo dell’articolo, senza firma.
“In provincia di Girgenti fioccarono le ammonizioni. L’alta maffia ha colà le sue radici più profonde. Persone di alto rango, baroni, cavalieri, notai, proprietari terrieri, vennero riconosciuti pregiudicatissimi per le relazioni con quanto la maffia ha più di potente. E ieri l’altri furono tutti ammoniti. E’ proprio sconsolante il vedere quelli che per i propri mezzi dovrebbero dare buoni esempi di onestà, di educazione, essere i primi a fare il male, ed a dimostrare animo depravato, depravati costumi“.
Nello stesso giorno di quel lontano marzo doveva giungere a Girgenti, in visita ufficiale, il principe Carlo di Prussia.
Questo era anche il periodo del colera, questa terribile malattia, che causò migliaia di morti in provincia. Pensate che nella sola provincia di Girgenti ci furono 16.014 casi e tra questi ben 7.310 furono i decessi. Una ecatombe considerato che in tutta Italia i colpiti dal male furono in tutto 63.365 di cui 32.074 morti. Rapportando i due dati, nella sola provincia di Girgenti vi furono il 25,5% del totale dei malati in Italia.
Fu un periodo triste per la nazione ma in particolare per la nostra provincia, ecco ad esempio cosa accadeva a Naro: “Il consiglio comunale di Naro i di cui membri essendo stato colpito dal colera il sindaco avv. Benedetto Celauro e gli assessori, od ammalati o lontani, rifiutaronsi di assumere la gestione del municipio. Collo stesso decreto era nominato delegato straordinario il delegato di pubblica sicurezza signor Giuseppe Scaletta. Essendo questi rimasto vittima del colera mentre adempiva con singolare zelo ed abnegazione il duplice ufficio di delegato e di ufficiale di pubblica sicurezza, con successivo R. decreto del 20 giugno 1877 venne nominato alla stessa carica di delegato straordinario di Naro, l’avv. Achille Mazzarella, delegato di pubblica sicurezza”. Ma non solo a Naro avveniva questo fuggi-fuggi anche in altri paesi della provincia la gente non rischiava di venire a contatto con i malati”.
Nella nostra disgraziata città non c’era solo un problema di estrema povertà e di miseria, ma parallelamente alla disoccupazione cresceva la criminalità all’epoca rappresentata non solo dalla nascente “maffia” ma anche dai briganti, persone senza scrupoli che erano il terrore dei cittadini onesti.
I giornali del maggio del 1877 narrano che nel maggio di quell’anno furono ben trecento i criminali arrestati: “Migliori notizie giungono dalla provincia di Girgenti le cui campagne erano non ha guari percorse da malfattori d’ogni generazione. Trecento di essi caddero recentemente nelle mani della giustizia e morto il famigerato Vella, che empieva il paese di terrore. La amministrazione dà seriamente opera a tornare la tranquillità in quella sfortunata contrada. Vi s’invigilano ora le persone sospette, si tolsero le licenze di porto d’armi concesse imprudentemente, si punirono alcuni ufficiali della sicurezza pubblica che non bene soddisfacevano al loro dovere. Brevemente è rinata fiducia in quella popolazione. Il prefetto ha consigliato alla Provincia la contrattazione del mutuo di un milione e mezzo per intraprendere delle opere pubbliche“.
Ed ecco per concludere cosa il 18 aprile 1877 i giornali scrivevano sui capi-maffia, briganti, sui malandrini o criminali in genere arrestati: “La promozione del Malusardi a prefetto di prima classe ha fatto ottima impressione. La guerra contro i malandrini continua terribile. Tanto che il prefetto stesso, il quale giorni sono avea fatto affiggere per la città un elenco dei diciotto latitanti più pericolosi, colla indicazione dei premi dovuti a chi li consegnerebbe alla giustizia, ora ha già dovuto far cancellare i nomi di cinque di essi. Del resto se questi risultati sono soddisfacentissimi, e ci danno a sperare di poter presto percorrere, senza tema alcuna, le nostre campagne liberamente, è però sconfortante il pensare come nella vicina provincia di Girgenti di giorno in giorno si vadano scoprendo capi-maffia nelle stesse fila dell’alta società. Qual triste esempio al popolo! Fortuna che l’Autorità locale non guarda in faccia nè ai blasonati, nè ai ricchi proprietari, e, pure sfidando la potenza della maffia sa arrestarli senza pietà! E’ a credere che strappando quelle radici anche la provincia di Girgenti non avrà più a lamentare tanti delitti“.
Quinta puntata del nostro viaggio nella storia della nostra città. Questa volta la nostra lancetta del tempo si ferma al 7 marzo del 1907, triste data per gli agrigentini: muore infatti il Guardasigilli Nicolò Gallo. Le date successive raccontano dei truffaldini sviluppi politici a Girgenti conseguenti alla morte del ministro della Giustizia e le proteste indignate della politica italiana sulle vicende, che in certi casi, passano dal tragico al grottesco.
7 marzo 1907. La morte del Guarda Sigilli Nicolò Gallo. Durante la notte la salma di Gallo è stata lasciata nel letto dove è morto, ed è stata vegliata dal genero avv.Anaclerio e dalle suore. Stamane, alle 5, fu vestita di nero e trasportata nella camera ardente e posta su un catafalco. Sopra il catafalco, in alto, è appeso un quadro, ad olio, copia di una Madonna del Murillo, quadro che il ministro Gallo teneva assai caro. Ai piedi del cadavere sta un cuscino con le decorazioni dell’estinto. La camera ardente, la camera dove il ministro è morto e le stanze attigue sono piene di corone: fra le prime sono quelle dei due figli, del genero, di Giolitti, di Colosimo, della Camera dei Deputati, del deputato Orlando ex-ministro, di Girgenti. Quasi tutte sono di fiori freschi, alcune di metallo. Accennando a decomporsi la salma fin da stamane il pubblico non è più stato ammesso a visitarla. Alle ore 14 giunge a casa Gallo una splendida corona di fiori freschi inviata da Re; essa è composta da violette, orchidee, garofani e porta due grandi nastri azzurri colla scritta: A Nicolò Gallo Vittorio Emanuele e uno dall’incaricato d’affari del Giappone (segue lista di istituzioni e persone che hanno mandato corone, Omissis). Alle 19 la salma è partita per la Sicilia, accompagnata dal genero, dal cognato, dall’usciere del ministero di grazia e giustizia Ricci e dal cameriere particolare del defunto. Nel vagone-salon sono state poste la corona della famiglia e quelle de Re, del presidente del Consiglio Giolitti, dell’Ordine degli avvocati di Roma e Girgenti. La città di Girgenti presenta un aspetto desolante. I negozi sono chiusi e listati a lutto, così i caffè, i Circoli e le case private. Dappertutto si commenta la triste fine del concittadino illustre, cui si preparano solenni onoranze. Il sindaco ha comunicato la notizia ai sindaci dell’intera provincia. Fu fatta la proposta di dare il nome di Gallo all’attuale piazza Sant’Anna e di erigere un busto nella sala del Consiglio. Le proposte vennero approvate all’unanimità, così pure le spese per i funerali che per volere del figliuolo Gregorio si terranno nella chiesa di San Domenico.
23 marzo 1907. Favara. Oggi al Municipio ebbe luogo una riunione dei consiglieri comunali, presenziati dal sindaco comm. Angelo Giglia. Si è proclamata con entusiasmo la candidatura del prof. Scaduto. Lo stesso fu fatto al circolo delle maestranze ed alla Casa della Compagnia Civile. Il prof. Scaduto da cinque anni rappresenta Favara al consiglio provinciale di Girgenti, e Favara nelle prossime elezioni politiche voterà compatta il suo nome. Intanto da Girgenti telegrafano che la maggioranza consigliare all’unanimità ha proclamato la candidatura dell’avvocato Gregorio Gallo, figlio del defunto ministro.
10 Maggio 1907. Il presidente pone a partito l’annullamento della elezioni nel collegio di Girgenti, nella persona del signor Gregorio Gallo (figlio dell’ex Guardasigilli), per non avere l’eletto compiuta l’età prescritta. (E’ approvata). Si dichiara vacante il collegio di Girgenti.
7 giugno 1907. Girgenti, campagna elettorale per elezioni a Camera dei deputati del figlio del defunto Guardasigilli Nicolò Gallo. Il soverchio zelo dei fautori di Gallo. “Ieri a Girgenti avveniva una dimostrazione Pro-Gallo che degenerò in un vivo tafferuglio. Corsero bastonate. La causa fu il troppo zelo di qualche fautore del Gallo. Un individuo venne arrestato e la dimostrazione venne sciolta dalla forza. Il pubblico, indignato, ha improvvisato una controdimostrazione a favore del professore Scaduto. I fautori del Gallo pretenderebbero nientemeno che gli operai nelle prossime elezioni votassero a scheda aperta. Gli operai di ribellarono alla prepotenza. Tale notizie trasmessa telegraficamente ieri ad un giornale cittadino è stata sequestrata, non potendo avere corso perchè si opponeva l’articolo 7 della convenzione telegrafica. E’ inutile fare commenti. L’art. 7 in questo caso era insussistente, poichè il telegramma incriminato non metteva in pericolo nessuna istituzione. Il telegramma si limitava ad esporre obiettivamente le circostanze del fatto”.
9 giugno 1907. Diceva l’onorevole Nitti dinanzi ai colleghi deputati della Camera a Roma in quei caldi giorni di luglio dei primi del novecento: “Faccio rilevare che tutto è anormale nell’elezione politica del 9 giugno a Girgenti cominciando dalla persona del candidato Gallo il quale tra parentesi sebbene non abbia trenta anni venne alla Camera a giurare e a partecipare ad una votazione!
Nitti prosegue raccontando agli altri onorevoli degli aneddoti curiosi legati a quella competizione elettorale: “fu inviata una nave per imbarcare un presidente ritardatario di un seggio e portarlo all’assemblea dei presidenti. Si fece ciò per sentirsi poi rispondere dal presidente del seggio che aveva dimenticato nell’isola il verbale dell’elezioni (ilarità vivissima dei presenti)“.
Nitti prosegue dicendo: “nell’elezioni di Girgenti avvennero altri fatti mostruosi. Si fecero votare molti morti! Inoltre votarono trecentosettantuno elettori nascenti e in due sezioni infine votarono seicentosessantanove elettori per i quali era sospeso l’esercizio elettorale. Non basta. I presidenti fecero votare a scheda aperta tutti gli elettori, sostenendo essere ciò perfettamente legale, mentre costituisce la più sfacciata violazione della legge elettorale“.
Nitti a questo punto si rivolge al sottosegretario alla Giustizia: “Vorrei che Ella dicesse al prefetto di Girgenti che non deve dare una risposta come quella da lui data ultimamente. Infatti il prefetto a coloro che reclamavano la libertà di voto rispondeva “se la maggioranza della cittadinanza di Girgenti desidera che sia deputato il figlio dell’ex guardasigilli Gallo, io non posso che favorire il desiderio della cittadinanza”; così non deve parlare un prefetto. Denuncio inoltre al Governo il contegno di certi sacerdoti del Collegio di Girgenti i quali contrariamente al disposto dell’art. 107 della legge elettorale, hanno apertamente partecipato alla lotta“.
“L’oratore“, scrive il giornalista che commenta il testo della discussione “allude con queste parole al sacerdote Sclafani il quale comunicava agli elettori di avere il Papa revocato il non expedit a favore del candidato Gallo“.
Nitti termina dicendo: “invoco che il procuratore generale di Palermo apra un procedimento contro questo sacerdote e deploro che il nome onorato e la fede liberale del defunto guardasigilli Gallo siano stati trascinati nel fango durante le elezioni del 9 giugno per favorire la candidatura del figlio di Gallo (impressione vivissima, commenti in sottofondo prolungati)“.
9 giugno 1907. Il giorno del voto, la maffia a favore del Gallo. Grande forza pubblica fu scaglionata da per tutto nella città e nei vari paesi del Collegio. Si dice, che, alternandosi, ieri, i fanatici mafiosi monteranno la guardia nei locali per intimidire e minacciare gli elettori che votassero contro Gallo.Si è pubblicato una lettera di protesta del dottore Russitano il quale ieri notte vide alcuni membri del comitato Pro Gallo dirigere le operazioni di stracciamento dei manifesti per Scaduto e l’affissione di altri manifesti che dimostravano solamente l’inciviltà dei metodi cui ricorrono i fautori di Gallo. Se non si adoperassero le solite sopraffazioni sembra che la candidatura Scaduto abbia probabilità di vittoria.
10 giugno 1907. Tutte le violenze possibili sono state adoperate perchè il candidato governativo Gallo vincesse nell’odierna lotta del Collegio di Girgenti. la corruzionoe regnò sovrana senza che nessuna Autorità se ne preoccupasse. La turba, prezzolata ed ubriaca, commise ogno sorta di violenza, uscendo ed entrando nelle aule, sotto la direzione dei capi elettori, schiamazzando in modo scandaloso, cacciando fuori i fautori della candidatura di Scaduto. Un fatto unico è accaduto stamane. Si aspettava l’arrivo dei giornali, ma non giunse alcun giornale da Palermo. Un avvocato, membro del comitato Pro Gallo, si era recato alla stazione di Caldare per sequestrare tutti i giornali ed impedirne la vendita. L’avvocato però non vi riuscì. A Girgenti il rivenditore generale saputo il fatto si recò dal commissario a protestare.
L’avvocato allora venne ad una transazione. Egli avrebbe riconsegnato i giornali, ma dopo la votazione alle ore 18. La città restò così priva di giornali. I fautori di Gallo sapevano delle corrispondenze che dovevano comparire nei due giornali, giacchè l’avv. Ferdinando Costa diceva ieri sera al Circolo Empedocleo, innanzi a moltissimi soci, che essi avevano ascoltato la trasmissione telefonica fatta da Girgenti ai due giornali. Egli ha spiegato il fatto dicendo che tutti gli impiegati del telegrafo erano a disposizione di Gallo. La gravità del fatto è inutile rilevarla. Secondo l’avv. Costa si sarebbe addirittura violato il segreto telefonico. Nella cittadinanza l’impressione è grandissima e l’indignazione assai viva. Mentre la turba invadeva le diverse sezioni il comm. Cognata intimò ad un delegato di pubblica sicurezza di perquisire quella gente, in gran parte pregiudicati ed ammoniti, o tutti armati, ma il delegato non se ne incaricò affatto. La votazione procedette a scheda aperta. Ogni voto venne controllato. Alla terza sezione un votante si permise di far osservare al presidente del Seggio che la legge non permetteva simile votazione. Il presidente lo ammonì, insistendo che tale sistema era permesso dalla legge.
Un altro grave fatto avvenne alla prima sezione. In un momento di confusione, un signore, che faceva parte del comitato Pro Gallo, avvicinatosi al tavolo del seggio, estraeva dall’urna trentanove schede bianche, quindi si ritirava in una latrina attigua per scrivervi sopra. Il suo piano però venne scoperto e si presentò regolare denunzia. La cittadinanza ha assistito nauseata alle elezioni odierne e fra continuo proteste contro il Governo che permise simili votazioni. E’ degna di nota la dichiarazionoe fatta dal giornale locale “Il Riscatto” venuto fuori in occasione della candidatura di Gallo. Il giornale dice: “Gregorio Gallo non ha nessun programma politico; egli non ha una politica nè clericale nè anti-clericale. Egli è superiore a qualsiasi partito. Girgenti deve eleggerlo perchè questo era il Collegio dell’illustre suo genitore, perchè questa è la sua patria nativa e perchè egli ha una attitudine speciale a fare favori”. Qualunque commento guasterebbe. Volendo glorificare un morto, si insultano gli elettori del Collegio, l’Italia tutta, il Parlamento e quel che è umoristico lo stesso Gregorio Gallo.
11 giugno 1907. A Girgenti perdura dolorosa l’impressione prodotta dalle violenze esercitate dai partigiani del candidato ministeriale. Stamani molti cittadini avevano deliberato di fare una dimostrazione di simpatia al candidato soccombente ma allo stesso tempo la cittadinanza della vicina cittadina di Favara, che diede all’unanimità i voti a Scaduto, stabiliva di recarsi in massa a Girgenti per salutare con imponente dimostrazione lo Scaduto. Appena la proposta fu ventilata tutto il popolo accorse. Le donne ed i ragazzi si lanciarono in strada per Girgenti. I contadini abbandonarono i campi, i zolfatai le miniere. La dimostrazione in colonna serrata ed imponentissima si diresse alla volta di Girgenti. Il candidato dell’Opposizione però, appresa la cosa, corse con alcuni amici sulla via di Favara ad impedire che la dimostrazione giungesse a Girgenti. A mezza via, quando si incontrarono, scoppiò un lungo interminabile applauso, e i dimostranti, acclamando sempre a Scaduto, rientrarono a Favara.
5 agosto 1907. Le violenze che si sono perpetrate ieri dai fautori di Gregorio Gallo sono anche più gravi di quelle memorabili compiute in volta passata all’ombra delle protettrici… (Illegibile). Allora, con bande armate agli ordini dei preti protetti dal Governo il prof. Scaduto otteneva a Girgenti 154 voti; oggi, invece, alla prima Sezione ne ottenne soli 7, nella seconda 12, nella terza 16. Come si vede, la pastetta è stata completa. La corruzione è regnata sovrana. I sostenitori della candidatura Scaduto furono costretti ad abbandonare le aule per non subire ulteriori oltraggi. Essi uscirono dalle Sezioni protestando. I seggi rimasero liberi, ed allora i partigiani di Gallo ebbero agio di fare tutto ciò che loro piacque, quando i sostenitori dello Scaduto, cacciati a viva forza dalle aule, si trovarono nella dura necessità di abbandonarlo definitivamente. La pastetta si compì senza nessun ritegno.
Nella settima puntata di Cara Girgenti Mia… vi proponiamo alcuni stralci di articoli che vanno a cavallo tra il 1874 al 1908. Elezioni politiche, rivolta e tumulti nelle carceri per via degli alimenti, rapine compiute dai briganti in quella che oggi è la zona che dal Villaggio Mosè conduce alla “Crocca” per Favara, una lotteria nazionale vinta da un agrigentino nel ’07 ed infine un episodio curioso che vi abbiamo voluto segnalare e che vede coinvolti alcuni abitanti di Carini (Pa): una vicenda losca e sinistra di proprietà terriere.
Elezioni del 1874 a Girgenti. Patriottismo delle province meridionali. “Se le province del Mezzodì sono ancora molto arretrate in ciò che riguarda la istruzione e maggiore infatti è in esse che nelle altre il numero degli analfabeti, non rendiamo loro che giustizia affermando che ciononostante si dimostrano molto più sollecite nell’adempimento dei politici loro doveri. Troviamo nella Gazzetta Ufficiale una tavola statistica delle elezioni amministrative del 1874, dalla quale risulta che il numero complessivo degli’iscritti fu 1.402.143, quello dei votanti 548.796, cioè assai meno della metà. E le province, in cui il numero dei votanti oltrepassò la metà degli iscritti, appartengono tutte al Mezzodì, ciò sono le provincie di Aquila, Avellino, Bari, Benevento, Caltanissetta, Campobasso, Caserta, Chieti, Foggia, Girgenti, Potenza, Siracusa e Trapani. Si può da questo fatto trarre il migliore pronostico per l’avvenire di quelle provincie”.
1 agosto 1879. Il giorno 25 di luglio Girgenti fu commossa da un fatto disgustoso ed abbastanza grave. In quelle carceri giudiziarie dove sono rinchiusi oltre 500 individui della peggiore stoffa, fra i quali condannati alla galera ed anche a morte, avvenne una commessa che assume grandi proporzioni. Il pretesto fu per la qualità e quantità del pane. Verso le 7 pom. i carcerati cominciarono a gridare contro il direttore, ed accompagnavano le grida sbattendo violentemente le trespole e le tavole da letto contro le porte.
Accorrono soldati, carabinieri, il procuratore del re, il Generale, il colonnello, i quali cercano di ristabilire la calma, ma inutile. Ricorrono alle minacce ed a grande stento ottengono una pausa. Creduto cessato il tumulto alcune truppe si ritirano, ma il tumulto incomincia più di prima; ritornano i soldati, ed altri ne sopraggiungono da Porto Empedocle. Alcuni carcerati riescono a smuovere una robusta grata di ferro. Un pelottone si mette sotto la finestra coi fucili spianati; si danno il cambio ogni 10 minuti.
Intanto il tumulto continua, aumenta. Le autorità risolvono di prendere delle misure più energiche; diffatti i soldati lavorano per atterrare le porte, i carcerati si barricano coi letti e urlano selvaggiamente. Il procuratore del Re ed il direttore, con delle truppe entrano nei cameroni e chiamano all’appello i più facinorosi;non rispondono nè alla prima nè alla seconda chiamata; alla terza si minacciano seriamente coi fucili, ed allora uno per uno i camorristi più arrabbiati si presentano con aria innocente e piagnucolosa; così si tolgono dai cameroni e si mettono in locali separati.
Il tumulto cominciò a cessare a stento, e fu finito a notte avanzata. Intanto in città si sparge la voce che molti detenuti sono fuggiti;la popolazione si spaventa, l’è un chiudere in fretta finestre e porte. Alcuni soldati reduci dal carcere arrivano in paese, si fermano, fanno frastuono di armi. Tutto ciò di notte: si è creduto dai cittadini fosse un attacco coi fuggiaschi;il panico diventa paura, la confusione smarrisce gli animi più freddi.
Un fuggi fuggi indiavolato, che a stento si potè frenare. Insomma la fu una notte cattiva che passarono i buoni Agrigentini.
E’ vero che da qualche giorno l’appaltatore forniva del pane pessimo, tanto che il direttore lo protestò e supplì con pane ordinario, ma fu un pretesto più che altro. E’ biasimevole il sistema di tener chiusi per molto tempo nelle carceri giudiziarie anche i condannati alla galera a vita ed a morte, nè so comprendere come simili fatti si debbano verificare.
1 agosto 1879. Nelle vicinanze di Carini, giorni orsono, un certo Grillo voleva assassinare una intera famiglia pel solo gusto di possedere un fondo, che senza quella famiglia gli avrebbe appartenuto. Andò verso sera a trovare questa famiglia, composta dal marito, la moglie ed un figlio, e ridendo e scherzando, con un pretesto (non so quale) ridusse il marito, che si chiamava Addoli, a calarsi in un pozzo abbastanza profondo e pieno d’acqua.
Quando vide che l’Addoli era in istato da non poter reagire afferrò velocemente la moglie e la gettò sopra il marito, e poi fece lo stesso del ragazzino. Fortunatamente passavano in quel momento due giovanotti contadini, i quali, udite le grida delle vittime, soccorsero, liberarono i tre bagnanti… forzati, che stavano attaccati a fior d’acqua alla pompa del pozzo, e così furono salvi. Quanto a quella jena di Grillo, non gli restò di meglio a fare che darsi alla latitanza. Ma chissà se troverà una tana da nascondersi! Indovinala… grillo.
5 marzo 1894. Giorni addietro partivano da Girgenti su un carro guidato da Restivo Vincenzo per andare a Palma Montechiaro, l’avv. Domenico Damiani, Giovanni Petroni, Fiorentino Anna e Scichilone Giuseppa. Vicino la sulfara Croca furono fermati da cinque malfattori avvolti negli scapolari, col viso bendato da fazzoletti e armati fino ai denti, imponendo il sacramentale faccia a terra.
I poveretti, onde scampare da sicura morte, dovettero scendere dal carro e ubbidire alle lugiunzioni dei feroci grassatori, i quali rubarono al carrettiere L.60 e al Damiani il portafogli. Ed ancora l’altra notte presso Favara alcuni malfattori strangolarono il povero vecchio Milioto Calogero di anni 77, pastore, il quale trovavasi in una madra, vicino al paese, a guardia delle sue capre. Per finire di notte tempo presso Sant’Angelo Muxaro, in contrada Silvestre, alcuni malfattori, per spirito di vendetta uccidevano a colpi d’arma da fuoco una mezza dozzina di buoi ferendone gravemente altrettanti.
5 gennaio 1908. Ecco la fortuna toccata il 2 corrente all’ingegnere Vincenzo Maira di Girgenti, il quale nel mese di dicembre p.p. trovandosi alla sede della Banca d’Italia di quella città la acquistò della cartella n.196785 del Prestito a Premi Cassa Nazionale di Previdenza Società Dante Alighieri, convenendo di pagarne l’importo relativo di Lire 120, in tante rate mensili da lire una.
Il 2 gennaio 1908 ebbe luogo la 6.a estrazione ed il 1.o premio di L. 100.000 è toccato al numero 196785, e siccome è convenuto che anche le cartelle a rate mensili di L.1, dànno diritto a concorrere subito a premi, il detto ingegnere si è trovato fortunato vincitore di L. 100.000 importo del 1.o premio che colla sua solita regolarità la Direzione della Banca d’Italia ha subito messo a disposizione presso quella sede di Girgenti.
E’ con questa facilitazione la Banca d’Italia ha reso possibile a tutte le borse di poter concorrere ai vistosi premi di quel Prestito senza alcuna perdita, poichè, come è noto, tutte le Cartelle non premiate, sono rimborsate. Le Cartelle vengono di nuovo messe in vendita dalla Banca d’Italia, e sarà continuata la concessione di acquistare a rate, concorrendo subito anche ai premi numerosi di quest’anno fra i quali verranno sorteggiati quelli di 50.000 lire e di lire 125.000 lire. Molta è già la ricerca di queste cartelle, perchè tutti amano tentare la sorte, senza alcun sacrificio.
Ottava puntata del nostro viaggio nel tempo nella Girgenti di fine ottocento e inizi del novecento. Oggi soffermiamo la nostra attenzione su alcuni fatti accaduti tra il 1871 e il 1895 tra Girgenti e Raffadali. Corna, gelosie e tentati omicidi per una storia d’amore di quei tempi, ilarità e sfottò per una lettera di un “forense” agrigentino ad un direttore di un giornale, poi episodi di brigantaggio, una vera iattura per l’epoca e un suicidio di un sindaco di Raffadali. I testi seguenti sono, come sempre, fedelmente riprodotti da giornali d’epoca. Buona lettura.
Girgenti, 7 marzo 1895. Calogero Grimaldi, bettoliere, sospettando che la moglie Michela Falsone avesse relazioni troppo intime con Grassia Sala, impiegato al dazio consumo, l’abbandonò lasciandole tutto quanto egli possedeva. Ma l’abbandono non servì che a rendere più liberi i due amanti, i quali strinsero vieppiù le loro relazioni, malgrado che anche il Sala avesse moglie. Il giorno 20 del decorso febbraio il Grimaldi seppe che Sala aveva passata la notte in casa Falsone e che ancora vi si trovava; allo scopo di costituire la prova dell’adulterio il Grimaldi si diede a far chiasso tanto da far riunire una folla di gente al cui cospetto il Sala dovette uscire dalla casa dell’amante. Il poco fortunato marito si limitò a porgere querela di adulterio; ma gli adulteri, noncuranti della querela, non cessarono dalla tresca. Il Grimaldi, non potendo più raffrenare la gelosia, ieri sera, avuto un alterco vivace colla moglie, le esplose contro un colpo di rivoltella. La Falsone restò ferita al petto, ma guarirà presto. Essa non è bella, nè giovane;conta 22 anni di matrimonio.
Girgenti, 27 agosto 1895. …omissis….Il Tribunale innanzi cui si discusse la causa pochi giorni addietro, non trovò provato l’adulterio, e Grimaldi rimase colle corna e con un palmo di naso. Addolorato dall’assoluzione, Grimaldi, vista la moglie avanti la porta di casa sua, le esplose contro vari colpi di rivoltella e la ferì all’inguine. Si trovava in casa della Falzone, che ha una rivendita di vino, il Sala, che vista la ferita della sua bella, che invece è nè bella, nè giovane, esplose a sua volta vari colpi di rivoltella contro Grimaldi e gli fratturò l’osso del braccio. Sala ha moglie e figli;anche i coniugi Grimaldi-Falzone hanno figli.
Girgenti. 1 settembre 1871. Il 5 corr. mese, presso il ministero dei lavori pubblici si procederà al definitivo appalto della costruzione del tronco delle ferrovie Calabro-Sicule (diramazione Girgenti) compreso fra la stazione di Girgenti e quella delle Caldare, della lunghezza di m. 9419,19, e ciò in diminuizione della somma di L.1,289,814,24 così ridotta pel ribasso ottenuto nel primo esperimento fatto il 1° agosto.
Girgenti. 31 gennaio 1890. Lettera spedita al direttore. La vita che si vive. Mi viene recapitato un opuscoletto di Luca Gallo di Girgenti col titolo: “Attentato al diritto acquisito dai forensi in Italia” che è una bellezza. Il signor Gallo Luca (amo chiamarlo così piuttosto che Luca Gallo, è questione di gusti) fa una sfuriata contro gli avvocati, perchè questi hanno l’ingenua pretensione di avocare a sè tutte le cause a danno dei forensi. Credo che per forense il signor Luca intenda quello che noi chiamiamo avvocato di muraglia o paglietta, i quali non sono avvocati che praticano il Foro. Il signor Luca, che non è certo evangelista, fa una specie di prefazione che è un modello. Sentite: Signori Colleghi, queste poche parole emesse dal mio debole concetto che, troveranno in voi l’appoggio e la collaborazione di esse nel far valere avanti il Governo per la legge che andrà a discutersi sul riordinamento giudiziario ed abolimento dei Forensi per l’ingorda pretensione degli Avvocati”.
Se il signor Luca adopera una lingua simile nel foro agrigentino, m’immagino il buon umore del pubblico e dei magistrati. Ma ciò che è una vera bellezza oltre la lingua è la logica che il signor Luca sfoggia. Abbiatene un esempio e poi ditemi se vale proprio la pena che unno studi e spenda tempo e denaro per diventare avvocato.
“Gli avvocati o procuratori sostengono che meglio di loro nessuno potrà fare gli interessi della parte litigante di fronte al magistrato. Ebbene ciò dato abbiamo questo fatto: Una persona in lite è costretta a ricorrere da un avvocato per essere garantita nei suoi interessi: tale è il ragionamento dei signori avvocati, che sotto il pretesto di fare gli interessi della parte fanno invece implicitamente gl’interessi propri. Ecco perchè: X attore, è costretto a farsi rappresentare da un avvocato, e di conseguenza Y da un altro. Qualunuqe sia l’esito della causa, dato un avvocato più intrigante dell’altro quello ch’è certo si è che uno dovrà perdere in prima istanza, potrà vincere in seconda e finire col perdere, vedendo annullata la sentenza in Cassazione. Ecco che oltre agli onorari vistosi, spese di lusso, perdita di tempo, una delle parti ha dovuto perdere pur le spese giudiziarie”
Da questo brano s’impara che un forense, per esempio di Girgenti, ha l’abilità di far guadagnare una causa… a tutte e due le parti contendenti. Che bella cosa! Non c’è barba di avvocato che sia capace di tanto… Dopo aver dimostrato che i forensi hanno un diritto acquisito o che la legge non ha effetto retroattivo il sig. Luca esclama: “la legge nasce con sè, ed ognuno è obbligato a seguirla nello stato in cui si trova, senza che altri diritti si possano pretendere”.
Per me l’affare della legge che nasce con sè francamente mi ha disorientato e non so più che cosa rispondermi quando mi domando se io nacqui con me! Dio mio! pensate: se con me non…fossi nato io! Mi viene da piangere pensando a questo dubbio, ecco.
Girgenti, 15 novembre 1893. Il tragico suicidio di un sindaco. Il notaio Luigi Diana, sindaco di Raffadali, teneva qui in collegio due figliuolette, delle quali la minore compì oggi sei anni. Ieri sera egli venne da Raffadali in Girgenti allo scopo di fare un pò di festa alla sua bambina pel di lei compleanno. Oggi si recò una prima volta a visitare le figlie nel collegio e portò loro alcuni dolci; vi tornò una seconda volta e sentito che quella era l’ora del pranzo non volle disturbarle; vi tornò una terza volta e chiamate le fanciulle si trattenne alquanto con esse;dopo averle ripetutamente baciate le accommiatò. Ma esse erano appena uscite dalla stanza quando l’infelice, stando ancora seduto sul divano nello stesso posto in cui aveva baciato le figlie, estratta una piccola rivoltella tascabile, se ne esplose un colpo all’orecchio. Le fanciulle alla detonazione ritornarono immediatamente sui loro passi e trovarono il padre già cadavere. Povere fanciulle! Il povero Diana contava circa 40 anni; era un bell’uomo, di figura piuttosto simpatica. Si ignora la causa che lo determinò al suicidio.
Girgenti. 20 novembre 1893. Ieri giunse a Raffadali il signor Giuseppe D’Anna, il quale è riuscito a sfuggire ai briganti dopo tre settimane di sequestro. Il D’Anna raccontò che i briganti lo avevano trasportato in una grotta, dove lo avevano tenuto rinchiuso, digiuno. Gli avevano bendato gli occhi. perchè ignorasse la via che menava alla grotta. Sempre bendato, il D’Anna venne quindi trasportato in un’altra grotta dov’erano solito riunirsi i briganti. Le piogge fortissime di lunedì sera furono la sua salvezza. L’acqua aveva invaso le due grotte e minacciava di allagarle completamente. I due briganti che facevano abitualmente la guardia al D’Anna pensarono allora di allontanarsi per qualche poco, perchè l’acqua non li raggiungesse fino alla gola. Fu questo il momento difficile. Nella grotta non si udiva il benchè minimo rumore: di sopra solo l’acqua cadeva a grandi scrosci. il D’Anna si scosse pian piano; poi, quando più cautamente potette, si strappò la benda dagli occhi.
Girò attorno lo sguardo, tutto era buio. I briganti certamente dovevano essere di fuori. L’acqua intanto gli era cresciuta fino alle spalle: un altro poco e sarebbe morto affogato. Pensò subito allo scampo. Tutto bagnato com’era uscì dalla grotta e prese la china del monte. L’oscurità lo proteggeva. Finalmente, scorta una macchia bianca, le si avvicinò, e chiese asilo ad alcuni pecorai presso dei quali passò, in preda a una grande paura, la notte. Il dì seguente completò la via fino a Raffadali, passando il Platani, e giungendo alla propria casa. La famiglia, se lo vide comparire dinanzi quando meno se l’aspettava. I briganti avevano chiesto pel suo rilascio L. 40.000.
Nona puntata del nostro appuntamento periodico con la storia di Girgenti di fine ottocento. Pezzi di articoli tratti da giornali dell’epoca molto graditi dai lettori che ci invitano a continuare con questa rubrica. Oggi pubblichiamo alcuni fatti di cronaca accaduti tra il 1894 e il 1900 a Girgenti, Realmonte, Casteltermini, Porto Empedocle e Ravanusa. Buona lettura.
Girgenti, 6 novembre 1894. Presso Favara il ricco industriale Michele Favara (?) mentre tornava da Girgenti fu aggredito da due briganti che, dopo avergli tolto il fucile Vetterly, di cui era armato, lo derubarono di L. 4.200; presso Burgio altri briganti assalirono un conduttore postale che andava da Bivona a Burgio derubandolo di tutta la corrispondenza che portava, fra cui alcune lettere raccomandate.
Realmonte. 6 settembre 1895. A Realmonte piccolo Comune della provincia di Girgenti, dove i contadini di notte andarono ad accampare sull’ex feudo Fauma a suon di brogne e di tamburi, si sono recati il prefetto di Girgenti, comm. Anarratone, l’intendente di finanza e il direttore dell’Ufficio tecnico di finanza. Alla loro presenza si riunì il Consiglio comunale e si aprì la discussione sul modo come contentare la popolazione colla quotizzazione delle terre demaniali dell’ex-feudo Fauma. Dopo molto discutere, si deliberò, che non potendomi ora concedere ad enfiteusi economica le terre, ostando la legge che prescrive l’enfiteusi al calore dell’asta, si dessero in gabella per un periodo di cinque anni a quelli che sarebbero stati prescelti per estrazione a sorte. Nella lista dei concorrenti saranno messi i veri poveri e meno abbienti del paese. Il Consiglio approvò l’ordine del giorno formulato dal ff. sindaco nel senso che il Municipio garantirà la gabella e principerierà i lavori per formare la nota dei concorrenti.
Prima di sciogliersi approvò un voto di ringraziamento al prefetto per suo interessamento a favore di quel Comune. L’intera popolazione accompagnò il prefetto acclamandolo sin fuori l’abitato. Il comm. Anarratone ringraziò con belle parole promettendo di cooperare alla pacificazione e concordia di tutti i Comuni della sua provincia. Si spedirono in fine telegrammi a Crispi e al ministro delle finanze. La popolazione lieta e soddisfatta della felice votazione dell’importante questione, si sciolse plaudendo all’opera assidua e disinteressata delle Autorità.
Girgenti, 6 febbraio 1896. Ancora l’assassinio dell’ingegnere Giammusso e del suo compagno. La salma dell’ingegnere barbaramente trucidato nei pressi di Favara, è stata trasportata a Caltanissetta per volere della famiglia. Il marchese d’Avola, proprietario della zolfara Lucia e di cui il povero Giammusso era direttore, ha disposto che i funerali sian fatti a spese della Amministrazione. Gli autori dell’assassinio sono stati scoperti. Nella zolfara Lucia erano avvenuti dei disordini e il direttore Giammusso licenziò i provocatori, gente pregiudicata e pericolosa, che per vendicarsi lo uccisero.
Casteltermini. 24 settembre 1897. Disastro minerario. Le ultime notizie ricevute da Casteltermini sul disatro della miniera Frate Paolo, annunziano che fino a iersera alle ore 22:30 furono estratti da cantieri più prossimi tre morti e tre feriti. Gli altri 35 operai circa, lavoranti nel cantiere più profondo sono rimasti coperti da circa 30 metri di macerie, sicchè la loro perdita si considera ormai inevitabile. Continua il movimento della miniera. L’ingegnere del distretto minerario di Caltanissetta ed il capitano dei carabinieri di Casteltermini recaronsi stamane col primo treno sul posto del disastro, con rinforzi. Intanto trovansi già sopra luogo ingegneri civili con squadre di operai, abili medici con medicina ed altri conforti.
25 settembre 1897. Aggiornamenti. Si ha che dalle mine della miniera fu estratto un altro cadavere riconosciuto per quello di Scaglia Ciro, tredicenne, da Cattolica Eraclea. Le vittime sarebbero: 8 di Cattolica, 15 di Casteltermini, 9 di Campofranco, 1 di Racalmuto e 2 di Lercara e di Palermo. Rimarrebbero ancora 24 operai sepolti sotto le macerie. Il governo ha messo a disposizione del prefetto di Girgenti lire tremila per sussidi alle famiglie dei colpiti.
Porto Empedocle, 15 maggio 1900. Disordini a Porto Empedocle per l’acqua. Una tumultuosa dimostrazione avvenne ieri sera a Porto Empedocle, in provincia di Girgenti. Cinquecento popolani, irritati, per la deficienza dell’acqua, riunitisi sulla piazza, percorsero le vie principali gridando: “Abbasso il Municipio! vogliamo l’Acqua! Passando vicino al Circolo Civile, lo invasero come tante furie, devastando le sale, rompendo i vetri e i mobili. Fortunatamente ad impedire nuovi gravi eccessi accorse subito la truppa, che intimò alla folla di sciogliersi. I popolano risposero con una fitta sassaiuola, che fortunatamente non ferì alcuno. la truppa allora fece gli squilli regolamentari disperdendo i dimostranti. Furono arrestati sei popolani, ritenuti promotori e caporioni della dimostrazione. La calma fu subito ristabilita.
Ravanusa. 2 settembre 1900. Nel comune di Ravanusa in provincia di Girgenti si arrestò Calogero Turco, possessore di una lettera proveniente da Valguarnera in cui si diceva che i compagni avendolo prescelto per attentare alla vita del Re, gli imponevano di partire subito per Roma. Addosso al Turco si rinvenne però un’altra lettera diretta al “Signor Sua Maestà” in cui il Turco si scagionava dell’accusa di anarchico, professandosi anzi un fervente monarchico. Si tratta evidentemente o di qualche pazzo oppure di uno scherzo di cattivo genere.
Dopo circa un mese di pausa, a grande richiesta torniamo con la decima puntata della nostra rubrica dedicata alla Agrigento, o Girgenti, di cento (o anche di più) anni fa. Ai lettori affezionati alla rubrica diciamo che non è possibile pubblicare spesso fatti e misfatti di quegli anni perchè il compito di ricerca è alquanto dispendioso in fatto di tempo. Ad ogni modo faremo del nostro meglio e chiederemo alle biblioteche di fornici quanto più materiale possibile per la pubblicazione che promettiamo di “digitare” in breve tempo. Oggi vi parliamo di un fatto curioso accaduto a Cattolica Eraclea il 12 agosto del 1910 come sempre tratto da giornali dell’epoca e riportati fedelmente così come erano stati scritti in quegli anni. Buona lettura.
12 agosto 1910. Cattolica Eraclea.
Decisamente, le men note cittaduzze della Sicilia vanno a gara tra loro per conquistare il record della celebrità. Ieri era Ramacca in provincia di Catania, la quale si immortalava con le gesta del nuovo capitano di Koepenik: oggi è Cattolica Eraclea, in provincia di Girgenti, che fa parlare di sé pel merito di un parroco e di un delegato di pubblica sicurezza.
Il fatto, in verità, è di minuscole proporzioni; ma così caratteristico, così pieno di color locale, da meritare l’attenzione del pubblico e mettere un po’ in vista la piccola città che ne è stata teatro. La cosa ha già avuto la sua ripercussione in Roma, nel cuore del Governo, il quale ha dovuto provvedere al trasloco precipitoso di un troppo zelante commissario di P.S. Ed ha dovuto minacciare di severi provvedimenti un troppo originale sacerdote. SI tratta del parroco Giovanni Amato e del funzionario Carmelo Macheronio: l’avvenimento si è svolto in chiesa.
Don Giovanni Amato è un prete dai sistemi e dalle risorse eccezionali: i fedeli di Cattolica Eraclea lo hanno sempre temuto e rispettato. Con lui non si scherza. In chiesa, quando c’è Don Amato, non si osa il minimo bisbiglio, non si abbozzano sorrisi, non è possibile movimento. Chi non crede non ci vada. Chi entra in chiesa deve starci a dovere, con devozione esemplare, con rigidità. Un buon parroco dunque. Ma ciò che più lo distingue da tutti i suoi colleghi di questo mondo è un pugno. Anzi, una serie di pugni vigorosi battuti sull’altare e sul pergamo a seconda che don Amato in quel momento, officia od assiste alla Messa, per segnalare ai fedeli il momento dell’elevazione o sanctus. Egli non vuole assolutamente, che ci si inginocchi, né tanto meno che si resti comodamente seduti alloquando il sacerdote officiante innalza il calice e si comunica: tutti, tutti indistintamente devono saltare in piedi come altrettanti soldati in bell’ordine schierati. Ed invece di far suonare il campanello come generalmente si usa, don Amato è uso a tirare un pugno formidabile il quale non ammette discussione di sorta. E’ appunto tale sistema originale, prevalente nella parrocchia di Cattolica Eraclea, che ha provocato il fatto singolarissimo intorno al quale è nato gran rumore anche a Palermo. Alcuni giovani studenti, in vacanza, ne sono stati la causa involontaria e innocente.
Siamo alla Messa. Don Giovanni Amato è al suo posto di comando: sul pergamo, mentre un altro sacerdote officia all’altare: numerosi fedeli, ormai avvisati, attendono il pugno del parroco per scattare in piedi. Senonchè, ieri, nella parrocchia di Cattolica Eraclea non v’era il solito pubblico di devoti iniziati agli strani sistemi del prete originale; ma assisteva alla Messa anche un gruppo di studenti tornati al paese per le ordinarie vacanze estive. O che essi non conoscessero l’abitudine del parroco, o che volessero osteggiarlo, disubbidendo apertamente all’ordine imperioso significato co’ pugno in sul pergamo, fatto sta che al momento della elevazione il gruppetto di quei giovani, rimase seduto sulla panca, quietamente, tra i fedeli balzati in piedi. Non lo avessero mai fatto! Don Amato andò su tutte le furie: ripetè inutilmente la lotta, uscì in severi ordini ad alta voce: richiamò all’ordine i giovani… miscredenti; imprecò; corse fuor dalla Chiesa a chiamare la forza. Essa venne in fretta in fretta nella persona dello zelante commissario di P.S. Carmelo Macheronio il quale si diresse intrepido verso il gruppo dei “seduti” e procedette energicamente contro il primo capitatogli sotto mano: il ragioniere Vasile, insegnante a Marsala, il quale si trovava in mezzo ai malcapitati studenti. Lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé, sospinse i suoi… complici fuor dalla panche, si mise a gridare come un ossesso: “Vadano fuori, se non hanno religione! Escano, se non vogliono alzarsi!”.
Inutile dire che i fedeli fecero subito coro all’imposizione del commissario: “Fuori! Fuori! Alla porta!”
E il gruppo degli studenti e lo stesso ragioniere pel primo acciuffato furono spinti-, in men che non si dica, fuor dalla Chiesa, tra un clamore assordante in chiesa e in piazza.
Ma l’incidente si complicò ancora per via dell’intervento di un magistrato: il giudice Cannella., presente alla stranissima scena. Egli credette di intervenire per mettere un po’ di ordine e rivolse alcune osservazioni all’inferocito commissario che continuava a sospingere i malcapitati.
Tra l’altro, gli fece osservare che il suo modo di procedere era illegale, inopportuno, ingiustificato.Davvero? Il delegato inveì allora contro il magistrato, non riconoscendo la sua autorità, non solo, ma lo minacciò di arresto se non taceva! Intanto il parroco non stava inoperoso: dal pergamo incitava il delegato a cacciare fuori i miscredenti, e rivoltosi ai fedeli gridò loro: “Buttateli fuori! Offendono il culto!”.
La folla divenne tumultuosa, si elevarono grida minacciose: “Uscite! Fuori i massoni! Ammazzateli!“.
I giovani, a stento si sottraggono al furore popolare, scappano, si rifugiano nella vicina pretura ove presentano querela contro il delegato e il parroco. Quindi spediscono telegrammi al prefetto di Girgenti e al ministro dell’Interno i quali immediatamente, han disposto, l’allontanamento del delegato, destinandolo all’isola di Lampedusa. Intanto è arrivato un altro commissario di P.S. Il quale ha avvertito il parroco di smetterla con i suoi sistemi autocratici, altrimenti al primo incidente, egli sarà arrestato e processato.
Per la undicesima puntata di “Cara Girgenti mia” facciamo un lunghissimo viaggio a ritroso nel tempo, e lasciamo, per una volta, i fatti e le vicende della fine dell’ottocento e gli inizi del novecento ad Agrigento che hanno caratterizzato la serie precedente di articoli della nostra seguita rubrica, per avventurarci, grazie ad una accurata ricerca storica curata dal dottor Antonio Fragapane, studioso ed appassionato di storia antica ed in particolar modo per quella che riguarda Agrigento e provincia, nella Girgenti medioevale con una storia vera accaduta nel 1220. La vicenda parte con una piccola appendice del 1130 in piena epoca di dominazione normanna con Ruggero II. Buona lettura.
Questa è una storia realmente accaduta, svoltasi in tempi lontani. Tempi nei quali gli uomini erano spesso in lotta tra loro, in lotta per un pezzo di terra, a volte anche solo per un pezzo di pane. Erano tempi oggi considerati bui, pericolosi e di barbarie. L’intero mondo, almeno quello sino ad allora noto, stava conoscendo una fase di contrasti ed intrighi, ma allo stesso tempo si stavano schiudendo anni di rinascita, non solo culturale ed artistica, in una terra, la nostra Sicilia, da sempre al centro di interessi umani vigorosi e sanguigni.
Siamo nella Sicilia del XIII secolo, esattamente nell’anno del signore 1220. Il luogo di cui si sta scrivendo è il monte Guastanella (conosciuto anche come monte Guastitel o Gastaiel), situato tra i comuni collinari di Raffadali e Santa Elisabetta, poco lontano da Agrigento, ed i fatti che si vogliono qui narrare sono connessi, essendo in parte lì avvenuti, col castello che su Guastanella si ergeva. Qui, in una fortificazione che ormai esiste solo nelle sue fondamenta, è stato tenuto prigioniero Ursone, vescovo di Agrigento.
Ma facciamo un passo indietro.
L’anno 1130 rappresenta per la nostra isola la data d’inizio ufficiale della dominazione normanna, instaurata da re Ruggero II, la quale, contestualmente, segna la fine del dominio arabo nell’isola, che durava dal IX secolo. Un particolare riferimento va doverosamente fatto ai tre secoli di dominazione musulmana, che hanno rappresentato per la Sicilia una fondamentale occasione di reale sviluppo: molte, infatti, sono state le influenze nella cultura, nell’arte, nella società e nell’economia che i saraceni hanno lasciato alla nostra terra. Tante città durante questo periodo sono state costruite, abbellite e rese più vivibili e sicure di quanto non lo fossero prima.
Grazie alle numerose scuole e biblioteche aperte e funzionanti nell’isola, ricominciarono a circolare le più importanti opere degli autori latini classici, le prime traduzioni in latino delle opere di Aristotele, frutto del lavoro esegetico di molti importanti intellettuali arabi, tra i quali il celebre Averroè, e di tanti altri autori classici greci, all’epoca sconosciuti o dimenticati a causa della precedente tradizione orale. Inoltre, si posero le basi per grandi commerci che resero l’isola un’immensa area di scambio, tramite la quale si crearono innumerevoli mercati che indubbiamente hanno arricchito il patrimonio della nostra terra (tanto che ancora oggi beneficiamo di alcune prelibatezze che gli arabi importarono da noi in quel periodo, dallo zibibbo, o moscato d’Alessandria, ai canditi fino ai vermicelli).
Dunque, sicuramente un periodo florido, di luce e di rinascita, dopo secoli difficili e problematici. Ovviamente, però, tale periodo, come in un’ideale medaglia dalle due facce, è stato anch’esso contrassegnato da scontri e dissidi fra le varie parti politiche e militari presenti in Sicilia, e non per i soliti motivi attribuibili alla diversità di religione o di fede, ma per altri, ben più secolari ed umani: la ricchezza economica ed il potere da esercitare sul popolo.
Ma approfondendo ulteriormente l’argomento, appare opportuno portare a conoscenza dei lettori una circostanza significativa che caratterizzò quell’epoca: i siciliani assoggettati al dominio musulmano, non solo non furono mai obbligati a rinnegare la loro fede o a convertirsi contro la loro volontà all’islam, ma non furono neanche mai assoggettati al diritto musulmano, poiché non essendo di fede islamica non avrebbero potuto essere destinatari di nessuna norma coranica, ma solamente di precetti normativi esistenti all’interno del sistema dello ius commune, di diretta derivazione romanistica ed allora vigente in tutta Europa. Sembra quasi che in un periodo della storia siciliana legato al lontano passato di cui sinora si è scritto, possa trovarsi un insegnamento per le attuali generazioni, historia magistra vitae: la constatazione che più di mille anni fa, nella nostra terra, cristiani e musulmani convivevano ed interagivano tra loro pacificamente, integrandosi, quindi, nel migliore dei modi possibili. A riprova di come il medioevo ingiustamente sia considerato unicamente un periodo cupo e di arretratezza, presentando, al contrario, esempi di modernità e tolleranza che oggi appaiono, purtroppo, improbabili ma tali da essere fortemente auspicabili.
Come poco sopra scritto, invece, con l’avvento di re Ruggero II ebbe inizio la dominazione normanna, la quale, sorta sotto l’egida di una dinastia da sempre abituata a farsi valere con le armi e gli eserciti piuttosto che con la diplomazia e l’acume politico, costituì il Regnum Siciliae, che all’inizio prosperò, in una sorta di continuum ideale col periodo arabo, ma che dopo qualche decennio evidenziò tutti i suoi limiti, determinati da lotte dinastiche e fratricide. Nel giro di pochi anni la Sicilia normanna degenerò nell’anarchia più totale, tanto che apparse “difficil che i cristiani si trattengano dall’opprimere i saraceni, e che questi, diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in armi, e non prendano qua un castello su la marina, là una rocca tra i monti”.
Fu così che cominciarono scontri e conflitti sempre più duri e cruenti tra le popolazioni che allora abitavano l’isola, che capi o condottieri di parte aizzavano l’una contro l’altra. I saraceni, in minoranza, furono perseguitati e costretti a riparare tra le montagne dell’entroterra siculo, trasformato in un vero e proprio baluardo musulmano all’interno dell’isola. Dal canto loro, gli stessi saraceni colsero ogni occasione per sferrare duri colpi ai dominanti normanni prima ed a quelli svevi poi, utilizzando tecniche militari frutto della loro esperienza, ed occupando fortezze, castelli ed anche luoghi sacri ai cristiani.
Ed è in un tale contesto storico, caratterizzato anche dall’avvicendamento politico della dominazione sveva su quella normanna, che si inserisce la vicenda dalla quale ha origine questo scritto. Il vescovo Ursone, durante la sua esperienza ecclesiastica a capo della chiesa agrigentina, prima del suo rapimento fu oggetto di duri attacchi politici, essendo stato allontanato dapprima dall’imperatore Enrico VI, in quanto ritenuto figlio del rivale Tancredi, successivamente poiché non prestò giuramento a Guglielmo Capparono, allora signore di Agrigento, ed infine dai saraceni, che in lui videro l’autorità ideale contro la quale indirizzare i loro attacchi. Fu a causa di questa instabilità della chiesa locale, che la stessa fu privata dei suoi benefici e dei suoi possedimenti, culminando tutto con l’occupazione del campanile e del duomo agrigentino, sede, appunto, della cattedra vescovile.
La situazione che si creò fu talmente drammatica che per un periodo non ci furono più battesimi da parte dei cristiani, e gli abitanti dei territori agrigentini non si recarono più per lungo tempo nemmeno nei campi per coltivarli e lavorarli. Il vescovo Ursone , subito dopo essere stato rapito, fu tenuto prigioniero, come riferito all’inizio, nel castello che allora si ergeva sulla sommità del monte Guastanella: una fortezza edificata molto probabilmente in epoca bizantina, ma la cui origine, sulla base di alcune suggestive ma non dimostrate teorie, è fatta risalire addirittura all’epoca punico-cartaginese. Fu certamente progettata e costruita in modo tale da poter essere arroccata sulla sommità del monte, risultando nel contempo facilmente difendibile, difficilmente espugnabile e dominante dall’alto un territorio che si estendeva dal casale di Rahal-faddal, in arabo “casale eccellente”(ovvero il feudo di Raffadali), passando per il fondo detto “Cometa” (l’attuale paese di Santa Elisabetta) fino alle pendici della rocca di Sant’Angelo Muxaro, ovvero parte dell’antica “via sicana”.
Per questi territori quel periodo fu contrassegnato da mesi di paure e scontri tra militari svevi e ribelli musulmani. Si persero i ricordi dei precedenti periodi di pace e di prospera convivenza. Le vallate furono attraversate da ondate di saccheggi, e gli stessi uomini che prima si consideravano amici ed alleati rapidamente cominciarono a combattersi gli uni contro gli altri. Fu in un tale contesto storico che la prigionia dell’alto prelato cristiano si protrasse per quattordici lunghi mesi, terminando, dopo tante ed estenuanti trattative che videro protagonisti influenti uomini politici ed ecclesiastici del tempo, con il pagamento di una somma di cinquemila tarì d’oro, versata a titolo di riscatto, nel contempo ponendo fine ad un episodio della storia siciliana di particolare gravità e complessità, denso di conseguenze storiche e sociali, ed anche monito sulla pericolosità della degenerazione che il potere politico-militare può in ogni momento subire.
Si deve al verificarsi di tali eventi, il ritrovare nelle cronache siciliane dell’epoca, testimone della vicenda appena raccontata, una fortezza allora comune a tante altre, ma che oggi, non esistendo più nella sua interezza, rievoca, con le sue malinconiche fondazioni e con le sole stanze rimaste scavate nella pietra, tempi remoti, uomini lontani, conflitti antichi ed echi di un passato che, ad osservarlo meglio oggi, non sembra poi così tanto diverso dal nostro presente.
Antonio Fragapane
odicesima puntata di “Cara Girgenti Mia”, la rubrica sulla storia della nostra città a cura de L’Altra Agrigento che pubblica articoli ed inchieste tratte dai giornali di fine ottocento e inizi del novecento. Oggi ci fermiamo al 1925 con un articolo che parla di mafia a Girgenti in quegli anni di fascismo e come, secondo il Governo dell’epoca, si riuscì a debellare questo cancro che ancor oggi, purtroppo infesta la nostra provincia. L’articolo è una disamina che parte dalla nascita della “maffia” (solo successivamente fu chiamata “mafia”), fino alla celebrazione di una presunta vittoria in realtà mai arrivata. Buona lettura.
Un comunicato Stefani dice che in questi giorni, dopo la cattura dell’ultima banda che infestava la provincia di Girgenti — la famosa banda Sacco — sono pervenute attestazioni di simpatia al prefetto Mori, per l’energica azione a lui affidata dal Governo fascista, per la liberazione delle piaghe rurali della Sicilia, ancora infestate dalla delinquenza attuale. « Speciale significazione — contìnua il comunicato — ha avuto la manifestazione unanime di consenso al nuovo indirizzo di propaganda, destinato a coronare l’opera di risanamento, oltre che per l’azione repressiva, che ha dato già i migliori fratti.
I mezzi per la propaganda educativa finora esplorati, mediante premi in natura e doni consegnati personalmente a « campieri » e soprastanti meritevoli, hanno fatto buona impressione. Recentemente è stato bandito un concorso a premi, di lire settemila, per la pubblicazione di un libro che, considerando i fenomeni della mafia e dell’omertà, venga a provare per le nuove generazioni una speciale valutazione dei rapporti che debbono intercedere tra individui e ordinamento sociale.
Cosi il Governo fascista — conclude la Stefani — con l’azione costante e coraggiosa svolta sotto la direzione del prefetto Mori, ha effettuato in gran parte le direttive solennemente annunciate dal Duce nel suo viaggio In Sicilia ».
Origini e degenerazione
L’argomento — la mafia — è dunque d’attualità: sicché è luogo a discorrerne, pur dopo il molto, e specie in questi ultimi anni, che se ne è detto e scritto, nell’isola e nel continente. E può essere opportuno ricordare che la parola mafia derivò già dal francese “mauffe”, che significa, come ognun sa, grazia, bellezza, attraenza in genere.
Con questo significato venne, in tèmpo remoto, in uso in Sicilia. Ma per acquistarne, in prosieguo dì tempo, un altro, più preciso, e diciamo più vigoroso: di forza, coraggio, superiorità, cavallina. Le origini di quésto mutamento di significato della parola si possono riconoscere intorno al 1830-40: quando una polizia corrotta — la polizia borbonica — arruolata tra gente di pessimo affare, che compiva ogni sorta di sopraffazioni e persecuzioni, cominciò a creare nell’animo dei rurali siciliani una sfiducia assoluta per la giustizia e la legge. Allora, ogni uomo che sapesse farsi giustizia da sè era “mafiusu”: cioè forte, coraggioso.
E indi ebbe origine la « mafia » -, associazione d’uomini che si facevano giustizia da sè, rifuggendo da ogni contatto con le autorità, di cui avevano una ripugnanza assoluta, e del resto perfettamente giustificata. La mafia nacque dunque, rileviamo, con caratteri di certa nobiltà, di dignità virile, d’indipendenza, di giustizia. In seguito però, e particolarmente dopo costituitosi il Regno d’Italia, dopo il ’61, le tristissime condizioni in cui continuò ad essere abbandonata la P. S. nell’isola, il pessimo reclutamento della polizia, la debolezza cronica, se non pur l’estremo disinteressamento dei vari governi, fecero si che la mafia degenerasse completamente in un’associazione criminosa, con scopi prevalentemente delittuosi.
Nel 1900 il famoso processo Notarbartolo, che destò lauto scandalo pe l’arresto dell’onorevole Palizzolo, noto capo-mafia, dà un’idea di che cosa fosse la polizia nell’Isola, che portava i rapporti dei questori ai capi-mafia, e faceva scomparire verbali e prove compromettenti, diventata complice d’ogni razza di delinquenti. Il defunto on. De Felice Giuffrida nel suo noto volume “Mafia e delinquenza in Sicilia”, per dar un’idea della formazione del corpo di P. S. di quel tempo, cita il seguente episodio: « Un giorno viveva a Palermo un celebre delinquente, capo della mafia, violento, pericoloso e peggio. Il questore che lo sapeva organizzatore e complice di molti delitti, lo chiamò nel suo ufficio e gli disse: — Tu devi entrare nel corpo delle guardie di pubblica sicurezza —.
E gli offri un posto di graduato. L’altro rifiutò. E il questore duro: — Ti accordo otto giorni per riflettere, avvertendoti che hai-tali precedenti, ed io ho tante prove di quello che sei tu, che posso subito mandarti a domicilio coatto — L’altro parlò a Tizio, si raccomandò a Sempronio. Ma il questore duro: — O nelle guardie pubblica sicurezza o a domicilio coatto!— Allora il mafioso scelse una terza via. Aspettò il questore in piena piazza del Palazzo Reale, e pubblicamente lo pugnalò! ».
E i Governi non solo si dimostrarono sempre impotenti; ma anzi più di una volta si servirono, come fu provato, della mafia per loro fini polìtici, o piuttosto elettoralistici. A Catanzaro, molti anni fa, nello svolgimento di un processo in cui erano imputati molti loschi mafiosi, un delegato di P. S., tale Ippolito, richiesto dal presidente perchè la Questura di Palermo, pur conoscendo perfettamente la nessuna moralità degli imputati, avesse loro concesso il permesso di porto d’armi, rispondeva: « Signor presidente, in tempi di elezioni, i prefetti ed i questori rilasciano permessi d’armi e qualunque pregiudicato, purché dichiari di sostenere la candidatura ufficiale ».
In questo stato di cose e di decadenza morale è facile comprendere come la mafia avesse trovato un terreno adatto per la sua vita ed il suo sviluppo. Essa cominciò ad avere presto ingerenza dappertutto. Anche in Parlamento! E divenne potentissima. Un episodio caratteristico, che dimostra come la mafia godesse piena libertà e impunità sino poco tempo fa, alla vigilia stessa che il Governo decidesse d’iniziare la lotta a fondo. L’on. Farinacci, venuto a Palermo In occasione dell’inaugurazione del monumento ai ferrovieri siciliani caduti in guerra, pronunziava, dal balcone del Palazzo di Città, un discorso in cui rivolgeva qualche parola aspra alla mafia.
Ebbene, stillo stesso balcone si trovava ad applaudirlo trn notissimo capo-mafia: il sindaco di Piana dei Greci, cav. Francesco Cuccia, in sciarpa tricolore !… Questi è stato ora imprigionato dal prefetto Mori, e deferito all’autorità giudiziaria per mandato in omicidio ed associazione a delinquere. Era riuscito, da carrettiere che era, a crearsi, con mezzi delittuosi, una posizione di qualche milione.
Omertà e gergo.
Cosi, la mafia di oggi è una vera e propria associazione a delinquere. Le caratteristiche della mafia sono l’omertà e il gergo. Il mafioso, anche quando sa, ha visto e conosciuto, non testimonia mai dinanzi ai giudici, non ammettendo altra legge e altro diritto che quelli che lo vincolano alla mafia, con un’omertà senza limiti.
Dinanzi al giudice egli non riconta niente, non ha visto niente, o testimonia il falso, anche a proprio danno, pur di salvare il compagno mafioso Si hanno persino esempi di mafiosi, imputali di reati commessi da altri, che si sono lasciati condannare a pene severissime, piuttosto che denunziare l’autore vero del reato.
Il mafioso crederebbe di disonorarsi denunziando chicchessia: fosse questi anche un suo avversario, un nemico odiato. E se riceve un’offesa, non ricorre mai alla giustizia.
La giustizia se la farà da sè stesso, nell’ambito della mafia. Se mafiosi si uccidono fra di loro, gli amici dell’ucciso e quelli dell’uccisore, nemici acerrimi, si trovano momentaneamente sùbito riuniti da un pensiero solo: quello di salvare l’assassino dai rigori della legge. Se ferito, il mafioso si guarda bene dal dichiarare il nome del feritore. Pensa che, se vivrà, saprà farsi giustizia de sè. La sua preoccupazione, anche davanti la morte, è soltanto di non diventare “cascittuni”, cioè vigliacco e spia.
E non è detto che nella mafia manchi certa rusticana cavalleria, un concetto, sia pur traviato, dell’onore. Il vero “mafiuso”, qualunque sia l’odio che lo domini, non accoltella mai l’avversario alla sprovvista: lo invita sempre a stare in guardia.
Se in un duello rusticano esso cade, lo rialza; se gli si rompe il coltello, gliene dà un altro, perchè si difenda; se nella tenzone rimane vittima, ed ha combattuto lealmente e coraggiosamente, non se ne va, senza prima averlo baciato in fronte; e quando quegli cade, per le ferite riportate, non infierisce sul caduto.
Il gergo e linguaggio convenzionale dei mafiosi, linguaggio sorto dalla necessità d’intendersi, senza esser compresi da altri. In esso sono assai curiosi i modi di dire. Cosi, per dire « discutete con calma » si dice “sarvativi u cuteddru” — conservatevi il coltello; — per dire di un tale che grida troppo, e non ha il coraggio di esporre la propria pelle: abbaia — abbaja; – due che se ne vanno a ballari — a ballare — vuol dire due che vanno a battersi in duello; “sfilati na quasetta” — sfilare una calza — significa regolare una partita, vendicare un’offesa; per dire che quel tale è serio, di poche parole, capace di farsi Giustizia da se, è uomu — e un uomo.
E la mafia ha anche un alfabeto proprio, molto smile a quello della camorra di Napoli; e se ne serve per comunicare con i propri affiliati incarcerati, e più specialmente per indicare i “cascittuni”— contro i quali organizza una guerra senza quartiere, che termina solamente quando la morte raggiunge il traditore. Delinquenza, favoreggiamento, impunità. Tale la mafia, che godette già impunita e piena libertà d’azione. Per vivere tranquilli bisognava andar d’accordo con essa.
Se si era minacciati bisognava ricorrere ad essa e non alla questura, la quale spesso non poteva garantire e sostenere. La mafia invece garantiva la libertà e la vita. Vi rubavano? La questura si metteva in moto, cercava, investigava; ma non riusciva quasi mai a scoprire nè il corpo del reato ne il reo. Bastava invece rivolgersi a qualcuno della mafia; e questa vi faceva trovare subito la refurtiva, e vi portava dinanzi il ladro, il quale vi chiedeva scusa, e prometteva che non l’avrebbe mai più fatto, sapendovi un… amico.
E’ tipico il caso successo anni fa ad un barone siciliano. Gli era stata rubata una giumenta. Per mezzo della mafia, il famoso brigante Valvo fu condotto in casa del barone; mentre i soldati lo cercavano nelle campagne; e gli disse: * Barone, Si la giumenta è viva, le sarà restituita; se no, le porterò il cuoio». Il barone dovette accontentarsi del cuoio. Sino all’anno scorso, nelle campagne, il proprietario facoltoso, se non si raccomandava a qualcuno dei più temuti mafiosi locali, non era sicuro di raccogliere i prodotti della sua terra, come non era sicuro, recandosi in campagna, di tornare a casa sano e salvo.
Il piccolo proprietario invece, o era associato alla mafia, e nessuno gli torceva un capello; oppure, se credeva di poter fidare della legge, era. costretto a pagare speciali tasse, sui suoi terreni, alla mafia. I proprietari, i ricchi signori, i grandi feudatari erano quelli ohe favorivano indirettamente lo sviluppo e l’incremento della mafia. protezioni. Col chiedere ad essa aiuti e protezioni. Non è dubbio che se essi avessero saputo resistere sin da principio, la mafia, non trovando terreno adatto per la propria esistenza, sarebbe a poco a poco necessariamente scomparsa. Ma come, d’altra parte, resistere, quando la Polizia e l’Autorità politica non erano capace di sostenervi?… Si possono, in proposito, moltiplicare gli esempi interminabilmente.
E l’Istruzione dei processi, tra le autorità politiche che agivano da una parte, e la magistratura che tradiva la giustizia dall’altra, costituivano il più deplorevole e permanente degli scandali.
Citiamo la testimonianza del senatore Morello che sulla Tribuna scriveva: « Nella situazione tragica si trova sempre il magistrato che rende un servigio; il magistrato che chiede al ministro se ha ordini da dargli ; il magistrato che affida al cancelliere la redazione della sentenza; il magistrato che si rivolge a Palazzo Braschi prima che alla Camera di consiglio, che delega poteri e coscienza all’uomo politico e all’uomo d’affari, all’avvocato o al ministro. Un giorno chiesi ad un ex-ministro di Grazia e Giustizia la vera ragione di una certa crisi. « E’ presto detto — mi rispose. — Il mio Presidente del Consiglio mi propose di cambiare tutti gli interrogatori di un processo, d’accordo coll’imputato e col giudice istruttore, ed io non volli… ».
Il prefetto di Girgenti, Mori
Oggi tutto ciò è ben superato. Il prefetto Mori, uomo eccezionalissimo e di gran coraggio, ha colpito senza nessun riguardo alle persone e alle ricchezze, dove si doveva colpire. Profondo conoscitore dell’anima rurale siciliana, ha saputo conquistarla e offrire alle popolazioni quella tranquillità e quel senso di fiducia nella giustizia, che prima mancavano completamente. Oggi la mafia, se non del tutto distrutta, è certamente dispersa. Ed il fatto è nuovo e di capitale importanza nella storia della Sicilia: la repressione, finalmente, di una organizzazione criminosa così potente, che dominò per tanto tempo le condizioni economiche, morali, politiche, sociali dell’isola, segno e fonte inesausta di delinquenza.
pubblicato sul sito web laltraagrigento