All’inizio del ‘400 Lampedusa era appartenuta ai Tornasi, ma probabilmente nessun membro della famiglia, autorizzata dal 1630 ad assumere il titolo di “principi di Lampedusa”, aveva mai messo piede su quella terra sperduta nel Mediterraneo meridionale, di fronte alle coste africane.
Nel 1839 i Tomasi decisero di sbarazzarsi dell’isola, che sino a quel momento aveva dato soltanto il magro frutto della concessione in enfiteusi ad una famiglia di contadini maltesi, i Gatt. Ricorrendo alla velata minaccia di venderla agli inglesi, che l’avrebbero trasformata in una base militare, riuscirono a farla comprare aFerdinando II di Borbone.
Nel 1843 il re inviò il capitano Bernardo Sanvisente a prenderne possesso in suo nome, assieme alle altre isole delle Pelagie, ed a stabilirvi una colonia agricola. Quattro anni dopo, assolto con estremo scrupolo il mandato ricevuto, Sanvisente spedì al sovrano una dettagliatissima relazione sull’opera svolta; questa, per lo zelo con cui fu compilata e per la ricchezza di informazioni offerta su tutti gli aspetti della realtà dell’isola, costituisce un documento straordinario, tanto più interessante in quanto registra minuziosamente gli interventi effettuati sull’isola nel periodo delle più intense e radicali trasformazioni della sua storia recente.
E difficile oggi immaginare lo spettacolo che Lampedusa deve avere offerto, nel settembre del 1843, agli occhi del capitano Sanvisente e dei centoventi coloni che vi sbarcarono al suo seguito per costituire il primo nucleo della sua futura popolazione. L’isola, pur abitata sin dall’antichità, lo era sempre stata solo saltuariamente e da parte di piccoli gruppi: punto d’appoggio di navi di passaggio, sin dalle guerre puniche, rifugio di pirati ed eremiti, e spesso anche luogo di presenze singolari ed enigmatiche (Ariosto vi ambientò il cruento duello tra i cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero e i saraceni Agramante, Sobrino e Cradasso, che occupa buona parte del XLII canto dell’Orlando furioso; a memoria di quel leggendario scontro, in cui rimase ucciso anche il cavallo di Orlando, si trovano i toponimi “Cavallo bianco” e “Orma d’Orlando”).
Sanvisente scrive di avere trovato sull’isola, oltre a pochi ruderi, le sepolture di uno sceicco turco e di un cavaliere di Malta. L’impatto umano sull’isola era stato comunque sino ad allora lievissimo e il suo territorio era rimasto dominio di una natura letteralmente incontaminata.
Vi si estendeva un rigoglioso manto vegetale costituito da una fitta macchia mediterranea nella sua forma più diversificata ed evoluta, in cui abbondavano le presenze arboree dei pini d’Aleppo, delle filliree, dei ginepri e soprattutto degli olivastri. Gli esemplari di maggiori dimensioni si trovavano all’interno dei caratteristici canaloni che solcano l’isola da nord a sud, aprendosi sulla costa meridionale e che sono, secondo le interpretazioni più recenti, letti fossili di fiumi (simili agli oued maghrebini) che attraversavano il territorio dell’isola quando questo era ancora attaccato al continente africano. Solo una vegetazione così rigogliosa può spiegare l’abbondanza d’acqua dolce che il capitano Sanvisente riscontrò ovunque nelle prime perlustrazioni dell’isola, e che deve avere molto facilitato l’impresa di colonizzazione.
Un ambiente tanto favorevole ospitava una fauna di vertebrati quale oggi non si ritrova in nessuna isoletta mediterranea, e che comprendeva, oltre ad abbondantissimi ed onnipresenti conigli, volpi, cinghiali, tartarughe, capre rinselvatichite ed alcuni esemplari di una razza di importante aspetto naturalistico.
Mentre infatti scomparvero definitivamente piante e animali legati alla rigogliosa macchia mediterranea, in primo luogo le specie di grandi dimensioni, la nuova situazione ambientale, caratterizzata da una notevole aridità, favori altri animali e piante, magari meno appariscenti ma meglio adattati a vivere in quelle condizioni.
Si trattava di specie originarie del vicino Nord-Africa, già sicuramente presenti da tempo sull’isola, ma che il rigoglio della vegetazione aveva relegato in posizione marginale, e che adesso potevano tornare a prendere il sopravvento. Del resto, i ritrovamenti fossili di specie deserticole hanno dimostrato che Lampedusa doveva avere già conosciuto nella sua storia, ma per cause naturali, periodi segnati da prevalenti condizioni di aridità.
Malgrado fra le piante ci siano esempi particolarmente significativi di questo carattere della natura lampedusana. come quelli della Centaurea acaule o della Caralluma europea, è tra gli Invertebrati, soprattutto insetti e lumache, che esso diviene (li olivastri vennero innestali, ma ne morirono perché indeboliti ed ormai incapaci di resistere alle difficili condizioni atmosferiche.
Contro gli animali ci fu un vero e proprio accanimento: Sanvisente concesse ai coloni “caccia libera e pesca liberissima”, e i loro archibugi ebbero in pocbi anni completamente ragione di cinghiali, cervi e foche monache. Contro capre selvatiche e conigli lo stesso capitano Sanvisente ideò un radicale programma di sterminio che faceva ricorso a tutti i metodi che gli fu possibile escogitare: armi da fuoco, adozione di trappole e laccioli, distruzione di tane e piccoli, massiccio lancio di gatti in tutte le zone incolte.
Il terreno dell’isola, privato della copertura vegetale che lo proteggeva, cominciò a disseccarsi per gli effetti di un sole cocente a cui rimaneva esposti» per almeno sei mesi l’anno, a venire disperso dai fortissimi venti che spazzttvano il suolo senza più trovare ostacoli, e dilavato «lai violenti temporali autunnali, ora che non c’erano più radici a trattenerlo. In aree sempre più ampie l’humus scomparve completamente lasciando affiorare Iti nuda roccia, la capacità di ritenzione idrica dei terreni diminuì in modo impressionante, e nel giro di pochi decenni si compì su tutta l’isola epici processo di desertificazione a cui si deve l’aspetto desolato e brullo che oggi è la caratteristica più vistosa di Lampedusa.
Il capitano Sanvisente non rimase abbastanza sull’isola da assistere al completo fallimento del suo progetto di colonizzazione agricola, ma deve avere intuito che non tutto sarebbe andato come voleva il doveroso, e spesso forzato, ottimismo della sua relazione, se questa si conclude facendo sinistramente intravedere l’alternativa di fare dell’isola un “luogo di detenzione”.
La vera alternativa, che egli pure aveva indovinata, ma che non aveva potuto attuare per mancanza di mezzi, era quella di volgersi alle risorse (lei mare. Il futuro di Lampedusa, relegata l’agricoltura ad un ruolo sempre più marginale e residuale, sarebbe venuto infatti dalla scoperta e dallo sfruttamento di ricchi banchi di spugne, dall’organizzazione dell’industria della pesca e, infine, dal turismo: ma niente avrebbe potuto restituire all’isola le sue piante e i suoi animali. La violenta trasformazione imposta a Lampedusa dalla colonizzazione di Sanvisente ebbe paradossalmente l’effetto di accentuarne un importante aspetto naturalistico.
Mentre infatti scomparvero definitivamente piante e animali legati alla rigogliosa macchia mediterranea, in primo luogo le specie di grandi dimensioni, la nuova situazione ambientale, caratterizzata da unti notevole aridità, favorì altri animali e piante, magari meno appariscenti ma meglio adattati a vivere in quelle condizioni. Si trattava di specie originarie del vicino Nord-Africa, già sicuramente presenti da tempo sull’isola, ma che il rigoglio della vegetazione aveva relegato in posizione marginale, e che adesso potevano tornare a prendere il sopravvento.
Del resto, i ritrovamenti fossili di specie deserticole hanno dimostrato che Lampedusa doveva avere già conosciuto nella sua storia, ma per cause naturali, periodi segnati da prevalenti condizioni di aridità. Malgrado fra le piante ci siano esempi particolarmente significativi di questo carattere della natura lampedusana, come quelli della Centaurea acaule o della Caralluma europea, è tra gli Invertebrati, soprattutto insetti e lumache, che esso diviene particolarmente evidente. Il primo a rendersene conto fu un naturalista di Castelbuono, Luigi Failla-Tedaldi, uno dei protagonisti della grande stagione vissuta dalla storia naturale in Sicilia nel secolo scorso.
Egli compi un’esplorazione naturalistica di Lampedusa all’inizio di maggio del 1886 e l’anno dopo pubblicò sul Naturalista siciliano una relazione intitolata “Escursione entomologica all’isola di Lampedusa” in cui osservava: “Avuto riguardo alla ristrettezza dell’isola, che può considerarsi quale piccolo scoglio gettato sul Mediterraneo, la sua poca elevazione, l’uniformità direi quasi di esposizione, la sua stessa aridità, posso in generale asserire, sul risultato avuto da una esplorazione di soli 5 giorni, che la fauna non è relativamente povera, come a prima giunta potrebbe credersi, e che vi si nota anche qualche cosa di nuovo e di speciale che non si rinviene nella stessa Sicilia e tanto meno nella vulcanica Pantelleria, ma soltanto nell’Algeria”.
L’osservazione gli era stata suggerita soprattutto dal ritrovamento di un vistoso insetto metallico di grandi dimensioni, il cui solo aspetto bastava a farne comprendere la derivazione
da una fauna diversa da quella europea e siciliana. Era lo Iulode lampedusano, un Coleottero appartenente ad un genere ampiamente diffuso nell’Africa tropicale; l’insetto, dopo avere vissuto sottoterra allo stato larvale per nutrirsi di radici, da adulto esibisce una splendida livrea, soprattutto quando il sole fa brillare di riflessi bronzei la sua superficie martellata. Lo Iulode, giunto a Lampedusa dall’Africa quando tra le due terre vi era ancora continuità territoriale, vi era rimasto ‘isolato’, evolvendosi separatamente dal ceppo originario ed acquisendo caratteristiche nuove, esclusive della popolazione dell’isola, secondo un processo subito anche da molte altre l’orme animali e vegetali.
Ulteriori ritrovamenti di specie di origine nord-africana, ma modificatesi nell’isola, dovuti anche a due ampie campagne di ricerca condotte dalle isole Pelagie nel nostro secolo, l’ultima delle quali si è appena conclusa, hanno sempre meglio precisato come Lampedusa possa essere considerata un vero laboratorio naturale di particolare interesse
biogeografico, di quella scienza cioè che ricostruisce le vicende di un territorio attraverso lo studio dei suoi animali e delle sue piante. E recente la scoperta nell’isola di una floridissima popolazione di un Panfago endemico: si tratta di una grossa cavalletta del tutto priva di idi. Chi visita Lampedusa oggi non può certamente credere che i suoi aridi e pietrosi fianchi meridionali devono il loro aspetto all’azione dell’acqua piovana. I geologi hanno ricostruito le affinità di questa isola con il nord Africa, cui un tempo era saldamente collegata da un ampio braccio di terra emersa. L’attuale stato insulare non ha certamente contribuito a procurare acqua dal cielo a Lampedusa, e la totale distruzione della vegetazione originaria è stata ulteriore causa di aridità e desertificazione.
L’immagine che si presenta all’odierno visitatore non può certamente definirsi entusiasmante: un tavolato roccioso, quasi nudo, con pochi lembi di vegetazione nelle parti più fresche, dolci pendii verso sud e strapiombanti pareti alte fino a cento metri esposte a nord. Il contrasto tra le calette tranquille e soleggiate del versante meridionale e le ombrose e fresche pareti esposte a tramontana sono probabilmente i motivi del suo irresistibile fascino di oggi.
L’odierna Lampedusa conserva ancora qualche povero aspetto della vegetazione che ricopriva le sue rocce calcaree. Un tempo il Corbezzolo formava distese impenetrabili di macchia verde. Ai suoi frutti rossi ricchi di alcool si deve il nome dialettale di “mbriacola”, di cui oggi ancora si conserva nell’isola un toponimo in una valletta del versante meridionale. Tra le piante più interessanti dell’isola vi è una Caralluma dall’aspetto di una cactacea, che cresce molto prostrata e ben celata in Nord Africa ed in Spagna, nonché alcuni
endemismi, cioè specie esclusive di questo isolato lembo di terra in mezzo al Canale di Sicilia. Tra essi uno dei più singolari è il Limonio di Di Martino (Limonium dimartinoi), scoperto recentemente dai botanici dell’Università di Catania e dedicato ad Andrea Di Martino, noto botanico palermitano. E una pianta molto ben adattata ai venti salmastri ed alle torride temperature estive di Lampedusa. La fauna fu un tempo ricca e abbondante.
La sua origine è indubbiamente africana. I paleontologi palermitano vi hanno trovato le ossa fossili di piccoli roditori adattati alla vita nei deserti, appartenenti al genere Meriones. La fauna di oggi è abbastanza peculiare. Ogni anno, tra maggio e giugno oltre un centinaio di Falchi della regina giungono a Lampedusa dal lontano Madagascar, movimentando notevolmente la vita selvatica dell’isoletta. Questo falco migratore deve il suo nome a Eleonora d’Arborea (il suo nome scientifico infatti è Falco eleonorae) che numerosi secoli or sono con un editto assicurò la protezione dei rapaci in Sardegna (ove questa specie è ben diffusa).
Le ali appuntite e la lunga coda consentono al Falco della regina una notevole quantità di tecniche di caccia. Così cattura insetti durante l’estate ed inizia la riproduzione molto tardi, in luglio. A differenza di tutti gli altri falchi che si riproducono in primavera, i suoi piccoli nascono in agosto, quando è iniziata la migrazione dei piccoli uccelli (i Passeriformi) dall’Europa verso l’Africa. Il continuo flusso di uccelli attraverso il Mediterraneo rappresenta la sicurezza di pasti energeticamente ricchi per i giovani Falchi della regina che in tal modo in ottobre sono pronti a lasciare con i genitori Lampedusa e le altre località ove si riproducono nel Mediterraneo, per affrontare il lungo viaggio verso i quartieri invernali in Madagascar.
Nei mesi primaverili ed estivi gli uccelli che maggiormente fanno sentire la loro presenza a Lampedusa sono i grandi Gabbiani reali. Sull’isola fanno il nido probabilmente più di duemila coppie, in gran parte ben insediate sulle pareti esposte a nord e nello scoglio dei Conigli. Ma è possibile incontrarli ovunque, in mare aperto, nel porto, nel centro abitato, nel mezzo dell’isola e persino nelle discariche pubbliche (non rare a Lampedusa) a contendersi i resti e gli avanzi dell’uomo.
Se c’è un uccello ben adattato alla presenza umana è proprio questo, ed anzi le sue popolazioni crescono soprattutto a contatto con l’uomo e con i suoi rifiuti: si tratta di una specie di indicatore ecologico al contrario. La fauna dei Vertebrati di Lampedusa offre almeno tre testimonianze della affinità con quella nord africana. La prima è una lucertola relegata nel piccolissimo Scoglio dei Conigli, assente a Lampedusa ed altrove in tutta Europa. Si chiama Psammodromo algerino e come dice lo stesso nome è tipico dei paesi maghrebini.
Sembra che si sia conservato fino ai giorni nostri solo per l’assenza di predatori terrestri nel piccolo scoglio. Probabilmente un tempo viveva anche sull’isola madre (Lampedusa), ma dopo che la vegetazione fu distrutta, i suoi predatori ne devono aver fatta una vera e propria razzia, portandolo all’estinzione. La totale assenza di lucertole sull’isola di Lampedusa sembra dipendere proprio dalla contemporanea presenza di due serpenti, il Colubro dal cappuccio ed il Colubro lacertino, anch’essi rappresentanti della fauna africana. Il secondo può arrivare alle ragguardevoli dimensioni di (lue metri e mezzo, ma entrambi sono molto timidi e la loro attività si concentra soprattutto nelle ore meno calde della giornata. Sono coltibridi provvisti di denti veleniferi, che tuttavia sono posti in fondo al palato e pertanto risultano innocui per l’uomo.
Certamente però ciò che ha reso faunisticamente più nota Lampedusa nell’ultimo decennio è il fatto che annualmente le Tartarughe marine depongono le uova nelle sue spiagge, in particolare nella caletta chiusa dallo Scoglio dei Conigli. La tartaruga Caretta non è certamente rara nel Mediterraneo, anzi vi è tuttora abbastanza frequente. Quelle che scarseggiano sono
invece le spiagge con determinati requisiti e caratteristiche che consentano la ovodeposizione del grosso rettile marino: numero di ore di insolazione, tranquillità della spiaggia e limpidezza dell’acqua marina. Quando fu scoperta la ovodeposizione della Caretta a Lampedusa da Gabriella Di Palma, si pensava che quella fosse realmente l’ultima spiaggia italiana per le tartarughe. Non si era molto lontani dal vero. Le recenti ricerche, peraltro intense e assidue, hanno consentito di individuare solo pochi altri siti che assicurano in Italia la riproduzione delle Carette.
L’istituzione della Riserva Naturale è stato pertanto il primo essenziale e concreto passo per la sua salvaguardia a livello nazionale, ma perché questo non risulti vano, il prossimo ed immediato passo dovrà essere un adeguato regolamento della Riserva. Linosa, di origine vulcanica, ha un aspetto profondamente diverso da Lampedusa e molto più somigliante a Pantelleria, quantomeno per la comune origine geologica.
Ambedue testimoniano un’intensa attività vulcanica dell’area del Canale di Sicilia, attività alle volte incredibilmente eruttiva. Ne è un esempio la formazione dell’isola Ferdinandea, denominata anche Giulia dai francesi, che emerse nel luglio del 1831 e si inabissò nel gennaio del 1832 al largo di Sciacca, prima ancora che fosse effettiva proprietà di qualcuno. Il fatto che Linosa e Lampedusa facciano parte dello stesso arcipelago delle Pelagie è solo un’opportunità geografica e amministrativa, ma certamente la storia naturale delle due isole non ha nulla in comune. La natura geologica di Linosa probabilmente è la ragione della sua povertà faunistica.
Tuttavia la caratteristica delle poche specie viventi su quest’isola è la loro abbondanza. Quindi poche specie, ma molto numerose. Il visitatore che sbarca per la prima volta a Linosa resta certamente colpito dall’inusuale quantità di lucertole. Se ne trovano dappertutto, nelle campagne, nei muretti a secco, sugli alberi: qualcuno ha tentato di stimare la popolazione e si è arreso di fronte a numeri con molti zeri. In assenza di predatori (è il caso del tutto opposto a quello di Lampedusa: a Linosa non esistono serpenti), si è verificata nel corso dei secoli una esplosione demografica enorme.
Naturalmente si tratta di animali molto ben adattati alle condizioni più avverse; hanno scarse esigenze e sono pronti a nutrirsi di qualsiasi insetto o vegetale che trovino nell’isola, ed in molti casi persino di piccoli cadaveri o dei resti della scatoletta vuota abbandonata da un gitante. Molti esemplari hanno una colorazione scurissima. Questo meccanismo di mimetismo con il substrato vulcanico è molto più perfezionato nei Gongili di Linosa.
I Gongili sono lucertole molto tozze, con zampe corte e squame lucidissime. La loro colorazione in Sicilia presenta toni grigiastri striati, ma la natura vulcanica delLisoletta di Linosa ne ha selezionato un modello molto più scuro ed alcuni esemplari sono del tutto neri. Nelle notti estive senza luna l’isola di Linosa risuona di singolari canti, un po’ simili ad un lamento, un po’ al vagito di un neonato. Si racconta che i primi uomini che udirono questo inquietante verso
ritennero che si trattasse delle anime dei compagni di Diomede erranti alla ricerca del compagno perduto in mare. Per i più esigenti di verità le diomedee sono uccelli marini che vivono in colonie, dalle abitudini notturne sulla terraferma. Il loro nome italiano è Berta maggiore e Linosa ospita probabilmente la colonia numericamente più numerosa di tutto il Mediterraneo. Di questa popolazione oggi si sa moltissimo, grazie anche ad un programma di ricerche condotto dagli zoologi dell’Università di Palermo. Si stima che a Linosa ogni anno tra marzo e aprile arrivino tra 20 e 30 mila di questi uccelli per trascorrervi gran parte delle notti fino al mese di ottobre.
Il calendario di questo lungo periodo degli amori e il seguente: a fine maggio le femmine depongono un unico uovo, quindi maschi e femmine si alternano nella cova fino alla metà di luglio, quando nasce il pulcino, tutto coperto di un piumino scurissimo. Questo sarà nutrito quasi ogni notte fino all’inizio di ottobre con un rigurgito oleoso, un concentrato proteico ottenuto dall’azione dello stomaco ghiandolare degli adulti sul pesce pescato a mare durante il giorno. Le Berte lasciano infine Linosa in autunno e gran parte di esse affronta un lungo viaggio invernale fino all’Atlantico ed in alcuni casi fino alle coste del Sud Africa e del Sud America.
Probabilmente uno dei motivi che rendono particolarmente piene di fascino le Berte è la dipendenza della loro attività dalle fasi lunari. È stato osservato che il canto delle Berte è di gran lunga più chiassoso nelle notti completamente buie. Quando la luna è piena ed illumina ogni angolo dei siti rocciosi dove le Berte si riproducono, questi uccelli si attardano in mare ed entrano a terra solo nelle ore piccole, senza far sentire neanche il più breve dei loro versi. Non appena tramonta la luna, ecco che improvvisamente si rivitalizza tutta la colonia con concerti assordanti. C’è anche un singolare insetto che vive a Linosa, il Brachitripe dalla testa gigante. E un singolare grillo lungo 4-5 centimetri, di un bel colore giallo lucido, caratteristico per avere una testa veramente massiccia. Il maschio scava una tana nella sabbia e si pone quindi alla sua imboccatura, emettendo con il suo organo stridulatore un suono fortissimo che vagamente ricorda quello prodotto dai fili in prossimità di un traliccio di alta tensione. Ciò fino a quando non attira una femmina e si spegne la sua eccitazione.
di Attilio Carapezza e Bruno Massa