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La-Truvatura
FONTE
“L’amuri miu vulissi cantari pi sta sirena chi mi lia e m’abbranca…” E’ davvero l’amore il sale della vita. E l’amore per la propria terra nasce spontaneo e cresce e s’avvalora nell’animo di chi, nobile e generoso, s’innamora con semplicità e disincanto dei doni preziosi che la natura, madre benigna, ha riversato nel mondo, perché l’uomo li apprezzasse e se ne servisse per conseguire benessere e felicità.
“Quannu l’amuri lu cori t’appigghia ti pari ruci puru pani e agghia…” Purtroppo Sciacca “di li biddizzi priziusi e rari” rimane non solo terra di Giulietta, la contessa che scrisse le pagine più belle della storia saccense, piuttosto è terra i cui figli sono anche “eredi di Pirollu e Luna”. Si parla, si parla “e ‘ntantu agghiorna e scura” senza riuscire “a pigghiari ‘a truvatura”, quel tesoro che davvero potrebbe far fiorire quell’albero dal “fruttu abunnatu e sapurusu” come il turismo. Nino Pumilia, in mirabile sintesi e con un linguaggio, quello della sua Sciacca, pregno di calore e di colore, vuole raccontare il favoloso viaggio storico di una città che, tra mito e realtà, ha vissuto tempi felici con “palazzi e stemmi unni pigghia pigghia” e tempi in cui “li prumissi diventanu miraggi e manu manu chi sfuma la chimera li danni sunnu cchiù di li vantaggi e la partita è peggiu di com’era”.
Certo è che se oggi la sensibilità culturale e l’intelligenza politica avessero finalmente un volto decoroso e se la cromaticità delle risorse naturali e architetto niche venissero considerate nella loro reale valenza, senza condizionamenti di sorta, davvero Sciacca potrebbe riscoprire le sue contrade “chini di diamanti, di perli e di zecchini”, perché la vera truvatura “su’ li risorsi di sta terra ruci”. Non solo un racconto quello di Pumilia, ma un grido accorato, un pianto d’amore per una terra, per un “paisi di l’antichi vantu” nel quale “nuddu ha saputu sciogghiri l’incantu”, come se qualcuno avvolto nel mistero e traditore si divertisse a trasformare il tesoro in gusci di lumache e carbone. L’opera, a mio giudizio, nella sua apparente semplicità, nasconde, ma non troppo, un messaggio che, mentre ripropone con una versificazione sciolta e rispettosa del lessico sciacchitano il favoloso cammino di una storia locale, ne canta i fatti e i misfatti con lo scopo di ricordare a tutti ed in particolare ai meno provveduti che la vita è come un meraviglioso mosaico le cui tessere sono nelle mani degli uomini a cui è affidato il difficile compito di sistemarle al posto giusto, se non si vuole naufragare nel mare del disordine, dell’ingiustizia, dell’illegalità, dell’arroganza, della prevaricazione.
Come sarebbe bello, per dirla con Pumilia, muoversi in una realtà nella quale “nun ci su’ sfacinnati strati strati, dunni ti giri giri c’è firmentu, fummiculi a filagnu, fatiati, cu ognuna ‘mmucca un cocciu di frummentu. C’è indulgenza, rispettu e cunfirenza tra famigghi di varia pruvinenza”. Oggi è ritornato di moda parlare di dialogo, di pace: parole, purtroppo, affidate ad un “pensiero debole”, incapace di innalzarsi sino a considerare che maggiore attenzione meriterebbe una città degna che nata da “Quattru casuzzi di pagghia e di crita. abitati di figuli e viddani, addivintaru ‘na città turrita, la rigina di li terri sicani, chi uffria a lu munnu li megghiu riali: l’acqui, li stufi e li curi termali”. Un passato ricco di luci e di ombre, un presente grigio, un futuro vestito dalla speranza che si sciolga l’incanto e si possa finalmente ritornare a crescere grazie a quella “truvatura” il cui ritrovamento non è solo questione di fortuna, quanto di intelligenza, impegno, amore. E’ doveroso, inoltre, evidenziare che, oltre i contenuti, il lavoro di Pumilia sul piano del linguaggio appare opera meritoria, perché ripesca e conserva un lessico che diversamente si perderebbe nel tempo, togliendo alle nuove generazioni il gusto di assaporare l’eloquenza e il colore forte e caldo di vocaboli ormai in disuso, ma che testimoniano una saggezza antica, profonda e sofferta.
Il radicamento nel mondo contadino permette infatti al prof. Pumilia, a differenza di altri poeti dialettali saccensi, di utilizzare un lessico squisitamente originale e dunque depurato da elementi spuri che, seppure personalizzano uno stile, 8 mortificano quella verginità linguistica che esalta un momento storico, una classe sociale, un modo di essere. D’altra parte Pumilia non è nuovo nel cimentarsi in opere che di volta in volta cantano ora il mondo contadino, ora quello marinaro, ora quello degli artigiani o della media borghesia e ne sono testimonianza esemplificativa i suoi lavori prodotti nel contesto di progetti educativi mirati alla continuità didattica nei quali usi, costumi, peculiarità, pregi e difetti del popolo saccense vengono stigmatizzate con pennellate dense di significati e ricche di quelle sfumature lessicali, appunto, mirabilmente destinate a cogliere l’anima sciacchitana nella sua genuinità. Da rilevare anche le note a piè di pagina che supportano, chiariscono, completano, arricchiscono “lu cuntu” in versi. Sinceramente, dunque, meritevole l’opera di Nino Pumilia di essere letta e gelosamente custodita da chi ama una città, Sciacca, chiamata, destinata a miglior fortuna, per non rinnegare un passato onorato e decoroso e per non perdere quei tesori che la sua storia e i suoi figli “cuntenti e baggiani” hanno voluto donarle.
di Enzo Puleo