CALOGERO ANTONIO PINNAVAIA
“LA RIVOLTA DEL PANE A PALERMO”
(LA FAME SI VESTE DI ROSSO)
Come sempre, sono i più deboli a risentirne maggiormente nei momenti di crisi, e quando la crisi rischia di travolgerli nasce un forte senso di solidarietà fra gli appartenenti ad una stessa categoria. Ad aggravare il deteriorato contesto socio-economico isolano contribuisce la mancata individuazione dello “cagioni e degli effetti, né facendosi attenzione ai grandi avvenimenti che succedevano nella politica e nell’industria, né correggendosi i vizi dell’interna amministrazione, i difetti della legge ed i sistemi e gli abusi invalsi, si dolorava la pubblica miseria, e per farla scomparire non mancò qualche viceré di dettar leggi contro il lusso e la pompa, proibendo l’oro e l’argento in ogni drappo o ricamo, ed ogni sorta d’indoratura ed inargentatura in qualsiasi obbietto. Il che diede al tumulto degli artigiani e fu d’uopo revocar la frammatica“.
LA SICCITA’ DEL 1647 – Quasi alla metà del Seicento ad aggravare maggiormente la situazione creatasi per le vessazioni fiscali del Governo, contribuisce una terribile siccità che danneggia l’agricoltura, rende scarsi i raccolti di frumento e porta a Palermo turbe di affamati; e ciò crea mancanza di alloggi, accattonaggio, delinquenza, epidemie e tumulti.
La situazione a Palermo raggiunge veri aspetti di tragedia nel 1647, quando si susseguono i segni dell’esplosione della rivolta e diverse volte per più giorni viene preso d’assalto il palazzo pretorio, sono saccheggiate le armerie, liberati i detenuti, incendiati gli archivi, gli uffici dei gabellieri e i relativi registri.
Il pessimo raccolto del 1646 aveva compromesso tutte le scorte di frumento e una tremenda carestia si abbatte sulla popolazione siciliana. Le città, e Palermo in particolare, si affollano di emarginati provenienti dalla campagna, di masse affamate, di bambini laceri e scalzi alla ricerca di un pezzo di pane. Il senato cittadino tenta in tutti i modi di provvedere a tanta miseria, acquistando anche ad alti prezzi il frumento dovunque possibile e ciò senza aumentare il prezzo del pane; ma la Corte spagnola, oberata da mille problemi e temendo lo scempio del pubblico denaro, senza rendersi conto della delicatezza del momento, dispone che il pane sia venduto al suo prezzo di costo.
La situazione diviene drammatica allorché ci si rende conto che l’andamento stagionale sta compromettendo anche il prossimo raccolto; la gente affamata dei villaggi si riversa sempre più nella capitale con la speranza di racimolare del cibo. Nel mese di maggio il pane, pur razionato, non basta più e le autorità preposte all’annona, anche per ottemperare alla prammatica reale del rapporto fra prezzo e costo, decidono di diminuirne il peso piuttosto che aumentare ulteriormente il prezzo, ma il provvedimento provoca le più funeste conseguenze: la plebe, se fino a quel momento aveva soltanto schiamazzato, reagisce violentemente ed è aperta rivolta.
“Sul… tardi s’unirono innanti la casa del senato da dugento persone tra ragazzi, femmine et huomini vagabondi di bassa conditione e cominciarono di prima con mordaci detti a motteggiarlo: “vegna lu cancaru a lu prituri chi ha fatto lu pani quantu un buccuni“. E schiamazzando tuttavia in mille sconce et ignominiose maniere il tacciavano infine di sfacciato ladro“.
LA RIVOLTA CAPEGGIATA DA NINO LA PELOSA – Il Governo e i nobili si sentono impotenti di fronte a questa insurrezione, che, a differenza delle precedenti, non è pilotata da qualche nobilotto in cerca di profitti, ma ha tutti i connotati di una vera rivolta popolare capeggiata da un bandito, perseguitato per omicidio ed evaso dal carcere, di nome Nino La Pelosa.
Nel tribolato contesto correlato a tale grave disordine la nobiltà rimane isolata, giacché il viceré non è all’altezza della situazione e le maestranze assumono per la prima volta un atteggiamento di perfetta neutralità: non si schierano con gli insorti, ma non fanno scendere le milizie per reprimere la rivolta. E’ questo un ulteriore segno che indica palesemente come le corporazioni artigiane incominciano a prendere coscienza di classe ed acquistino il senso del loro peso. Le maestranze non costituiscono, però, un tutto omogeneo e, durante i tumulti, forse per la precarietà lavorativa di molti operai dell’artigianato, questi non rispettano la neutralità decretata dai consoli, e, condividendo appieno l’odio popolare, mettono da parte ogni ritegno, si sentono “popolo” e si uniscono ai rivoltosi chiedendo l’abolizione delle gabelle della farina, del vino e dell’olio. Ancora una volta si evidenzia questo moto oscillante del ceto artigiano, diviso fra popolo e borghesia.
La classe dirigente siciliana ritiene opportuno tentare di adulare ingannevolmente il popolo e fingere di cedere, ma percepisce nettamente che è necessario riconquistare la fiducia delle maestranze e riacquisire l’appoggio, senza il quale non sarebbe possibile ricondurre questa massa scatenata a ragione, e per ottenere ciò il viceré Pedro Zuniga de los Veles il 21 maggio del 1647 firma il bando che dispone di “abolire percentualmente le gabelle della farina, del vino, olio, carni e formaggio per tutta la città e territorio di Palermo, perpetuamente e per sempre, e li Consoli delli maestranze habbiano da fare due Giurati popolani perpetuamente da oggi innanzi per servizio del popolo di Palermo“. Il provvedimento riesce a disorientare la plebe ed a blandire le corporazioni, che si ritengono soddisfatte e, riacquistando fiducia nella nobiltà, si adoperano con la loro milizia a sconfiggere l’ala rivoltosa, che stava tentando di assaltare il Banco pubblico (la Tavola). Le maestranze tornano così ad appoggiare quell’aristocrazia che da circa tre secoli monopolizza il potere sulla città, ritenendo il bando vicereale uno strumento idoneo a reintrodurre adeguatamente una rappresentanza degli interessi medio e piccolo borghesi, bastevole per dare alla borghesia produttrice e commerciale un peso nella vita comunale.
Scontata la conclusione della vicenda: due furono i giorni del furore, tre gli impiccati. Trattamento particolare ebbe Nino La Pelosa, che, liberato con altri dalle carceri, aveva guidato la sommossa nel secondo giorno: in poche ore fu straziato con tenaglie roventi, costretto a confessare ciò ch’era già noto, affidato ai gesuiti per la salvezza dell’anima, soffocato a un palo in piazza Bologna e, ormai cadavere, appeso per un piede alla forca. Così la pace sociale tornò a regnare.
Il ripristino dell’ordine pubblico ad opera delle maestranze non conclude la rivolta palermitana, giacché nuovi accadimenti fanno riaccendere la sommossa: questa volta alimentata dalla nobiltà contro le corporazioni artigiane. Sedata la sommossa, che si assopisce per un breve periodo di tre mesi, nell’assenza di nobili e autorità municipali, fuggiti da Palermo, il viceré affida per intero alle maestranze l’ordine pubblico, la sua guardia del corpo di quaranta persone viene scelta fra i pescatori ed è nominato capitano di giustizia il console dei ramai.
I consoli delle corporazioni, sollecitati a designare le due persone da includere nella giunta senatoria cittadina, si riuniscono nella chiesa di S. Giuseppe dei Teatini, e, senza aspettare la necessaria ratifica del bando da parte del Re, nominano giurati popolari due ricchi cittadini molto ben visti dal viceré: Francesco Salerno e Simone Sabatino, non nobili ma agiati borghesi che vivono di capitali e d’imprese e che sono molto vicini all’aristocrazia dominante. Le corporazioni si considerano orgogliose di tutto ciò e mostrano soddisfazione di tali nomine, ritenendo di essersi elevate a classe dirigente, giacché “la plebe pareva di avere introdotto già nel Senato i suoi tribuni”, ma la nobiltà non può accettare la nuova realtà e conta di riconquistare le proprie posizioni e tornare a riproporre le gravose gabelle proprio attraverso i due nuovi giurati.
I baroni rientrano a Palermo più baldanzosi di prima e, alla disponibilità verso di loro dimostrata dalle maestranze, rispondono con la richiesta avanzata al viceré di togliere alla milizia corporativa la difesa dei “baluardi” della città e affidarla ai nobili.
L’inopinata presa di posizione della nobiltà trova impreparate le maestranze, i cui consoli stentatamente riescono a difendere davanti al viceré le loro posizioni e si vedono costretti a chiedere l’aiuto popolare per impedire che possano entrare a Palermo i circa mille “cavalli della milizia del Regno“, che doveva costituire la nuova forza armata della città.
L’artigianato comprende chiaramente, a questo punto, che un’alleanza coi nobili non è possibile, giacché come alleato della nobiltà esso rimane in una posizione di sudditanza, mentre la forza delle maestranze potrebbe diventare determinante se posta, con l’appoggio popolare, come alternativa alla gestione politico-amministrativa dell’isola.
LA CARESTIA – La grave penuria di generi di prima necessità, intanto, fa comprendere alle maestranze della capitale lo “spietato contrasto fra i popolari bisogni e la signorile opulenza”, fra il lusso sfarzoso di pochi e la fame di tanti e le induce a decidere che è “giunto ormai il tempo di levar la sua voce e farla finalmente sentire”; ma esse non hanno ben chiara conoscenza che non è tanto difficile rivoltare l’esistente, quanto governare la realtà del dopo.
I malumori popolari si estendono, intanto, in diverse parti della Sicilia; sommosse e scompigli avvengono a Termini, Monreale, Carini, Vicari, Alcamo, Cefalù, Prizzi, Corleone, Bugio, San Marco, Patti, Naro, Catania, Bronte, Randazzo, Siracusa, Modica, Sortino, Castelvetrano e Mazara. Le rivolte più eclatanti sono, però, quelle di Sciacca, dove vengono bruciati gli archivi, aperte le carceri e aboliti i balzelli, ed a Girgenti (Agrigento) dove una massa di popolo assale il palazzo vescovile, prendendo prigioniero il vescovo e ne saccheggia il palazzo fino a scoprire i luoghi segreti dove sono nascosti il grano ed altri generi alimentari. Durante queste sommosse nei vari centri dell’isola il comportamento delle maestranze non è conforme a quello delle corporazioni palermitane, giacché spesso altrove gli artigiani affiancano i nobili nell’opera di repressione delle sommosse. E’ questo il caso di Randazzo e di Siracusa dove i consoli delle maestranze raccolgono intorno a loro una milizia per contribuire a sedare i disordini popolari, mentre a Girgenti gli artigiani fanno parte della massa di rivoltosi che assalta il palazzo vescovile.
L’epicentro della rivolta rimane comunque sempre Palermo dove, passati i disordini, per alcuni mesi si tenta di non maggiorare nuovamente il prezzo del pane benché a scapito delle non floride risorse finanziarie del comune. Gli amministratori, per far fronte alle esigenze di cassa, sono costretti a prelevare fondi dai depositi dei privati presso la Tavola, tanto che questa alla fine di giugno deve sospendere i pagamenti; il fallimento del Banco pubblico preoccupa seriamente i governanti e fa serpeggiare un nuovo malessere.
Sollecitata dal viceré, si svolge nel palazzo municipale un’adunanza straordinaria del senato (rappresentato dai due governatori e dai due giurati popolari) alla quale sono invitati i consoli al fine di esaminare la triste situazione finanziaria della città. In quell’occasione le maestranze, ormai inserite nella viva amministrazione civica, prendono netta posizione contro la restaurazione delle gabelle, sostenendo che le nuove tasse necessarie per rimpinguare le casse comunali devono prevalentemente gravare sui benestanti; esaminate varie ipotesi e dopo acceso dibattito, viene accolta la proposta degli artigiani di imporre nuove imposte, che trovano ratifica da parte del viceré con l’assistenza del Tribunale del Patrimonio: queste rappresentano una rivoluzionaria innovazione, giacché è la prima volta che vengono tassati i ricchi; i “balzelli” imposti, infatti, colpiscono tutti i beni immobiliari edificati in rapporto alla loro grandezza e bellezza: le piccole case pagheranno solo per la porta, le medie una maggiore tassa per le finestre, i palazzi un ancor più pesante tributo su ogni balcone. Vengono, inoltre, colpiti con un rilevante onere tributario le carrozze, in quanto rappresentano uno “status symbol” della ricchezza, e i beni voluttuari come il tabacco e la carne bovina.
“Tarì tre sopra ogni apertura di finestre o di porte nella pubblica via e tarì sei sopra i balconi dei palazzi e delle case in città; tarì due sopra ogni apertura di case, torri, magazzini, forni, taverne, molini ed altre abitazioni nei dintorni; onze cinque (150 tarì) sopra ogni carrozza tratta da cavalli o da muli, tarì sei sopra ogni libra di tabacco tanto in polvere quanto in corda che si smaltisse in Palermo e nel suo teritorio; tarì dodici sopra ogni salma d’orzo che entrasse in città; tarì quindici sopra ogni vacca o giovenca che si portasse a macellare. Stabilitasi, inoltre, un testatico sui benestanti e commercianti, giusta la ripartizione che si farebbe dal Senato” [Archivio comunale di Palermo].
La nobiltà urbana ed i ricchi borghesi mal digeriscono le nuove imposizioni lesive dei loro antichi privilegi e fanno del tutto per boicottarle, arrivando, perfino, ad istigare la plebaglia ad insorgere contro la tassa sul tabacco. Bottegai ed artigiani sono alle prese con le aspre difficoltà connesse col nuovo ruolo che impegna la categoria ad amministrare la capitale.
PROPOSTA DI ESPROPRIARE I BENI DEI GESUITI – La difficoltà per la riscossione delle imposte deliberate e la loro insufficienza a coprire le esigenze finanziarie della città inducono le maestranze, che ormai si occupano a pieno titolo dei pubblici affari, a studiare altre soluzioni per risanare i deficit dell’erario, fra le quali viene esaminata l’opportunità di espropriare i gesuiti di una parte dei beni che con esagerata cupidigia in meno di un secolo aveva saputo acquisire. Ciò contribuisce a rafforzare l’alleanza fra l’ordine religioso ed i nobili contro gli artigiani, nonché ad accentuare la subdola istigazione del sottoproletariato alla rivolta e ad indurre il viceré a prendere posizione contro la classe artigiana.
I consoli sono seriamente preoccupati per le continue minacce che gravano sui poteri acquisiti dalle maestranze, anche se sono soddisfatti dagli atteggiamenti assunti dai giurati da loro nominati, e, temendo per la loro incolumità fisica, convocano una riunione nella chiesa di S. Mattia dei padri Crociferi, alla quale invitano dei popolani, per discutere e formulare un programma per la difesa delle conquiste politiche e per il buon governo della città. Al convegno partecipano anche i due senatori popolari per confermare la loro lealtà nei confronti delle maestranze e per indurre la categoria alla calma, promettendo che avrebbero fatto licenziare i duecento “militi del Regno” – la nuova milizia organizzata dalla classe nobiliare posta a guardia del palazzo pretorio, e che tale compito sarebbe stato affidato alla milizia delle maestranze. Anche i nobili tentano di blandire i capi delle corporazioni con apprezzamenti lusinghieri sul loro recente operato ed attestati di stima, ma ormai la classe artigiana ha perduto nei loro confronti ogni timore reverenziale, sapendo che dietro a quella diplomatica cordialità ed apparente arrendevolezza si celano propositi di rivincita.
L’INSURREZIONE CAPITANATA DA GIUSEPPE D’ALESI – Nella città di Palermo la situazione diventa sempre più delicata e gli animi sono molto esacerbati sicché alcuni capi delle maestranze, riuniti in una taverna della Bocceria (oggi storpiata in Vuccìria), decidono di rompere gli indugi e di capitanare la rivolta; a tal fine sorteggiano tre capi: Giuseppe Errante console dei conciatori, Pietro Pertuso capopopolo e Giuseppe D’Alesi battiloro, che ha viaggiato ed ha vissuto le giornate più calde della rivolta di Napoli; ch’è un po’ Masaniello, che conobbe personalmente, e un po’ Cola di Rienzo, condividendo dei due l’avventura e la misera fine.
Fra i prescelti, quindi, solo uno è console, l’altro un popolano e il D’Alesi, un orafo artigiano, nativo di Polizzi Generosa, trapiantatosi giovinetto a Palermo, dove aveva messo casa e bottega alla Conceria, il quartiere abitato soprattutto da conciatori di pellame, alla cui vivace attività corporativa per amicizia partecipava.
Ciò induce a ritenere che la programmata rivolta è frutto di un’alleanza fra popolo e artigianato, che passa al di sopra della organizzazione delle maestranze, che hanno invece funzioni moderatrici. Anche D’Alesi non è un sovvertitore dell’ordine costituito, come in seguito insinuarono i suoi avversari, ma uno sinceramente vicino agli strati più popolari della città, dei quali intende migliorare le misere condizioni di vita e che ha compreso che la forza della rivoluzione è l’unico mezzo per liberarsi dalle angherie dei ceti dominanti; egli può essere considerato una testa calda e un ingenuo sognatore.
Fu tirato a sorte – come innanzi dicevamo – fra di essi. Che poteva sortire di buono, allora, se strateghi di tutta l’operazione dovevano essere coloro che sarebbero venuti fuori da una mera combinazione? Il verità, però, Giuseppe D’Alesi, che diresse poi il moto, il piglio del capo l’aveva, se, sorteggiato per secondo insieme con altri undici compagni, a tutti s’impose; d’ardito animo e prestante di corpo (aveva allora 35 anni), acceso nella parola, colmo di generosi spiriti, era quello dopotutto che meglio poteva rappresentare il malcontento delle maestranze. Intanto, mostrò subito di che pasta fosse, e a Pietro Pertuso, cui toccava d’essere il capo, stante che il suo nome era venuto fuori per primo nel sorteggio, tolse la giumenta e, poi che quello protestava, con tre stoccate anche la vita; a un pasticciere ordinò che col coltello con cui affettava le torte gli mozzasse la testa e, impalatala su una picca, la fece condurre in giro per la città tra fiaccole accese ad esemplare ludibrio: lui sul cavallo di quello, seguito da sessanta cacciatori che aveva promossi a sue guardie del corpo, fissandogli persino una paga di tre tarì al giorno per far le cose per bene, e tutti gli altri dietro, a gridare Evviva al re di Spagna.
Né sorprenda tale professione di lealismo alla Corona, perché la rivolta non era contro il sovrano, né contro il governo. Generoso quanto assurdo il progetto, mosso da ingenui impulsi democratici e da un risveglio di coscienza popolare che, però, non andava oltre l’aspirazione a più equi ordinamenti: si voleva prendere il viceré e i nobili, defenestrare il senato, assumere il controllo della città, proclamare taluno (che fu poi il D’Alesi) capitano generale del popolo, imporre nuove costituzioni di governo e, ottenutele, restituire il potere a chi legittimamente lo deteneva; e non c’è chi non veda quanto sbaglio ed imperizia vi fosse in quell’idea.
La vicenda, così, si condusse come potè, fra quattro poveracci da una parte, invasati dalla scalmana della rivolta e generosamente sospinti dall’impulso alle libertà popolari, e altrettanti furboni dall’altra, adusi alle sottili arti della politica; e quanto queste valessero più della forza d’ogni bella idea sarà verificato dagli avvenimenti successivi che determinarono, dopo una settimana, il totale fallimento dell’impresa.
Nella congiura si stabilisce di cogliere l’occasione della festa del 15 agosto* per abbattere il Governo e prendere in mano la situazione.
* “In quel giorno era usanza che viceré, magistrati e signori si recassero a visitare i santuari di Maredolce e di Gibilrossa, ed era una comoda occasione per sorprenderli e farli prigionieri”.
SVENTRATA LA CONGIURA – Gli organizzatori della rivolta, nella loro ingenuità, non tengono conto che fra loro possa trovarsi qualcuno di quei delatori di cui tanto si servivano nobiltà e clero: qualcuno dei presenti, infatti, si preoccupa di informare segretamente della deliberata congiura il viceré e l’inquisitore don Diego Trasmiera, i quali, riunitisi con il senato, deliberano di convocare alcuni consoli nel palazzo vicereale. Dei quattro convocati, solo due, dopo pressioni da parte dei due senatori popolari e del capitano della città, si inducono a recarsi dal viceré, marchese di Los Veles, che li accoglie con molta simulata benevolenza e li intrattiene sulla ventilata congiura al fine di indurre tutte le categorie alla fedeltà verso la Corona.
Nel frattempo, uno dei consoli che non aveva accettato l’invito vicereale si reca nella casa del capo dei conciatori e, avendo saputo che costui era andato dal viceré e non era ancora tornato, manifesta il sospetto che l’avessero ucciso. Quella è la scintilla che determina la rivolta; infatti i familiari, impressionati dalle parole del console, escono vociando e piangendo per la strada; quelle grida immediatamente si trasformano in allarme; ne segue un trambusto indicibile ed improvviso per quel labirinto di strette e tortuose viuzze che formavano l’antica Conceria, un serrar di botteghe, un attrupparsi e versarsi di numerosi popolani nel Cassaro e nella via Maqueda, esclamando: “All’armi! Il Vice Ré ci tradisce“. Tra i primi a riversarsi per le strade è quel D’Alesi che aveva congiurato con i consoli; costui, armato e seguito da numerosi amici, si mette alla testa della moltitudine e scende per la città deciso a cogliere quell’occasione per iniziare la rivolta. Va a questo punto ricordato che D’Alesi, oltre che artigiano orafo, è uomo ardito e risoluto, capacissimo all’uso delle armi, dotato di una forza singolare e di particolare potere carismatico.
La folla, ormai inferocita, procede tumultuosa e non riescono a placarla neppure i governatori della città, verso i quali il D’Alesi, agendo da capopopolo, spiana l’archibugio: i due consoli che avevano conferito col viceré ed erano sulla via del ritorno tentano di fermargli il braccio, ma nulla fanno per calmare la folla, anzi si mettono accanto al D’Alesi seguiti dalla massa di popolo che si dirigeva verso la Kalsa per fare insorgere i pescatori ed impossessarsi delle armi e delle munizioni esistenti presso il baluardo del Tuono.
Il D’Alesi ha netta la sensazione che i vertici delle maestranze sono per le posizioni moderate e, uscendo dal baluardo, teme che la presenza dei consoli e dei capi dei pescatori possa mettere in forse le sue ambizioni di capo; e quindi gioca d’anticipo e rivolgendosi alla folla chiede chi dovesse guidarla, e tutti rispondono in coro: “Voi medesimo“. Allora, seguito dalla folla armata con i due cannoni tolti dal baluardo, si dirige a Porta Nuova, dove avviene un sanguinoso scontro con le milizie spagnole, ed il viceré, temendo ben più gravi massacri, decide di fuggire insieme ai nobili e si imbarca su una nave, allontanandosi dalla spiaggia.
La fuga dei nobili e del viceré lascia libero campo alla sommossa e vale a dare più baldanza ai rivoltosi assetati di vendetta, che minacciano lo sterminio dei nemici e fanno temere morte e saccheggi; a questo punto D’Alesi – per non perdere il comando della rivolta – non esita a far decapitare due del suo seguito che mostravano qualche incertezza; per il resto, in ciò ascoltando i consigli del fratello e dei capi delle maestranze, si mostra fermo nel proibire ogni eccesso, ordina la requisizione di tutte le armi e commina la pena di morte per chiunque si fosse dato al saccheggio.
Il coraggio e la forza a nulla, però, valgono contro i nobili e i ricchi rimasti in città, i quali fanno a gara per colmare di lodi e di adulazioni il D’Alesi, nel frattempo qualificatosi “capitano generale“, e non bastano gli inviti dei capi delle maestranze che gli si tengono vicini per non disperdere i frutti della rivolta. Acclamato “pretore a vita“, cavalca per le vie cittadine, con stendardo fregiato dell’insegna della Madonna, indossando ricchi abiti e seguito da un codazzo di amici, con ciò dimostrando di essere molto vanitoso e quindi debole, cioè facilmente circuibile ed aggredibile.
I consoli tentano di aiutarlo con suggerimenti e consigli, come anche aveva fatto il fratello Francesco, scrivano alla Tavola e con un minimo di cultura, ma il grande inquisitore Trasmiera, profittando del sentimento religioso e della vanità del D’Alesi, ne diviene l’unico vero consigliere, riducendolo totalmente in balia della sua volontà. L’adulazione e la religiosità finiscono con incidere, con deleterie conseguenze, sulla improvvisata classe dirigente. Infatti, quando alcuni capi delle maestranze chiedono al Tribunale dell’Inquisizione la liberazione dalle carceri di don Francesco Baronio, letterato insigne, già segretario del senato, rimasto sempre vicino al popolo, che aveva dato ai rivoltosi il suggerimento di chiedere due giurati popolari e forse per tale motivo perseguitato ed arrestato, il D’Alesi si trova davanti il muro dell’astuto e subdolo Trasmiera, che gli nega con sfacciata ipocrisia la scarcerazione, fermamente convinto che il Baronio sarebbe stato un prezioso consigliere in grado di guidare il D’Alesi e le maestranze nel governo della città.
RAGGIRO ED ISOLAMENTO DI GIUSEPPE D’ALESI – Si offrono invece al D’Alesi come consiglieri alcuni avvocati di non grande talento, ad eccezione dello avvocato Lo Giudice, ritenuto valente ed eloquente giurista, ma privo di esperienza di governo; dimostrandosi così il loro contributo piuttosto modesto, anche perché è facile dubitare della loro buona fede stante la tela di intrighi posta in atto dalla piccola corte di nobili, al servizio dell’inquisitore Trasmiera, per fare naufragare la rivolta.
Inquisizione e nobiltà, dopo avere isolato D’Alesi, si adoperano per rompere il fronte delle maestranze e fare così cessare quell’unità di classe che l’artigianato aveva saputo dimostrare; pressioni sono fatte sui pescatori e su altre categorie, anche con elargizioni di denaro ed altre promesse più o meno lecite, per rompere la solidarietà delle corporazioni che sostengono il D’Alesi.
Il senato della città, intanto, superato l’iniziale stato di sbandamento e constatata la innocuità del D’Alesi, la cui politica, d’altronde, mira soltanto ad un rinnovamento ed un riordino della pubblica amministrazione al fine di una più equa giustizia sociale, nel pieno rispetto delle istituzioni, gli indirizza un’adulatoria lettera con la quale, dando pubblico riconoscimento dell’incapacità dimostrata dall’organo senatoriale a contemperare gli interessi popolari con eque acquisizioni di mezzi finanziari, chiede l’autorizzazione ad indire una riunione per trovare le soluzioni più adeguate, anche per venire incontro alle esigenze del popolo.
D’Alesi, confortato da argute insinuazioni del Trasmiera e non intuendo la trama di un inganno, rimane pago ed allettato dalla deferenza mostratagli dal senato ed indice la chiesta riunione nella chiesa di S. Giuseppe dei Teatini alla quale invita i senatori, i consoli delle corporazioni e la nobiltà.
Alla riunione, alla quale D’Alesi arriva con grande coreografia di stendardi e alfieri partecipano anche il principe di Trabia, gli inquisitori ed una gran folla di popolo. In tale occasione i consoli delle maestranze presentano dei memoriali, letti ad alta voce dall’avvocato Lo Giudice, per esprimere le loro idee sulle cose da farsi e sulle deliberazioni da adottare per creare una nuova e più corretta amministrazione che riparasse alle ingiustizie sociali del passato ed evitasse ogni abuso, sempre nel massimo rispetto delle istituzioni e nella più grande devozione alla Corona di Spagna. L’assemblea dei presenti approva tutti i capitoli esposti, ma con la vanificatoria condizione che siano sottoposti alla ratifica del viceré.
Le deliberate riforme, oltre ad essere molto moderate, contengono solo innovazioni tendenti a migliorare le condizioni sociali dei meno agiati e ad assicurare la maggiore partecipazione delle corporazioni artigiane al governo della città, per la quale si auspicano una maggiore autonomia anche nei confronti della Corona.
Concrete sono ritenute le richieste per la compartecipazione delle maestranze al governo cittadino; viene stabilito, infatti, che Palermo sia retta da sei giurati, dei quali tre eletti dal popolo e tre nobili; che i deputati di piazza, i maestri notari del comune e della corte pretoriana e il capo dei “birri” siano tutti delle maestranze e che gli uffici della città vengano conferiti esclusivamente a palermitani.
Quelle che difettano sono le deliberate riforme incentrate sull’abolizione di tutte le gabelle senza l’indicazione di un preciso sistema fiscale alternativo; in tali condizioni esse diventano velleitarie e retoriche presunzioni, mentre appare del tutto impossibile l’amministrazione della città senza le adeguate disponibilità finanziarie.
Le maestranze ed anche lo stesso D’Alesi dimostrano di volere la legge e l’ordine, operando sempre con rettitudine per evitare ogni eccesso ed ogni abuso.
“Ad un orefice, reo di resistenza al proprio console, fu imposta la condanna alla galera; incaricato di eseguire l’arresto fu un milite pescatore, che lo fece pubblicamente fustigare al momento del fermo. Il D’Alesi, dietro reclamo degli orefici, senza alcun riguardo per il collaboratore, liberò l’orefice ed inflisse la frusta e la galera al milite non curandosi del risentimento dei pescatori; con severo rigore furono puniti, inoltre, alcuni delle maestranze che volevano introdurre delle merci in città rifiutandosi di pagare il dazio ai doganieri”.
L’ostentato ed esagerato ossequio nei confronti del D’Alesi, l’istigazione al lusso e al lucro, i titoli di “Illustrissimo”, di sindaco a vita di Palermo, elargiti al D’Alesi, oltre alla conferma di quello di capitano generale, e l’assegnazione di duemila ducati per l’anno di indennità sono premeditatamente mirati ad alienargli la simpatia e la fiducia delle maestranze, a loro volta subdolamente influenzate in senso contrario.
Il D’Alesi, ubriaco di onori, anche se non percepisce il vuoto che gli si crea intorno riesce ad avere chiara la sensazione di non disporre adeguatamente di una tal forza e di una struttura che gli permettano di governare per il meglio la città; spera però che con il ritorno del viceré e la ripresa da parte di questo del governo della capitale, possa salvare la sua posizione di sindaco; si adopera, quindi, per convincere sia il popolo che le maestranze, molto riluttanti ad accettare la restaurazione dell’Autorità regia. I primi malumori nacquero dai pescatori della Kalsa, ingelositi nei confronti dei conciapelle, gli unici che erano stati garantiti sulle promesse ricevute, si schierarono contro di lui; strinsero il cerchio e tramarono la congiura nel palazzo del S. Uffizio.
Il rientro del Viceré a Palermo e l’approvazione delle riforme deliberate sembra far ristabilire l’ordine e ritornare la pace, anche perché la rivoluzione ha già perso ogni slancio ed il popolo sembra attendere paziente di ricevere i primi benefici.
E proprio quando tutto sembra rappacificato emergono i frutti di una errata politica finanziaria: i negozianti chiedono il pagamento dei numerosi loro crediti, così come le classi privilegiate vogliono il pagamento dei loro interessi, e con tali pretesti scoppia la controrivoluzione, che, istigati dai nobili ed aiutati da una massa di vagabondi, sobillati dal Trasmiera, riprendono i combattimenti contro la nuova realtà e si lanciano alla cattura del D’Alesi.
All’alba del 22 agosto, una moltitudine in armi di più di diecimila persone s’era raccolta a piazza Marina e ai Quattro Canti; in testa l’inquisitore, col Crocifisso in una mano e uno spadone nell’altra, molti nobili, preti, con essi la folla in tumulto, quella stessa che una settimana prima l’aveva osannato proprio capitano e tribuno.
Il meschino mandò a cercare la sua guardia di cacciatori, che, non pagata da due giorni, se n’era andata pei fatti propri; promise il soldo di uno scudo al giorno per ciascuno, ma non trovò nessuno che si schierasse a difesa della sua persona, perché ognuno pensava di nascondersi per la paura. Vista la partita irrimediabilmente persa, cercò scampo pure lui: bussò alla chiesa di S. Giuseppe, ma fu respinto col pretesto che altrove avrebbe trovato più sicuro rifugio; corse alla Conceria e nella chiesa della Madonna della Volta cercò un prete per confessarsi, molto temendo ormai per la sua vita; scambiò le vesti con un giovane conciapelle incontrato per via; s’infilò nel condotto delle acque di scarico; passò nella casa di un amico e lì si seppellì sotto un cumulo di fogliame secco. Durò poco, però il suo inquieto terrore, la sua disperata ansia che potesse farla franca a dispetto degli eventi; udiva, come un’ala di morte, il barbaro vociare di quelli che ora avevano in mano la città, le urla di coloro che, dopo averlo plaudito, volevano adesso la sua vita.
Qualcuno additò il rifugio, fu raggiunto dalla masnata accesa dal furore, trascinato all’aperto, né gli fu data possibilità di far salva la pelle. Sulla scalinata della chiesa della Madonna della Volta un cavaliere Platamone colse il vanto troncargli la testa, della quale il procuratore fiscale Pietro Sbernia oscenamente s’appropriò per condurla in giro attraverso la città, affissa su di una pertica.
La violenza ebbe un altro tragico seguito di eccidi e di sangue, perché l’orgia della controrivoluzione voleva il suo brutale appagamento: gl’invasati dilagarono per le strade, saccheggiarono e devastarono le case dei conciatori, si diedero a cercarli e ne fecero fuori molti all’istante, primo fra tutti Francesco D’Alesi, fratello di Giuseppe, che tremebondo se ne stava acquattato in una carboniera nel vicolo dei Mori: anche la sua testa mozzata ebbe lo scherno della picca fra grida d’osanna al re di Spagna. Ne ebbero miglior sorte coloro ch’erano trascinati al cospetto del viceré, il quale ora, rientrato in città, se ne stava sui bastioni del Castellammare a decretar giustizia ed equamente spartiva col pretore il divertimento del sangue: alcuni li faceva decollare lui stesso ai piedi del castello, altri li mandava al principe di Partanna, che faceva la medesima cosa davanti al palazzo senatorio.
Si continuò così per un pezzo, e i nobili gareggiavano coi plebei a tagliar teste, anzi si dimostravano più valenti. “Non vi era boia”, annotava l’abate Maja, testimone di tanti orrendi misfatti, “ma il primo che voleva uccidere, con un pugnale mozzava il capo”. Non s’imbrattò, però, le mani in quei giorni Benedetto Emanuele di Villabianca, il quale, catturato Mariano Rubbiano, uno dei compagni del D’Alesi, commise a un soldato di mozzargli la testa; lui si limitò a trascinare quel misero teschio in giro per la città, in gaia comitiva con altri nobili fregiati dello stendardo con l’effigie della Madonna, poi l’appese per i capelli al muro della sua casa. E per questa sua bravata ebbe il titolo di marchese e un secolo e mezzo più tardi vanto di lode dal suo celebre pronipote Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, fecondo di arista ma non altrettanto obiettivo analista, che a causa di tanto merito ne ritenne la memoria sommamente degna d’essere perpetuata nella posteriorità.
D’Alesi è stato meno ingenuo e più moderato di Masaniello, ma il battiloro palermitano e il pescatore di Napoli hanno avuto lo stesso destino finale perché, entrambi generosi e desiderosi di giustizia, hanno commesso l’errore di tentare di conciliare fra loro cose inconciliabili: la nobiltà e il popolo, il Governo e la piazza, le rivolte e la fedeltà alla Corona di Spagna. Entrambi personaggi di estrazione popolare e privi del necessario substrato culturale e di quell’indispensabile cinismo per potersi difendere dall’abile offensiva adulatoria dei nobili e degli inquisitori, essi sono stati subdolamente storditi dai fumi della immediata popolarità e della subitanea potenza, pur volendo sempre la legge e l’ordine, ma che non hanno avuto, principalmente, dietro di loro consiglieri sinceri di cui potersi ciecamente fidare, e massimamente capaci di guidarli con esperienza, decisione e chiarezza di idee.
Per risolvere la crisi economica sarebbe stato necessario molto denaro e questo poteva aversi attraverso le tasse, ma nessuno era in condizione di fare un concreto piano di entrate tributarie, un sistema fiscale alternativo all’abolizione o riduzione delle gabelle.
IL CARDINALE TEODORO TRIVULZIO, NUOVO VICERE’ – Nonostante la fine del D’Alesi, i focolai di sommosse non cessano: altri sobillatori studiano piani di rivolta per ottenere il coinvolgimento dell’intera isola: sognano una confederazione con Napoli, e la possibilità di procurarsi contro la Spagna l’alleanza dei Francesi o dei Turchi e creare un vero esercito; ma i vari ideatori – si chiamino Vairo, Platanella, Milano o in altro modo – vengono tutti impiccati, giacché la delazione regna sovrana e il Governo tempestivamente informato è sempre in grado di reprimere subito tutti i tentativi di rivolta. La forza che consente alla decadente Spagna di continuare a governare la Sicilia non è soltanto nei delatori, né nel proprio esercito: perché sono le coscienze a non essere ancora mature. Un mai tramontato individualismo ha sempre fatto diffidare le classi sociali anche al loro interno e non ha mai creato coscienza di popolo e di nazione; ognuno ha sempre mirato alle sue piccole conquiste, ad acquisire qualche privilegio ed a difenderlo contro tutti. In queste condizioni un viceré, anche se tra il serio e lo scherzoso, ha ragione di dire ai consoli e alle loro maestranze che badino all’esercizio dei rispettivi mestieri e lascino a lui il compito di governarli e di proteggerli.
Il cardinale Teodoro Trivulzio, nuovo viceré, con gradualità ma con fermezza guida il Regno verso la restaurazione e, dopo avere ripristinato il coprifuoco e ordinato il sequestro di tutte le armi, ripropone al popolo le angeliche gabelle e sottrae di fatto alle maestranze le piccole conquiste socio-politiche che con tanti sforzi erano riuscite a conquistare nei secoli: viene tolto agli artigiani il diritto di camminare armati e sono abolite le milizie delle maestranze e di fatto revocati i giurati popolari, che “svilivano il glorioso titolo di senatore”.
Ancora una volta la nobiltà riesce a trionfare: essa doma l’insurrezione del 1647, nonostante il comprensibile panico, attraverso l’uso della propria cinica ipocrisia, sicura che la Spagna fosse dalla sua parte; le maestranze, invece, pur possedendo un certo sentimento collettivo e un certo senso politico, per il costante timore di perdere i loro pochi privilegi, trascurano di mantenere la loro solidarietà interna e questo le porta alla divisione.
“La rivolta del 1647 però ebbe ancora una coda: il calabrese Francesco Varia, “infiltrato” tra le fila della plebe per sondarne gli umori, progettò il sacco del Monte di Pietà, della Casa dei Gesuiti e delle case dei pingui cittadini di Palermo, per proclamare la repubblica e dare così alla rivolta quel programma politico che era mancato al D’Alesi”.
La rivolta delle maestranze, comunque, sta ad indicare che in una certa parte della società siciliana incominciano ad affiorare le idee e gli ideali, anche se in modo un po’ confuso e avviluppate da egoismi e velleità; il ceto artigiano dimostra di distinguersi da quella massa popolare che in quell’occasione ha permesso la restaurazione dell’ordine antico sia restaurato come se niente fosse successo, esso ha già una sua diversa qualificazione: incomincia ad essere classe. “La vita a Palermo e nelle altre città riprese con lo stesso ritmo di prima” – scrive il Castiglione – “e con il trascorrere degli anni la rivolta di Palermo arricchisce di nuovi ricordi la fervida fantasia della popolazione, la quale circonda di un’aureola di eroismo il popolano Giuseppe D’Alesi relegandolo al mito, tanto caro all’animo dei siciliani”. Noi non condividiamo del tutto questo pessimismo: i fatti lasciano sempre dei segni più o meno profondi e dopo il 1647, anche se le corporazioni tornano a dibattersi nei bisogni di sempre, anche se non sanno abrogar gli angusti capitoli che le reggono, anche se avidità ed egoismo ne frenano ogni impulso, nulla toglie che l’artigianato emerga dal grigiore popolare ed abbia più ideali delle classi dominanti, nonostante che debba fare i conti con quell’individualismo caratteriale, tipico di questo popolo.
Calogero Antonio Pinnavaia