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LA MALARIA IN SICILIA

23 Gennaio 2016 //  by Elio Di Bella

La malaria in Sicilia

Rielaborazione di un saggio pubblicato nel volume Salute e classi lavoratrici in Italia dall1 Unità al Fascismo a cura di M.L. Betri e A. Gigli Marchetti, F. Angeli, Milano, 1982.

di Carmelo Vetro

  1. Cinquant’anni fa anche per la Sicilia si avviava il processo di eradicazione della malaria, una malattia presente nella regione fin dall’antichità, la cui diffu­sione si è profondamente intrecciata allo sviluppo economico e alla evoluzione della nostra società.

Fatalisticamente accettata come ineluttabile dalla popolazione, la malaria ha assunto nell’immaginario collettivo, lo spessore di un’entità fisica, animata. “E vi par di toccarla con le mani” scrive il Verga, mentre Pirandello ci presenta perso­naggi “consunti e ingialliti dalla malaria” campagne “infestate” nei mesi estivi dalla malattia, che sembrano “respirare” dopo le piogge abbondanti che fanno calare la piena nei fiumi.

Il nome “malaria” ha poco a che fare con la “mala aria” che una volta si rite­neva incombesse su intere zone di una data regione: la malaria è una malattia cau­sata da protozoi del genere Plasmodium trasmessi all’uomo da zanzare femmine del genere Anopheles.

Ma questo fu scoperto alla fine dell’Ottocento. La malattia fu, invece, per lungo tempo attribuita alle esalazioni delle paludi o dei ristagni d’acqua, alle macerazioni di canape e lini in acque stagnanti.

Paludi e acque stagnanti giocavano un ruolo importante non tanto per le esa­lazioni, quanto perché creavano l’habitat ideale per lo sviluppo delle zanzare.

Nella nostra isola la presenza di numerosi torrenti che dopo le rovinose piene invernali si riducono nel periodo estivo ad un piccolo filone, con frequenti sparpa­gliamenti di lenta scorrevolezza, stagnanti in molti punti (nache), ricchi di vegeta­zione palustre, ha favorito la diffusione dell’anofelismo e, quindi, della malaria.

La costruzione di vasche, gebbie, canali di irrigazione contribuiva alla propa­gazione della malattia.

Il principale vettore dell’endemia malarica in Sicilia è stato Anopheles Labranchiae, specie che determina forme di malaria particolarmente gravi; segui­vano, per incidenza numerica, Anopheles Claviger, ritenuto nell’isola, non vettore per la sua zoofilia eAnopheles Superpictus. La loro presenza “era un tempo pres­soché ubiquitaria dal livello del mare ai 500 metri ed oltre”.

Ciò rese l’isola soggetta alla malaria e spinse gli insediamenti urbani verso le alture.

Mentre i lavoratori, concentrati in grossi agglomerati urbani, furono costretti a recarsi sui fondi da coltivare talora a notevole distanza, le campagne restarono incontrastato dominio del latifondo. Qui si crearono condizioni biogeografiche particolarmente adatte alla diffusione delle zanzare. La malaria divenne una triste realtà per le masse dei contadini che nel latifondo si recavano in corrispondenza con i vari lavori dell’anno (semina, zappatura, mietitura), dormendo in ricoveri di fortuna, nelle stalle o all’aperto.

Alla assoluta mancanza di abitazioni rurali, si accompagnava la fatiscente condizione dell’edilizia urbana. Per avere un’idea delle carenze igieniche e urba­nistiche dei comuni siciliani, basta leggere le numerose relazioni redatte in occa­sione dei fatti epidemici, quali le invasioni di colera: dal 1836 al 1885 si ripetono con triste monotonia le denunce della inabitabilità delle case di operai e contadini che costituiscono, ovviamente, la maggioranza della popolazione.

“In generale – notava il Prefetto di Caltanissetta nel 1887 – operai, artigiani e contadini hanno abitazioni che si potrebbero dire antri senza luce, senz’aria, umidi per tale ragione o per la natura dei materiali con cui sono costruite, senza cessi, ove insieme agli uomini vegetano pure gli animali, nocive alla salute degli abitanti e, spesso, di conseguenza, alla pubblica”.

Ovunque risultava difettoso l’approvvigionamento idrico, al quale provvede­vano i privati con la costruzione di cisterne, non sempre ben tenute, spesso insufficienti al fabbisogno della popolazione, “che – sottolineava il sindaco di Piazza Armerina – si vede non tanto lontanamente minacciata dalla siccità o da altre cause non meno infrequenti e funeste quali le invasioni epidemiche di ogni specie”.

Queste ultime, non diversamente dall’epidemia malarica, mietevano il mag­gior numero di vittime tra i più poveri, i quali non avevano mezzi per curarsi e anche se ammalati dovevano recarsi a lavorare per riuscire, in un modo o nell’al­tro, a sopravvivere.

Tale carattere di classe della malattia è confermato da una Supplica, che i civili, possidenti, preti regolari e secolari, impiegati, mastri di bottega inviarono nel 1837 illa Commissione sanitaria di Caltanissetta al fine di evitare il servizio del cordone sanitario nel territorio di Enna. Molto significativamente nel documento, infatti, si legge: “Gli individui avvezzi a dimorare in questa comune, per sistema inalterabile, sconosciuto da’ più remoti tempi abbandonano in queste stagioni le loro produzioni illa discrezione de’ villici senza sorveglianti, preferendo la sottrazione dei generi a oro danno, e del piacere di godere delle loro campagne per scansare (sic) inevitabili malori di febbri ardenti miasmatiche, diarree, dissenterie ed altre”. 

L’endemia, che raggiungeva le punte più elevate nei mesi di luglio, agosto e settembre, fu per lungo tempo attribuita alle esalazioni di aria infetta, avvelenata, pestifera dalle paludi; come abbiamo detto, a riprova di questo fatto, possiamo citare un episodio epidemico verificatosi a Misilmeri, un piccolo centro del Paler­mitano nel 1861. Ecco come viene narrato il suo sviluppo: nei pressi del paese, in una sorta di conca naturale, la pianura della stoppia, durante l’inverno si raccoglie­vano le acque che scorrevano dai monti vicini. Fino al 1857 un canale di scolo naturale (subbia) impediva che esse impaludassero il piano. In seguito, probabil­mente per una frana, la via di eduzione delle acque si otturò e si creò uno stagno che ricoprì i terreni circostanti: “venuta la stagione estiva, da tutto il complesso di tante materie chiuse in un bacino, poco ventilato, perché circondato da alte monta­gne e colline, riscaldato dai cocenti raggi del sole, fomentando si esalano colonne di aria mofetica pestifera, che invade i paesi vicini potandovi la malattia e la morte”. Altri focolai di miasmi infettivi erano identificati dai medici, nella immer­sione dei lini in un vicino torrente e nelle condizioni igieniche dell’abitato: “Le strade sono divenute quasi impraticabili, innanzi ogni porta di abitazione si trova un recipiente formato di pietre a secco ed alcuni in fabbrica, dove ogni patrone di casa accumula il suo fimo, dove quelli che non ne hanno, ma questi sono pochis­simi, vanno a buttare le immondizie, le acque lorde, sinanco i vasi immondi”.

Le conseguenze delle febbri erano devastanti. La “classe povera” era colpita con maggiore veemenza dal male, ma spesso rifiutava le medicine preferendo piut­tosto morire, che sottoporsi al cetrato chinico ed ai preparati di china”. Ancora nel 1906, Ignazio Di Giovanni, un medico della Croce Rossa Italiana annotava che la incredulità e l’avversione al chinino erano “l’effetto di scorrette insinuazioni” di interessati che speculavano “sull’ignoranza e la miseria dei lavoratori”.

“In principio – continuava il medico – più che da altro, il primo senso di dif­fidenza era provocato dalla sorpresa, dalla meraviglia di vedere della gente scono­sciuta, che veniva da lontano per arrecare un disinteressato beneficio, mentre nes­suno aveva mai parlato a quelle anime semplici un linguaggio amico”.

Il problema malarico fu affrontato, in sede parlamentare, a partire dal 1878. Nel 1880 il Ministero dell’nterno promosse un’inchiesta sanitaria sulla diffusione della malattia in tutto il regno, i cui risultati furono esposti dal sen. Torelli, autore, di li a poco, di una Carta della malaria in Italia. L’11 giugno 1880 il Torelli pre­sentò un disegno di legge sul bonificamento delle zone malariche lungo le ferrovie d’Italia, esteso, poi dall’Ufficio centrale del Senato alle regioni malariche. La Rela­zione Torelli comincia col notare la recrudescenza del fenomeno malarico e il suo costante aumento a partire dal 1860. Particolarmente preoccupante appariva la situazione dei ferrovieri, per i quali non si riuscivano a trovare precauzioni ade­guate ad evitare le febbri; sicché, oltre al “somministrarsi dei rimedi e dar dei soprassoldi”, si era obbligati a “cambiare il personale dopo un soggiorno più o meno lungo”. L’inchiesta era approdata a risultati allarmanti: il 45,15 per cento delle strade ferrate erano in condizioni, più o meno gravi, di malaricità: la media diveniva addirittura del 62.41 per cento nelle strade ferrate meridionali.

In Sicilia, salvo alcuni tratti (Messina-Catania, Bagheria-Termini), le ferro­vie attraversavano contrade malariche. Nella linea Catania-Siracusa, durante l’e­state, venivano fatti dei treni speciali per portare gli impiegati di Leonforte a per­nottare a Enna; nella linea Palermo-Agrigento, che attraversava il cuore del latifondo, si dava agli operai un soprassoldo variabile da 25 cent, a 1 lira al giorno. Nella linea Porto Empedocle-Palermo si erano avuti, nel 1878, 600 ammalati con una media di 10 giorni ciascuno.

Ad Agrigento 154.850 dei 310.200 abitanti (49.91 per cento) risiedevano in zone malariche e precisamente, 14.700 in zone di malaria gravissima; 87.300 in zone di malaria grave, 52.850 in zone di lieve infettività.

La scoperta del parassita della malaria, gli studi di Marchiafava, Celli, Bignami, Golgi, Grassi etc., e l’avvento della teoria anofelica permisero nuove forme di lotta, imperniate sulla cura dei malarici, gli interventi antianofelici, la protezione della popolazione sana.

Fu emanata, allora, una serie di provvedimenti sul chinino di stato e sull’obbligo della profilassi chininica.

Pur tra molte difficoltà e resistenze, con questi provvedimenti iniziava, per l’isola, un capitolo di lotta antimalarica fondato sulla profilassi diffusa. Fino al 1926 non ci sarebbero stati interventi di tipo diverso.

I primi beneficiari del chinino furono i ferrovieri. I contadini, invece, ancora per lunghi anni, si videro dimenticati, anche perché la legge che faceva obbligo ai proprietari della distribuzione del chinino fu da costoro sistematicamente ignorata e disattesa. Non meno grave fu la latitanza delle amministrazioni comunali, per altro saldamente in mano ai ceti abbienti, che escogitarono ogni stratagemma per ridurre al minimo l’acquisto del chinino. La legge, infatti, prescriveva che il chi­nino anticipato dalle amministrazioni comunali, avrebbe dovuto essere rimborsato dai proprietari di terreni malarici. Niente fu fatto dai comuni dell’isola prima del 1904; ed anche allora l’intervento si ridusse a ben poca cosa. Le variazioni della morbilità restavano affidate al caso, allo sviluppo della fauna anofelica, alle vicende atmosferiche, piuttosto che a reali interventi antimalarici.

Un altro ostacolo alla diffusione del farmaco veniva dalla resistenza interes­sata di medici e di farmacisti: contrari all’adozione del chinino di Stato da parte dei loro clienti.

Certo lo stato delle finanze comunali spesso non era tale da permettere una massiccia lotta contro la malaria, ma, più frequentemente, era una questione di malvolere, data “l’avversione delle amministrazioni comunali a mettere a carico dei proprietari, una spesa, verso la quale costoro in generale si erano dimostrati molto ostili’’.

Per sopperire, in qualche modo, alla mancata applicazione delle leggi anti-malariche, la Croce Rossa, a partire dal 1905, diede il via ad una serie di campagne sanitarie, intervenendo nelle zone più colpite dal flagello.

La prima campagna fu realizzata nel Nisseno, tra gli zolfatai e i contadini, primi, però, ostentarono per la cura un’indifferenza “saracena”; i secondi “benchí diffidenti, anch’essi in principio, ben presto si accorsero dei benefici effetti chinici e volentieri vennero a richiedere il medicinale, ma siccome il lavoro li costringevi in gran parte a muoversi, a spostarsi in continuazione da un punto all’altro de vastissimi latifondi o da un latifondo all’altro, conveniva andarli cercando nelle aie, nelle tenute, nei diversi posti ove lavoravano. Alcuni poi emigravano addirittura appena finito quel lavoro per cui erano stati chiamati o per le esigenze della pastorizia e di essi si perdeva ogni traccia”.

La distribuzione diveniva quindi una fatica penosa e disagevole, specie ove si pensi che essa veniva fatta nei mesi di maggior caldo “sotto la sferza del solí cocente ed in terreni nudi, privi affatto di alberi, perché coltivati tutti a granaglie ( cereali o lasciati per pascoli”.

L’ambiente zolfataio e contadino in cui si svolse la campagna, ci consente d operare dei raffronti in ordine all’incidenza del morbo tra queste due categorie d lavoratori.

Vale la pena di ricordare che la miniera è uno dei luoghi più insalubri e pericolosi per chi deve lavorarvi. A parte gli incidenti e le malattie polmonari, anche 1; malaria occupa un posto di rilievo nella morbilità degli zolfatari. Ad essa s accompagnava, l’anchilostomiasi, scoperta nelle zolfare dell’isola da G. B. Grass nel 1882. Verso il 1898, tale morbo raggiunse proporzioni quasi epidemiche, tante che il governo dovette istituire una commissione speciale presieduta dal dottor G Giardina, medico provinciale di Palermo, con l’incarico di studiare il problemi dell’anchilostoanemia. Fino a quell’anno dalla maggioranza dei medici della zona zolfifera, l’anchilostomiasi era stata confusa con la malaria o con l’anemia dipendente dalla insalubrità del lavoro in miniera.

Quanto alla malaria, sebbene nell’interno delle miniere e nei canali di educazione delle acque fossero state trovate larve di anofeli, gli zolfatari contraevano i morbo soprattutto mentre si recavano al lavoro dato che si spostavano ogni giorno a piedi, dal paese alle miniere, attraversando territori intensamente malarici. Tutta via tra gli zolfatari la malaria era meno diffusa che tra i contadini.

Nel 1906 la sfera d’azione della Croce Rossa si allargò, mentre si registravi una situazione epidemica grave. Nel corso della campagna accaddero manifesta zioni d’intolleranza soprattutto a Burgio (Agrigento). Qui, nonostante gli abitant presentassero le “stimmate” della malaria si sparse la voce che “il Governo facev; distribuire dalla Croce Rossa un misterioso veleno sotto forma di confetti” e que sta prese maggior credito perché giusto in quell’epoca infierì in quelle contradi un’epidemia di scarlattina. La popolazione allora assunse un’atteggiamento minaccioso, e, fucile alla mano, costrinse l’infermiere addetto alla distribuzione ad allontanarsi.

Tra le contrade più colpite dell’Agrigentino erano i territori di Sciacca, Villa­franca, Burgio, Ribera. In quest’ultimo paese furono chinizzate più donne che uomini; molte delle malariche erano lavandaie: costoro per Ribera rappresenta­vano “un’istituzione tutta speciale, perché essendo il paese collocato sopra un alti­piano, privo di acqua, moltissime donne si recano al fiume Verdura per farvi il bucato. E vi accorrono numerose ogni giorno tanto le popolane che vanno a lavarvi la biancheria della loro famiglia, quanto le lavandaie di professione che vanno per il bucato dei signori. Tutte queste donne, variabilissime in rapporto all età, sono malariche”.

Esse accolsero favorevolmente il chinino ed andavano a ritirarlo talora “tre­manti per la febbre”.

Nell’Agrigentino, spiega il relatore della Cri, “mai nulla si era fatto o ben poco in qualche posto per attenuare almeno i disastrosi effetti della malaria, e dove a questo “si aggiunga la massima ignoranza dei contadini, imbevuti ancora di pregiudizi e le loro pessime condizioni igieniche, dipendenti dalla loro indi­genza e dalla loro incoscienza, ove si pensi che su queste genti pesa ancora il latifondo, con tutte le sue oppressioni e le sue infinite miserie, non potrà recare sorpresa l’incontrastato dominio della malaria”.

Al termine del primo decennio del Novecento, le campagne antimalariche sono meglio organizzate, mentre i pregiudizi sul chinino vengono, almeno parzial­mente, superati in conseguenza dagli “sforzi dei sanitari, della classe intellettuale, nonché dei maestri nelle scuole”.

Tra le classi popolari si fa il catechismo “dei moderni principi sull’origine, prevenzione e cura della malaria, nonché delle disposizioni di legge intese a com­battere l’infezione palustre”. Alla propaganda dell’ufficiale sanitario, si unisce, sempre più frequentemente, quella svolta “da ragguardevoli cittadini nei circoli di riunione, nei caffè, negli stabilimenti industriali e nelle campagne”. “Si comincia a capire – annota l’ufficiale sanitario di Traina – che con la profilassi del chinino si evita la malaria; che è meglio dormire poco di notte nei luoghi malarici e dormire, giacché d’ordinario i contadini dormono all’aperto d’està, su punti elevati e venti­lati, in guisa che non possono essere molestati dalle zanzare; infine, che la migliore precauzione per non fare attaccare di malaria donne e bambini, è quella di farli rientrare in paese per tempo”. In qualche paese, viene anche segnalata la diligenza dei proprietari nel distribuire il chinino.

E indubbio che, sia pur lentamente e con molte differenze tra una zona e l’al­tra, va formandosi una “coscienza igienica”; la struttura protettiva non solo delle campagne, ma anche delle città resta, però, inadeguata.

Non tutti i lavoratori beneficiavano in egual misura del chinino, molti di essi, come i mietitori e le spigolatrici, a causa dei brevi periodi di assunzione o per la mobilità continua, ne restavano privi.

Il fascismo tutto proteso a strappare consensi al mondo rurale, puntò subito ai traguardi della battaglia demografica e delle bonifiche, erogò sussidi e premi per diminuire le cause della malaria, istituì il Provveditorato alle opere pubbliche per le regioni dell’Italia Meridionale e la Sicilia.

Ancora nel 1926 gli interventi di piccola bonifica erano piuttosto limitati. Ciò fu variamente sottolineato durante la visita che una commissione sanitaria della Società delle nazioni effettuò nell’isola per lo studio del problema malarico.

Proprio nel 1926, però, iniziava l’attività del Provveditorato alle oo. pp. il cui programma era imperniato sul concetto di voler raggiungere il più efficace coordi­namento tra bonifica del suolo (piccola bonifica intesa cioè all’eliminazione di tutte le piccole cause di malaria, savanellizzazione delle acque stagnanti, coper­tura di pozzi, gebbie, colmate, scerbamenti, etc. disanofelizzazione con spargi­mento di verde di Parigi, petrolizzazione, salificazione, diffusione di gambusie, (pesciolini voracissimi di larve di anofeli) e la bonifica umana con la ricerca e cura del malarico cronico.

Si apriva così, per la Sicilia, una nuova fase della lotta contro la malaria nella quale alla profilassi chininica vennero ad aggiungersi interventi di piccola bonifica.

A Caltanissetta venne istituito un centro di preparazione della miscela di verde di Parigi da servire al fabbisogno di tutta l’isola; vennero inoltre creati dei vivai di gambusie; infine furono formate squadre di disanofelizzatori composte da due o più persone, coordinate dal Genio civile, perché intervenissero in lavori di sistemazione di canali di eduzione delle acque e soppressione di ristagni con opere a carattere temporaneo e, ove fosse possibile, permanenti; interventi antianofelici con mezzi disinfestanti: verde di Parigi, nafta, sale, gambusie per la distruzione delle larve; fumigazioni, liquidi insetticidi, e cattura, con apparecchi speciali, per la distruzione delle zanzare.

Nelle zone bonificate si verificarono anche significative variazioni della morbilità, la quale tuttavia non accennava a scomparire.

Nel 1938 e successivamente nel 1940, nella lotta antimalarica fu coinvolta la scuola: nelle scuole dell’isola venne diffuso una specie di catechismo dal titolo Brevi elementi di lotta antimalarica per i Balilla, nel quale venivano date notizie sulla malattia, le modalità di trasmissione, i danni sanitari ed economici arrecati, la prevenzione e la cura, la lotta contro le zanzare.

L’opuscoletto si conclude con un decalogo destinato ai giovani scolari ai quali viene raccomandato di:

  1. Prendere il chinino ed i medicinali sussidiari secondo i consigli del medico.

  2. Ricercare ed uccidere le zanzare.

  3. Non fare fossi (cave di prestito, fosse di abbeveraggio, ecc.) e colmare quelli esistenti.

  4. Riparare e diserbare i canali.

  5. Coltivare razionalmente la terra dando libero corso ai canali eliminando i ristagni.

  6. Tenere gli animali in appositi ricoveri.

  7. Rispettare i boschi e piantare nuovi virgulti.

  8. Vuotare almeno ogni otto giorni le vasche d’orto ed i tini di acqua e applicare il coperchio al pozzo e alla cisterna.

  9. Mettere in ogni acqua stagnante o che scorra lentamente i pesciolini antimala­rici.

  10. Applicare le reti metalliche alle finestre e soprattutto un velo sopra le culle ed i letti per impedire le punture delle zanzare.

Di li a poco lo scoppio della seconda guerra mondiale avrebbe ricondotto il problema malarico alla gravità di sempre; mentre assai poco era stato fatto per mutare la realtà del latifondo nel quale la malaria seguitava a trovare la sua culla.

I primi effetti della guerra si ebbero nel 1945 con un aumento di casi che rag­giunsero in tutta la Sicilia le 118.221 unità e dei morti che ascesero a 756; l’anno successivo le denunce furono 164.082 i morti 1075.

Per il 1943, allorché la Sicilia divenne campo di operazioni belliche non si hanno molte indicazioni. Nel ‘44 e ‘45 i casi di malattia superarono ancora le 100.000 unità. Un’indagine svolta dal 1941 al 1946 in una tormentata zona della Sicilia sud-occidentale – Raffadali e territori limitrofi – registra per quegli anni percentuali di malarici che su una popolazione di 12.300 abitanti, vanno dal 37,5 per cento del ‘41 al 2,6 per cento del 1946: la malaria giocava ancora il ruolo di diffusa malattia di massa. Solo i trattamenti col Ddt, iniziati nell’isola dagli eser­citi alleati, sperimentati nel 1945 dal Missiroli nell’Agro pontino, e dalla Fonda­zione Rockefeller nel delta del Tevere, avviarono, di lì a poco, il secolare pro­blema verso la soluzione, ponendo la parola fine ad un’altra storia di miseria, sot­tosviluppo e sfruttamento.

Le testimonianze fotografiche raccolte nel presente opuscolo si riferiscono ad un arco di tempo che va dal 1924 al 1931 e sono state reperite sulla «Rivista Sanitaria Siciliana» edita a Palermo.

Alcune accompagnano il resoconto della visita della Commissione Sanitaria della Società delle Nazioni, oltre gli interventi di piccola bonifica promossi dal Provveditorato alle opere pubbliche, altre ancora l’azione di divulgazione e educa­zione dispiegata dalla C.R.I..

Ad esse abbiamo volato aggiungere quelle che documentano la cura eliotera­pica del tracoma e l’organizzazione di una scuola all’aperto per bambini meno for­tunati dei nostri.

Tutte contribuiscono alla ricostruzione visiva di una pagina del “nostro” pas­sato, della “nostra” malaria, di quell’intreccio profondo e misterioso che lega la malattia nei suoi risvolti individuali e collettivi, all’economia, all’ambiente, alla società, condizionandone l’evoluzione e lo sviluppo.

Carmelo Vetro

Categoria: Storia SiciliaTag: storia sicilia

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