Introduzione
Le statistiche giudiziarie, sia di epoca borbonica che postunitaria, registrano a Palermo e nel suo circondario il primato quasi costante di tutti i tipi di reato commessi nel Distretto, comprendente le provincie occidentali, a più alto tasso di criminalità. Appare evidente che nella capitale coesistono, aggravate, tutte le cause di perturbazione dell’ordine pubblico in Sicilia.
Quel primato assume maggiore consistenza dopo l’Unificazione, quando il potere mafioso, emerso d’un tratto, pervade rapidamente la società e le istituzioni, condizionando pesantemente anche l’amministrazione della giustizia.
Il terrore rende muti i testimoni, difficile la formazione delle giurie nei processi d’Assise, fa crescere il numero dei “non luogo a procedere”, delle assoluzioni per insufficienza di prove, delle condanne a pene irrisorie. Anche nell’intimidazione mafiosa Palermo è subito in prima fila. “Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trar profitto dal suo ufficio […] Al centro di tale stato di dissoluzione, evvi una Capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dai capricci dei grandi. In questo umbelico della Sicilia, si vendono gli uffici pubblici si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza. Dal 1820 in poi, il popolo si solleva spinto dal malcontento, non dalle utopie del tempo…”1.
Le linee di questo quadro di Palermo, disegnato nel 1838, combaciano perfettamente con quelle della Palermo postunitaria: la città è sede dei più importanti uffici pubblici; residenza della classe dirigente; il Comune è un covo di affarismo e di sperpero; infiltrazioni mafiose rendono ingovernabile la gestione dei dazi;
I Relazione in data 3 agosto 1838 del Procuratore Generale del Re di Trapani Pietro Calà Ulloa al Ministro della Giustizia, in G. C. Marino, L’opposizione mafiosa,1996, pp. 23-24.
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la corruzione dilaga di pari passo con la criminalità; furti clamorosi vedono coinvolti perfino elementi della Questura; una mafiosità diffusa svolge opera di protezione e mediazione anche nei bassi strati della popolazione, nelle transazioni, per il recupero della refurtiva, nella prostituzione con i ricottari2 ; associazioni di categoria esercitano forme criminali di sindacato e di monopolio; l’ozio alimenta la criminalità, come testimoniano le statistiche giudiziarie, nelle quali sono evidenziati i vistosi aumenti del numero dei reati nei giorni festivi di cui è zeppo il calendario locale; lo scalo marittimo, al quale confluiscono i prodotti del circondario e dell’interno, alimenta il contrabbando che si avvale della protezione dei ladri di campagna, come è denominata l’organizzazione mafiosa almeno fino al 1864.
Una miriade di piccole aziende agricole a coltura intensiva, orti e giardini, costella tutta la Conca d’Oro fino alle pendici delle colline circostanti. E’ il regno delle cosche, dei guardiani, dei curatoli imposti dalla mafia ai proprietari.
Nel processo di espansione della mafia di campagna, la lotta per il controllo del territorio provoca talvolta scontri sanguinosi.
Al cospetto delle dimensioni e delle peculiarità del fenomeno criminale siciliano i primi funzionari piemontesi sono esterrefatti, sconcertati, indignati, si scoraggiano, talvolta chiedono il trasferimento3 o addirittura si dichiarano impotenti4.
Palermo è il centro direzionale dei movimenti politici radicali e sovversivi, dell’azionismo repubblicano e garibaldino, della cospirazione borbonica, del clericalismo reazionario: forze
2 A. Cutrera, i ricottari, ed. Il Vespro, Palermo 1979.
3 “Il Governo di S. M. […] è venuto nella determinazione di prendere l’occasione in cui (aderendo alle replicate sue istanze) sarà mandato costì un nuovo Luogotenente Generale…” Il Ministro dell’Interno al Luogotenente del Re in Sicilia (Montezemolo), Torino addì 29 marzo 1861, in G. Scichilone 1952, p. 72.
4 “Mentre lo stato della sicurezza è il tema della discussione […] un giornale ha pubblicato tal dichiarazione in nome del Prefetto di Palermo che ha sparso lo sconforto su tutte le classi perché la pubblica autorità si dichiara impotente a distrurre la setta dei ladri di campagna. Sorpresi da questo documento che toglie anche la speranza di un lontano miglioramento…”, in Mauro Turrisi — Grifeo (a cura di), N. Turrisi Colonna, Pubblica sicurezza in Sicilia nel 1864, ILA Palma , 1988 Palermo p. 19.
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conservatrici e progressiste, che nei primi anni del Regno d’Italia trovano un punto d’incontro nella comune avversione per il Governo della Destra storica e per lo Stato liberale.
Ma soprattutto Palermo è la sede del baronaggio politico, che deluso nelle sue pretese di speciali prerogative che gli garantiscano la perpetuazione in chiave liberale dei privilegi feudali per molti versi sopravvissuti all’eversione della feudalità, fa la fronda, e strumentalizza il disordine in funzione antigovernativa.
E’ un’opposizione scorretta, insidiosa, distruttiva, dalle motivazioni egoistiche che si ammantano di sicilianismo.
Il nerbo dell’opposizione regionalista è costituito da quella che era stata l’ala azionista, la Sinistra del partito liberale, a suo tempo chiamata da Garibaldi nel Governo dittatoriale. Ormai, staccata dall’azionismo e inserita nel sistema, prende le distanze dall’opposizione eversiva.
Il baronaggio politico, nel timore di favorire con la propria azione le spinte eversive, modera l’opposizione al Governo fino a quando, repressa la rivolta del settembre 1866 e disperso il fronte rivoluzionario, riprenderà l’iniziativa con l’opposizione mafiosa.
La rivolta del Sette e mezzo segna uno spartiacque fra due periodi per la diversa caratterizzazione del problema dell’ordine pubblico nel Palermitano.
Dopo la repressione dei moti si fa strada l’opinione che l’epoca delle rivoluzioni sia tramontata. E’ una novità che influenza l’ordine pubblico laddove toglie al mondo del crimine la prospettiva dell’apertura delle prigioni. Il pericolo eversivo perde consistenza, e dopo la meteora dell’Internazionale anarchica l’estremismo repubblicano e garibaldino rientra nella legalità, confluendo nel Socialismo e nei movimenti democratici ed operai.
Venuto meno il pericolo rivoluzionario, l’opposizione sicilianista acquista la libertà di manovra di cui mai aveva potuto disporre in precedenza.
I fatti del settembre 1866 presentano più di un lato oscuro.
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E’ stato posto l’accento sull’estraneità della classe dirigente siciliana, ma vari indizi la coinvolgono, insieme alla mafia, anche se inducono ad ipotizzare una regia mirata esclusivamente al conseguimento di risultati dimostrativi, quali saranno di fatto gli unici risultati conseguiti dalla rivolta. Ed è una dimostrazione di forza della classe dirigente siciliana e della mafia, accreditatesi come poteri capaci di manovrare e tenere sotto controllo le masse popolari.
Sintomatico a questo riguardo l’atteggiamento del Governo, che dalle precedenti posizioni di contrapposizione e di netta chiusura passa alle profferte di collaborazione, per altro prive di contropartita e perciò lasciate cadere dall’opposizione sicilianista. Si rinnova più aspro lo scontro. Con la prefettura Medici il Governo tenta di ridurre le cause economiche e sociali del dissenso popolare e di riacquistare prestigio con una decisa azione di polizia; l’opposizione mafiosa strumentalizza la straordinaria recrudescenza della criminalità verificatasi all’inizio degli anni Settanta, attribuendone la responsabilità alla politica della Destra storica. Si rinnovano ed aggravano le precedenti situazioni di ingovernabilità dell’ordine pubblico. Da tutti i settori della società monta la protesta per lo stato disastroso della pubblica sicurezza; esplode l’emergenza mafia mentre il brigantaggio domina incontrastato nelle contrade dalla Val Demone alla Val di Mazara.
L’ambiente in cui si sviluppa l’opposizione mafiosa nella prima metà degli anni Settanta riproduce perfettamente quello descritto da Nicolò Turrrisi Colonna nel 1864, quando “Cittadini d’ogni condizione, d’ogni colore politico, rappresentanze municipali, camere di commercio ed altri corpi costituiti fanno ogni giorno animate rimostranze al governo […] ogni giorno la cronaca della provincia di Palermo registra furti, omicidi, grassazioni d’ogni genere commessi sulle pubbliche vie e nelle campagne: eppure quelli che la stampa e la cronaca pubblicata dal questore della città e circondario di Palermo notano, non è che una frazione debolissima d’un numero assai maggiore di reati di questo genere che si commettono […] coloro che li soffrono
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non possono denunciarli senza timore di nuovi e più gravi mali.”5.
Il Governo sembra deciso ad intervenire con l’adozione di misure legislative eccezionali, per far fronte all’emergenza mafia, ma dopo la sconfitta elettorale subita ad opera del sicilianismo nelle elezioni politiche del novembre 1874 ogni iniziativa è rinviata. Rimaneva soltanto la legge istitutiva di una commissione parlamentare d’inchiesta. Nel 1876, dopo la caduta del Governo della Destra e la formazione del primo Governo della Sinistra, i lavori di quella commissione annunciavano le linee entro le quali si muoverà l’intesa tra la borghesia latifondista siciliana e quella imprenditoriale del Nord Italia: non esisteva una questione sociale in Sicilia, non esisteva una emergenza mafia. L’ordine pubblico sarebbe stato assicurato entro i limiti indispensabili per non esporre il Governo alle critiche dell’opinione pubblica interna ed internazionale.
Il Prefetto Malusardi, incaricato fra l’altro di ristabilire l’ordine in Sicilia, procederà con metodi sommari, con l’uso spregiudicato dell’ammonizione e del domicilio coatto, senza suscitare la minima protesta, anzi sostenuto dalla generale approvazione.
Il brigantaggio, che avvalendosi di una vasta rete di complicità a tutti i livelli imperversava nelle provincie di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta rimaneva improvvisamente nel più assoluto isolamento. Braccati dalle forze di polizia coadiuvate da squadriglie armate dai “proprietari”, alla fine del 1877 i pochi briganti scampati agli scontri concludevano la loro carriera consegnandosi alla Giustizia.
5 Ibidem, p. 17.
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Qualcosa è cambiata nella politica. Le decisioni del Governo trovano puntuale attuazione in Sicilia, non danno più luogo a polemiche. Un oscuro processo di normalizzazione mette la sordina al caso Sicilia, che alla fine del secondo decennio del Regno d’Italia non figura più tra le principali emergenze nazionali.
Sarebbe quello il risultato di una transazione intercorsa tra le forze conservatrici siciliane e quelle espresse dallo Stato liberale. Una tenebrosa transazione, i cui diversi aspetti problematici costituiscono altrettante questioni pendenti per la storiografia.
PARTE PRIMA
L’ingresso della Sicilia nello Stato liberale
CAPITOLO PRIMO
L’eredità borbonica
1.1. Condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia dopo la rivoluzione del 1848.
L’ultimo decennio del regime borbonico fu caratterizzato in Sicilia dal progressivo miglioramento della situazione dell’ordine pubblico; fu, quello, un successo notevole della gestione Maniscalco6, dovuto in gran parte all’efficienza del sistema giudiziario e di polizia .
Certo, le cause di perturbazione dell’ordine pubblico, le radici profonde del dissenso popolare e della criminalità in Sicilia, non erano state rimosse, ed anzi i metodi illiberali della repressione poliziesca avevano accresciuto l’odio contro il
6 Salvatore Maniscalco operò a Palermo dal 1849 al 1860, personificando la dinastia borbonica nell’Isola. Giunse a Palermo come capitano dei carabinieri nella spedizione di Filangeri, fu nominato Direttore di tutta la Polizia della Sicilia il 27 ottobre 1851.
Ebbe il merito di aver riorganizzato le forze di polizia del regime borbonico, introducendo i Militi a cavallo, che erano compagnie composta soprattutto da uomini reclutati in ambienti criminali o con individui compromessi nell’insurrezione del 1848, che anzicchè reprimere attrasse nell’orbita degli interessi borbonici. Oltre che grande poliziotto fu anche un geniale osservatore politico-militare. Dopo la capitolazione di Palermo si trasferì a Napoli dove entrò in contrasto con le idee della nuova ed inetta classe politica, fu così che scelse spontaneamente di assistere alla caduta della dinastia dei Borboni da Marsiglia dove si trasferì con la moglie e i suoi sette figli. Dall’esilio si astenne dall’attività cospirativa e si oppose ad ogni tentativo di restaurazione manu armata dei Borboni. Morì a Marsiglia nel giugno 1864. Tra il maggio 1862 e il maggio 1864 intrattenne un intenso rapporto epistolare sotto lo pseudonimo A. Frangipane con l’amico cav. Salvo dei Marchesi di Pietraganzili, Procuratore regio a Girgenti in periodo borbonico ed in seguito rifugiatosi a Malta (Lelio Rossi, Un carteggio di Salvatore Maniscalco, in La Sicilia nel Risorgimento italiano (periodico), fasc. I — II, luglio — dicembre 1932 — XI.).
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Borbone. Cosicché il male endemico sopravviveva allo stato latente, pronto a riesplodere.
Nella criminalità, costretta all’impotenza, crebbe un odio profondo, di cui nel 1860 subiranno le tragiche conseguenze gli uomini più compromessi del regime abbattuto e soprattutto i componenti delle Compagnie d’armi, dimostratesi fedeli fino all’ultimo’.
Nicolò Turrisi Colonna, che nel 1848 era stato deputato al Parlamento siciliano, membro del governo provvisorio e, nel 1849, presidente del Comitato di guerra, con la competenza che non si può non riconoscergli, descrive lo stato della pubblica sicurezza in Sicilia negli ultimi anni del Regno borbonico ed indica le ragioni degli ottimi risultati conseguiti; tra i fattori del successo, egli considera determinante quella sorta di DIA ante litteram che fu la Direzione generale di polizia, dimostratasi capace di coordinare l’azione delle forze dell’ordine in tutta la Sicilia e di armonizzare l’attività esecutiva con quella giurisdizionale:
“…quest’uomo (Maniscalco) che non mancava d’intelligenza, di energia militare, di conoscenza particolare dell’isola […] comprese che doveva servirsi delle compagnie d’armi […] Maniscalco qual direttore generale di polizia per tutta l’isola ne prendeva il comando e la direzione. In poco tempo dall’unità d’azione e reciproco aiuto che le compagnie d’armi si prestavano, si ottennero i più soddisfacenti effetti e puossi dire che nel terribile decennio dal 1849 al 1859 malgrado che un’amnistia generale dei reati comuni aveva riabilitato tutti i prevenuti e i condannati, pure, la sicurezza delle strade pubbliche, delle fattorie, delle campagne in generale, fu in Sicilia in quello stato che solo possono godere i civili paesi d’Europa; […] In quest’epoca la giustizia punitrice funzionava con molta energia perché in tutta l’isola erano i giudici di circondario (oggi mandamento) investiti dell’ufficio di ufficiali di polizia ordinaria col quale mezzo non avevano limiti nelle indagini, e poi come ufficiali di polizia giudiziaria istruivano i processi e condannavano i rei convinti di reati portati ad una data pena. Oltre i 175 giudici di circondario era un numero considerevole di istruttori […] Commesso un reato, l’azione della polizia e della magistratura era così sollecita e concorde che difficilmente le prove sfuggivano […] Un’alta commissione di magistrati scrutinava la condotta dei giudici di circondario, di questa faceva parte principale il direttore generale di polizia, il quale con questo mezzo teneva a se dipendenti tutti i giudici istruttori, e li spingeva poi alla massima energia nell’istruzione dei processi.” 8.
‘Mauro Turrisi Grifeo (a cura di ), N. Turrisi Colonna — “Pubblica sicurezza in Sicilia nel
1864″ — ILA PALMA — Palermo — 1988 — p. 40.
8 Ibidem, pp. 32-33-34.
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Il problema dell’ordine pubblico nell’isola comincia ad essere affrontato con determinazione nell’ambito del progetto di ammodernamento politico voluto da Ferdinando II all’inizio degli anni trenta dell’ottocento. E’, infatti, in questo periodo che in Sicilia si cerca di abbattere realmente il regime feudale, solo formalmente abolito nel 1812, di introdurre un moderno sistema amministrativo civile e giudiziario e di avviare lo sviluppo industriale. Tuttavia i primi risultati positivi in materia d’ordine pubblico si registrano a seguito della repressione messa in atto dal ministro di polizia Del Carretto, “che divenne proverbiale per la efficienza e la ferocia dimostrata nell’espletamento delle sue funzioni…”9.
Al netto miglioramento della situazione dell’ordine pubblico nell’isola e all’introduzione delle riforme ammodernatrici corrisponde l’acuirsi dell’opposizione aristocratica isolana che avrà il suo culmine nella rivoluzione del 1848 e nei sedici mesi di anarchia e disordine che ne seguiranno. Ma è proprio a questo evento che seguirà la reazione borbonica che porterà ai risultati dell’ordine pubblico registrati nel 1850 e che dureranno per tutto il decennio fino all’aprile del 1860. A questa conclusione si è pervenuti esaminando dati estratti da documenti dell’epoca, conservati nell’archivio di Stato di Palermo10, che dimostrano la diminuzione dei reati commessi in Sicilia e a Palermo in quel periodo e come la tranquillità dell’ordine pubblico, conseguita negli anni cinquanta, sia cessata con la rivoluzione del 1860, quando dalle carceri di Palermo dell’Arsenale e dell’Ucciardone uscirono circa dodici mila criminali, parte dei quali andarono ad ingrossare le fila dei “picciotti”.
L’analisi di questi documenti ci svelerà l’organizzazione della giustizia nel periodo borbonico, la tipologia dei reati, l’importanza attribuita a questi ultimi dalle forze di polizia e
9 F. Renda — “Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 ” — vol. I — Sellerio Ed. Palermo – 1987 p. 61.
l° Archivio di Stato di Palermo — Gancia – Fondo: Ministero Affari di Sicilia — Grazia e Giustizia — busta: 2131.
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dalla magistratura, ed altri elementi che rimarranno invariati anche dopo l’Unità d’Italia e che, quindi, ritroveremo quando parleremo delle statistiche giudiziarie del primo ventennio del Regno d’Italia.
Le denuncie dei misfatti venivano catalogate in cinque gruppi principali di reati:
Misfatti contro la religione, che sostanzialmente era il reato di bestemmia in luogo pubblico.
Misfatti contro lo Stato, che comprendevano i misfatti contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato ed il reato di conservazione di oggetti settari.
Misfatti contro l’amministrazione e la fede pubblica, l’ordine e l’interesse pubblico. In questo gruppo erano compresi i seguenti reati: uso privato dei mezzi della pubblica autorità, oltraggi e violenze contro i depositari della pubblica autorità e contro gli agenti della forza pubblica, falsa testimonianza, concussione, corruzione di pubblici ufficiali ed impiegati, malversazione di funzionari pubblici, misfatti in materia di sussistenze pubbliche e di pubblici incanti, esercizio abusivo di autorità contro l’interesse pubblico e privato, violazione di pubblici archivi e luoghi di custodia, falsità di moneta, di decisioni, di cedole, di sigilli e bolli dello Stato e di pubbliche e private scritture, misfatti in materia di stampa e di scritti, misfatti in materia di giuochi e di azzardo e di private lotterie, misfatti in materia di commercio, manifatture ed arti, infrazioni alle leggi sanitarie, misfatti in materia di comitive armate, asportazione d’ armi vietate.
Misfatti contro la persona e l’ordine delle famiglie, dove venivano registrati gli stupri violenti e i ratti, occultazioni, soppressione e sostituzione di fanciulli, parricidi, omicidi premeditati, venefici, omicidi volontari, ferite e percosse, aborti.
Misfatti contro la proprietà, categoria comprendente furti qualificati, frodi qualificate, incendi, guasti e danni.
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1.2.
Che Palermo fosse, con il suo circondario, la città più rappresentativa dei problemi dell’ordine pubblico nell’isola, è dimostrato dalle cifre dei reati denunciati nel 1850, che, anche se non rappresentano l’intero numero dei reati commessi, sono pur sempre indice dell’attività dell’amministrazione della giustizia nei vari distretti.
In quel periodo la Sicilia era divisa in sette Grandi Corti giudiziarie; questa suddivisione rimase in vigore fino al giugno 1862, quando una nuova riforma ridisegnò i distretti, le circoscrizioni e i mandamenti, eliminandone alcuni ed introducendone altri.
Nel 1850 a Palermo furono commessi 1523 reati, a Messina 898, a Catania 850, a Noto 458, a Girgenti 716, a Trapani 937, a Caltanissetta 619. Questi dati confermano, anche, il divario di reati commessi tra la parte occidentale dell’isola e la parte orientale, mediamente più tranquilla, sia in periodo borbonico che nel primo ventennio del Regno d’Italia. Tra la massa enorme di cifre riportate sono state ritenute più significative quelle relative ai furti qualificati, che vedono Palermo in testa con 1072 denuncie contro le 578 di Messina, 560 di Catania, 293 di Noto, 443 di Girgenti, 702 di Trapani, e 429 di Caltanissetta; e quelle degli omicidi volontari dove Palermo primeggia con 151 denuncie contro le 76 di Messina, 71 di Catania, 23 di Noto, 62 di Girgenti, 67 di Trapani e 62 di Caltanissetta. Le proporzioni tra i gruppi di reati sono le seguenti: i misfatti contro la religione, con 27 denuncie, rappresentano l’uno per cento dei reati avvenuti nel 1850 in Sicilia; i misfatti contro lo Stato, con 42 denuncie, sono l’uno per cento; quelli contro l’amministrazione e fede pubblica, con 427 denuncie, sono il sette per cento; quelli contro le persone, con 1114 sono il diciotto per cento; i reati contro la proprietà, con 4391 denuncie, rappresentano il settantatre per cento dei reati commessi nell’Isola nell’anno preso in considerazione’l.
” Ibidem.
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Premesso che in periodo borbonico ai reati contro la proprietà veniva attribuita un’importanza minore rispetto a quella attribuitagli in periodo unitario, c’è da osservare che “…quantunque grave sembri la cifra de’ reati contro la proprietà tuttavia è da riflettersi che attesa la responsabilità che hanno i capitani d’armi di indennizzare de’ furti i derubati, veggonsi denunciati alla giustizia moltissimi furti che poi col processo svaniscono;” 12.
Il trend positivo dell’ordine pubblico in Sicilia, negli anni che vanno dal 1843 al 1846 e nel 1850, emerge dalle tavole statistiche ricavate dai documenti redatti dal Generale in capo Luogotenente Generale interino Duca di Taorminan:
Confronto quinquennale delle istruzioni | |||
Anni | Pendenti | Disbrigati | Residuali |
1843 | 9787 | 8210 | 1577 |
1844 | 11453 | 9559 | 1894 |
1845 | 10212 | 8662 | 1550 |
1846 | 10160 | 8254 | 1906 |
1850 | 8732 | 7954 | 778 |
TAVOLA N. 1
12 Ibidem.
13 Ibidem.
Atti d’accusa degli agenti del PubblicoMinistero | |||
Anni | Atti d’accusa | Conclusioni in | Totale |
1843 | 1538 | 1488 | 11289 |
1844 | 1698 | 1566 | 21150 |
1845 | 1797 | 1660 | 23632 |
1846 | 1814 | 1814 | 22672 |
1850 | 1408 | 1408 | 19383 |
TAVOLA N. 2
Cause decise in camera diconsiglio | |||
Anni | Atti | Conclusioni | Totale |
1843 | 1538 | 1488 | 11289 |
1844 | 1698 | 1566 | 21150 |
1845 | 1797 | 1660 | 23632 |
1846 | 1814 | 1814 | 22672 |
1850 | 1414 | 1408 | 19383 |