Nella Cattedrale di Girgenti si trova un quadro molto pregevole per valore artistico e per significato religioso ma è pochissimo noto ed intorno ad esso poco o nulla si sa. Una tradizione orale del luogo afferma recisamente che e di Guido Reni, ma esso non si riscontra in alcuna raccolta né in alcun catalogo di dipinti del grande artista bolognese, e se ne ignora la provenienza più prossima e sinanco il concetto che rappresenta.
Queste poche pagine, perciò, mirano a due cose : innanzi tutto a fare un esame attento ed un’interpretazione del quadro, che ne accresca la conoscenza, e poi a presentare qui raccolte quelle sparse notizie che su di esso ho potuto racimolare di qua e di là, per fornire un punto di partenza ai competenti od a chiunque potrà avere maggiore possibilità di stabilire in modo sicuro la paternità e la provenienza di esso.
Il quadro, riguardo al soggetto, è semplicissimo perché rappresenta soltanto una Madonna col Bambino; ed anche riguardo all’atteggiamento delle due figure è quanto di più naturale si possa immaginare, giacché il Bambino dorme nel grembo materno e la Madonna sta in atteggiamento pensoso.
Questo e null’altro vi hanno visto generalmente quanti lo hanno guardato più o meno attentamente, più o meno superficialmente, anche perché la tela non presenta altre particolarità pittoriche né attorno alle figure né nello sfondo.
Nondimeno chi l’osservi attentamente e lungamente sente che l’impressione di bellezza e di soavità, che se ne riceve a tutta prima, anziché risolversi e distrarsi in più minute osservazioni di dettaglio, cresce man mano di intensità; la sua intensità; la sua attenzione si concentra sempre più sull’espressione di quelle due figure;
ne subisce una suggestione profonda e si avvede di varie cose non avvertile a prima vista : si avvede cioè che tale suggestione non è effetto della sola espressione di esse; che una mirabile rispondenza intima è fra le medesime; che esse vivono di una vita, la quale non è soltanto la vita stereotipa del lineamento e del colorito, dell’atteggiamento e dell’espressione, ma è principalmente vita interiore; e finalmente che questa loro vita interna emana, come vedremo, da un segreto pensiero molto forte e profondamente cristiano. Segreto pensiero che il grande artista seppe fermare e far lampeggiare, in modo immanente, attraverso il velo dell’affettuosa e pensosa bellezza che è in quei due volti.
L’effetto di questo quadro, perciò, è tale che ci fa sentire di essere dinanzi ad un superamento delle stesse Madonne di Raffaello. È stato giustamente osservato che nelle tele dell’Urbinate, Maria non è più un’astrazione come nelle composizioni primitive, ma una donna e una madre di questa terra.
Ciò è anche un po’ troppo vero, tanta bellezza è nei volti e nelle forme delle Madonne raffaellesche; tanta umanità è in esse e nelle figure che le circondano; tanto senso della natura è diffuso così nelle figure come negli sfondi. In queste tele però, se Maria è veramente donna e madre, non è ancora la madre del Cristo.
Quella loro straordinaria bellezza è soltanto pienezza e splendore, plasticità ed armonia di forme, ma non è ancora spiritualità cristiana fatta di dolore e di forza interiore. L’umanità di quelle Madonne, per quanto graziosa e fine, è ancora un’umanità elementare, fatta di nobiltà e dignità di atteggiamenti esteriori, animati solo da un purissimo ma troppo naturale sentimento di maternità e da un senso d’infantile innocenza : questa umanità non assorge ancora alla religiosità fatta di sereno e completo abbandono in Dio.
Il limpido naturalismo, che è diffuso nell’ambiente delineato attorno alle Madonne di Raffaello, in alcune tele riflette un senso di delicato pietismo quasi monacale, in altre tele un’eleganza tutta nobiliare ed aulica, in molte altre invece una semplicità villereccia e bucolica; ma in nessuna di quelle tele l’ispirazione ed il naturalismo di Raffaello raggiungono e riproducono mai l’austera storicità di qualche episodio o di qualche concetto di quel grande movimento cristiano in cui Maria ebbe, e continua ad avere, un’efficienza sentimentale tanto grandi ed alta.
Ora appunto questo carattere finemente e giocondamente pagano delle Madonne del Rinascimento, — frutto dell’incessante studio, che durante quel periodo si versò sulla bellezza classica, tutto inteso alla conquista dello nobili forme umane, — pare superato, ed in modo meraviglioso, in questa Madonna del Reni, che trovasi in Girgenti e che vale perciò la pena di esaminare attentamente.
Questa tela è un rettangolo a fondo oscuro, il primo effetto, che il dipinto ha, si è l’assenza completa di posa nelle due figure. Non sono esse che si mostrano, né vivono di quella vita estetica che le figure generalmente assumono sulle belle tele. No, non sembra che esse vivano sulla tela; sembra piuttosto che il riguardante le sorprenda, in uno squarcio di ombra casalinga, assorte ambedue in un istante di quiete infinita. A chi poi lo contempli intensamente presenta due visioni, una che si vede, l’altra che s’intravede; l’una esteriore e presente, l’altra interiore e lontana. La prima si vede nella realtà materiale del quadro e consiste appunto nelle due figure della Madonna e del Bambino: di ciascuna delle quali assai notevoli sono l’atteggiamento, la bellezza e l’espressione.
La Madonna è tratteggiata solo dalla cintola in su; si suppone seduta e tiene disteso sul grembo il Bambino, che circonda col braccio destro, mentre tiene appoggiata la faccia sul dorso della mano sinistra piegata a sostegno della guancia, in quel tranquillo atteggiamento di madre che tace e pensa, vegliando sul figliuolo dormente.
É una figura bellissima, ma di una bellezza che direi quasi non promani dalle forme. Giacché dall’ombra dello sfondo e dal panneggio ampio e semplice, che circonda il busto della Vergine, le forme, che più emergono sotto un giuoco stupendo di luce, sono soltanto la faccia e la mano sinistra ; una faccia in cui il taglio dell’ovale è regolarissimo e soave, ed una mano morbida e flessuosa.
Ma queste stesse, che sono tra le parti più espressive della bellezza femminile, qui lambite da una blanda luce non s’impongono all’occhio, avido di formosità, per uno splendore esteriore, ma, con un acuto senso materno e con una mansueta spiritualità che ne traspira, infondono come un ristoro nell’animo di ogni riguardante assetato di serena dolcezza e di purissima umanità. Ciò è effetto non soltanto della bellezza soave, ma anche della particolare espressione di questa figura.
La quale col viso e colla persona parrebbe tutta rivolta a contemplare il figliuoletto dormente nel suo grembo (la solita dolcissima contemplazione di tutte le mamme), ma,—si noti bene, — i suoi occhi sotto le grandi palpebre abbassate sono invece astraiti dal bambino e dal mondo esterno e sembrano intenti ad una visione interna. Si direbbe che non una luce esteriore, ma un segreto pensiero rischiari quella faccia.
Dall’assorta compostezza del volto e di tutta la persona agli occhi intenti e senza sguardo, alle sopracciglia lievemente tese e a quella ruga che mette un’ombra sul sopracciglio destro un po’ inarcato, tutto esprime un pensiero intensamente vissuto ed assorbente. E a me pare che il segreto, che dà vita e significato a tutto il quadro ed in cui l’atteggiamento, la bellezza e l’espressione della Madonna si legano coll’atteggiamento, colla bellezza e coll’espressione del Bambino con una rispondenza del tutto intima, stia appunto in questo pensiero della Madonna, il quale, come chiaramente si vede, è occasionato dalla contemplazione del Bambino. Che cosa pensa, dunque, questa soave figura di Madre?
Ma che cosa può pensare? Pensa a quel che tutte le madri sogliono pensare vegliando sulla culla di un figlio. Evidentemente essa è presentata in quell’istante dolcissimo in cui ogni madre si abbandona a fantasticare sulla vita e sull’avvenire della propria creatura, con questo di più che alla dolce Madre di Gesù è già noto il tragico destino che attende il suo figliuolo.
Il Bambino dorme. Esso non è un infante. Bisogna fare attenzione chela sua figura delineata sino al ginocchio è quella di un florido e ben sviluppato fanciullo in quell’età in cui l’uomo già cammina e parla. Abbattuto da un sonno profondo il suo corpo parte giace sul grembo della Madre, parte poggia sul di Lei braccio e, nel proscioglimento delle sue membra, le spalle e le braccia sono completamente abbandonate; le dita della manina destra son rimaste intrecciate colle dita della mano materna, e il capo è dolcemente rovesciato indietro mettendo in piena
luce un collo meraviglioso. Al contrario che nella figura della Madonna, in questa del Bambino, che è presa in tutta la sua molle nudità, la bellezza è tutta splendore di forme. E l’occhio avido di bellezza esteriore in questa innocente nudità può addirittura dissetarsi di candore e di morbidezza, di compostezza e di armonia.
Egli dorme. Questo sonno del Bambino riceve sotto il viso pensoso della Madre, uno straordinario risalto. Chiunque, guardandoli ambedue, si fa pure pensoso.
Non so perché al lampo di luce blanda, che batte sulle due figure, quel bel corpo disteso con tanto abbandono sulle ginocchia materne, quel volto tondeggiante e paffutello, ma con le palpebre chiuse in un sonno profondo, quella boccuccia dischiusa ad un respiro placido, ma senza un sorriso, quella testa adorabile rovesciata indietro e quella fronte serena battuta in pieno dalla luce, ci facciano pensare al sonno di un innocente predestinato ad un destino di dolore e di morte è forse perché noi, conosciamo già quale fu la fine di quest’ in nocente o piuttosto perché l’artista volle presentare la Madonna e il Bambino in quel rapporto intimo in cui li presenta il Vangelo?
Certo ambedue le suggestivefigure, quella della Madre come quella del Figliolo, son composte in un abbandono sereno e totale di sé quale è proprio di chi senta che vi è una legge ed una potenza che avvolge la nostra vita, che non si piega a noi, ma che esigeche noi ci pieghiamo ad essa.
Ambedue queste figure, con quella loro semplicità, che è il contrassegno del naturale, del vero e del divino, sembrano le più adatte e le meglio delineate per esprimere quella che, secondo il Vangelo, dovette essere la vita spirituale della Madonna in rapporto al Bambino, ad esprimere cioè quello, che poi è l’interno dramma semplice ed eterno che avvince le due esistenze della Madre e del Figlio dinanzi al gran mistero della vita. Invero quel segreto pensiero, in cui la Madonna qui è visibilmente assorta, ci fa intravedere un’altra visione, una visione del lutto interiore, ma tragica e lontana, cioè la visione di quel che la profetica parola del vecchio Simeone preannunziava alla Vergine sin dai primi giorni dalla nascita di Gesù, e che il Vangelo riporta per l’appunto a proposito dell’infanzia del divino Figliuolo di Maria : —
“ Il Bambino cresceva e si irrobustiva pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di Lui però era destinato ad esser causa di rovina e di resurrezione per molti in Israele e a diventare un segno di opposizione. E quest’opposizione doveva, come una spada, trapassare l’anima della Madre sua”.
Torturante presagio che non doveva mai più scompagnarsi dal pensiero della Madre quante volte Essa avrebbe vagheggiato il dolcissimo frutto del suo seno, che doveva trasformare d’un colpo tutta la sua vita di madre, dal principio alla fine, in una via crucis verso il supremo olocausto, e che doveva informare la sua anima ad una rassegnazione infinita.
Certo nessuno può con sicurezza affermare che il concetto ispiratore dell’artista sia stato precisamente questo. Ma non è improbabile che lo sia stato, innanzitutto perché, come abbiamo visto, un attento esame del quadro lo dimostra ben suscettibile di una tale interpretazione, e poi perché uno dei caratteri della pittura all’epoca del Reni si era appunto «il sentimento tragico che già si faceva strada nella letteratura e nella religione e… che i bolognesi (della cui scuola il Reni è un rappresentante precipuo) seppero contenere entro giusti confini, combattendo le esagerazioni di cui si macchiarono gli altri (1)
Rintracciare le prove documentarie della tradizione, che a Reni attribuisce questo quadro, per quanto mi vi sia messo con tutta buona volontà, non è stato finora possibile. Però è di particolare importanza il giudizio che Corrado Ricci diede sulla paternità di esso.
Trovandosi, verso la primavera del 1914, a visitare insieme colla distinta sua signora la Cattedrale agrigentina ed avendovi osservato con molto interesse questo quadro, di fronte a persona ragguardevole per dignità e cultura (la quale, data la mancanza di documenti, dubitava che questa sia un’opera di Guido Reni), mi dicono che uscisse in queste parole: « Invece io ritengo che questo quadro sia proprio del Reni.
Che, se di lui non fosse, dev’essere del suo migliore discepolo. In ogni caso, esso è sicuramente, uscito dalla bottega di Guido». Dopo le parole di un tanto maestro concludo questa parte con una osservazione e con un augurio.
L’osservazione si è che un attento esame del quadro persuaderebbe, che questa sia anzi uria delle tele più meditale del Reni, clic presenta una bella sintesi ed un armonioso contemperamento delle due maniere (quella tetra e forte del Correggio e quella brillante e soavemente graziosa del Carracci) da lui successivamente preferite.
L’augurio poi si è che, su questo quadro, possa fermarsi l’attenzione dei competenti affinché un loro ponderato esame valga a stabilire la paternità di questa mirabile opera dell’arte italiana e, nello stesso tempo, a provocarne la più larga diffusione, per mezzo di ben fatte riproduzioni, non soltanto a consolazione degli amatori dell’urie, ma anche nel campo del culto religioso ad addolcire gli animi colla visione di questa immagine spirante pace e rassegnazione consapevole e dolcissima.
Rimane intanto il quesito: da quali mani direttamente il quadro proviene?
«La Madonna di Guido Reni in Cattedrale è dono di Desiderio Sammarco». Questa è l’unica notizia che abbiamo sul quadro e sulla provenienza di esso, ed è il semplice accenno che, tra gli storici locali, ne fa il solo Lauricella. 2
Questi è senza dubbio il più intelligente, il più coscienzioso ed anche quello, tra gli studiosi delle memorie ecclesiastiche locali, che aveva maggior conoscenza degli archivi della Cattedrale agrigentina.
Quindi questa affermazione, che egli fa incidentalmente nelle sue notizie storiche sul Seminario di Girgenti con la tranquilla sicurezza di chi conosca le prove di quanto afferma, merita ogni fiducia. Però, siccome della notizia non indica la fonte da cui l’attinse, è stato necessario fare delle ricerche nell’Archivio Capitolare della Cattedrale ed altrove per rintracciare il documento, su cui si sia per avventura fondata la di lui affermazione o che potesse comunque rischiarare la provenienza dei quadro. Ma le ricerche, che ho potuto compiere finora, sono riuscite vane. 3
La notizia del Lauricella perciò, per quanto attendibile, era e rimane tuttavia priva di un documento che la corrobori. Essa inoltre lascia aperto l’adito alle seguenti domande:
1“ Quale persona era Desiderio Sammarco per possedere un quadro così pregevole?
2 Dove e come egli aveva potuto acquistarlo?
3 – Quando a sua volta poté averlo donato alla Cattedrale di Girgenti ?
Relativamente a ciascuna di queste domande le mie ricerche sono riuscite solo a raggranellare alcune notiziole, che ci danno le prime linee biografiche di un cultore del diritto ecclesiastico vissuto in mezzo alla migliore società del Settecento siciliano, quale fu il Sammarco, ma die qui espongo unicamente perchè collimano con l’affermazione del Lauricella in modo da suffragarla ed hanno perciò un valore almeno indiziario per la presente ricerca.
- — Desiderio Sammarco La Torre, nato a Canicattì il 27 aprile 1706, (4) fece i suoi primi studi nel Seminario di Girgenti (5) e li completò nell’annesso Collegio dei SS. Agostino e Tommaso (6) dove allora lo studio delle principali discipline ecclesiastiche, e specialmente delle giuridiche, fioriva. Poi fu vicario generale della Chiesa di Cefalù, (7) Nel febbraio del 1701, trovandosi egli in Palermo, venne eletto canonico della cattedrale di Girgenti e prese possesso di quel canonicato, a mezzo di procura, (8) il 5 marzo di quell’anno (9). Nel novembre 1762 fu promosso arcidiacono di questa stessa cattedrale dove il 29 dicembre 1775 veniva eletto temporaneamente vicario generale, (10) tenendovi però la carica di arcidiacono tino alla sua morte che avvenne il 27 luglio 1793 in Canicattì. (11)
Si distinse nella conoscenza del diritto ecclesiastico in guisa da lasciare un nome in tutta l’Isola. Domenico Scinà nel suo Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia, scrive di quell’epoca: «Né meglio si può osservare quanto si era progredito nel diritto ecclesiastico, che riandando la gran contesa per la collazione dei canonicati di Girgenti nella sede vacante». Ed aggiunge: «Gli scritti presentali dall’arcidiacono Desiderio Sammarco (e da altri) chiaro ci attestano quanto ben si conosceano le regalie e in che opinione si tenessero le famose regole di cancelleria ». (12)
Che il Sammarco fosse un uomo molto colto ed amante della cultura appare anche dal fatto che fu molto sensibile e partecipe a quella efficace e benefica bibliofilia del tempo, che portò, proprio allora in Sicilia alla prima costituzione d’importanti biblioteche pubbliche come in Palermo, in Girgenti ed in quasi tutte le principali città. Egli, infatti, dopo di essersi con grandi sacrifizii formato una biblioteca, la donava nel 1785 alla gioventù studiosa ed indigente della sua natia Canicatti. (13)
Ma quel che più importa si è che egli fu anche un amatore di belle arti. Di lui è stato scritto che nella sua casa di Canicattì avesse raccolto una pinacoteca di gran pregio, nella quale avrebbe avuto anche quadri attribuiti a Velasquez. (14)
- — Ma dove e come egli fosse venuto in possesso di quei quadri, ed in particolare del bel quadro di Guido Reni, non è detto. Qualche traccia in proposito si può intravedere nei principali centri, in cui egli si trovò, e nelle relazioni che poté contrarvi. A Cefalù fu chiamato come vicario dal Vescovo Valguarnera, il quale apparteneva ad una famiglia principesca che tanta parte aveva nell’alta società di Palermo. Fu anche a Palermo e molto probabilmente anche a Napoli, che, come è risaputo, erano le due capitali del Regno delle due Sicilie e nelle quali perciò risiedevano le alte sfere politiche ed ecclesiastiche. In ambedue queste città il Sammarco godette considerazione appunto da parte delle sfere ufficiali per la sua grande competenza nel dritto.
A Palermo trovavasi nel l76l perché chiamatovi, probabilmente come consulente presso quella Regia Magna Curia. In data del 3 aprile di quell’anno infatti il Viceré M.se Giovanni Fogliani di Aragona, già primo ministro di Carlo III in Napoli, scriveva da Palermo al Capitolo di Girgenti quanto segue : < Essendo il Can. D. Desiderio Sammarco occupato qui per servizio reale, vengo in pertanto in partecipare ciò a cotesto Capitolo, affinché lo tratti come prescrivono i Canoni per coloro che per servizio del sovrano sono assenti dalla loro chiesa ». (15)
Sullo stesso tenore insisteva il Viceré di fronte a certe difficoltà del Capitolo con altro suo biglietto del 22 ottobre dello stesso anno. (16)
A Napoli il Sammarco deve essersi recato tra il Ì775 e il 1776, giacché in quest’ultimo anno egli pubblicava colà, presso i Fratelli Raimondi, un suo lavoro a sostegno di certi dritti della Corona, cioè sulla regalia piena dei re di Sicilia in tutte le chiese vacanti del reame. (17)
Or lui, uomo colto e come si è visto, amatore di cose di arte, e specialmente di quadri, trovandosi in Palermo e in Napoli (nella quale ultima il Reni si era trovato nella prima metà del sec. XVII) a contatto con gli elementi più colti, non è improbabile che abbia potuto trovarvi ed acquistare o anche ricevervi in dono la nostra Madonna del Reni.
3 — La donazione di questo quadro alla Cattedrale può essere avvenuta, da parte dell’Arcidiacono Sammarco, all’epoca della sistemazione dei due altari dei Sette SS. Vescovi Agrigentini e dei SS. Dottori della Chiesa.
Questa idea viene suggerita innanzi tutto dal fatto che nella sistemazione di quei due altari il Sammarco ebbe una certa parte attiva, in secondo luogo dal fatto che il quadro stesso del Reni porta in sé ì segni di tale sistemazione, e finalmente del fatto che questo, sino ad epoca recente, si trovò sempre collocato come sottoquadro appunto sull’altare dei Sette SS. Vescovi.
I due altari anzidetti con le tribune relative, uguali ed in tutto corrispondenti fra di loro per grandezza, per simmetria e per il loro stile barocco, sorgevano (18) l’uno di fronte all’altro nelle due estremità del transetto, cioè di quella parte della Cattedrale che forma il braccio trasversale della croce latina e che corre sotto la cupola separando le tre navate dalle tre absidi. Fino al 1657 questi due altari non esistevano ancora e perciò le due estremità del transetto presentavano per le anteriori vicende di questo tempio, molta diversità stile e molta asimmetria. (19) Perciò, in tempi posteriori al 1667, con lo scopo evidente di dare a questa parte centrale della Chiesa quella simmetria, quell’unità di stile ed anche quella certa eleganza di cui, secondo i gusti del tempo, essa mancava, sulle opposte pareti di Nord e di Sud s’innalzarono due grandi altari entro due alte tribune con enormi e barocche colonne a spirale e sormontate alla trabeazione da due grandi scudi coronati, che arrivavano quasi alla cornice. Però la sistemazione di questi due nuovi altari si effettuò successivamente, un po’ per volta, ma, — si noti bene, — con evidente criterio di renderli uniformi e corrispondenti in tutto e quindi anche nell’arredamento.
II primo ad essere sistemato pare sia stato l’altare di Nord. In esso fino al 1761 trovavasi un quadrone di S. Tommaso; (20) ma nel dicembre di quell’anno il Capitolo deliberava di dedicarlo ai Sette SS. Vescovi e Patroni della Chiesa Agrigentina (21) e di far dipingere ull’uopo, i sette santi tutti insieme in un grande quadro da collocarsi sul detto altare. (22) Il quadro fu eseguito dal pittore Francesco Sozzi per onze sessanta. Compiuto, fu collocato sul detto altare verso il giugno del 1774.(23) Allora l’Arcidiacono Sammarco portò al Capitolo la mproposta di vendere lo smesso quadrone di San Tommaso per onze venti. 1 Non improbabile che egli avesse fatto, in questa occasione, anche la donazione della Madonna del Reni perché fosse collocata, a maggiore ornamento, sulla mensa di questo altare dedicato a quei Santi che furono la gloria più pura della Chiesa Agrigentina. E pare inoltre che in quella occasione si sia proceduto ad ingrandire in larghezza la bella tela del Reni.
In origine essa doveva avere le dimensioni di cm. 77 e mezzo X 62 giacché vi si riscontrano cucite ai lati due aggiunte di tela dipinte dello stesso colore oscuro dello sfondo. Ciò pare sia stato fatto allo scopo di dare a questa tela lo stesso formato di un altro quadro rappresentante il Bambino disteso od addormentato sopra una croce orizzontale, che venne collocalo nell’altare di fronte. Queste due tele furono e sono tuttavia collocate entro due ricche e massicce cornici di pari formato ed egualmente intarsiate di tartaruca e di madreperla, ciascuna delle quali raggiunge, nel contorno esterno, le dimensioni di 1,47 X 1.16. Posti questi due ricchi quadri sulle mense dei due altari di fronte l’uno all’altro, per circa un secolo e mezzo conferirono al transetto un certo aspetto di ordine e di eleganza. Il quadrone poi dell’altra tribuna a Sud. rap-presentante i SS. Dottori della Chiesa, venne eseguito più tardi, nel 1815, dal Sac, Libertino Cardella, uomo fornito di doli non comuni di artista e di anima di patriotta, per cui, in seguito ai moti del 1821, fu costretto ad esulare in America (24)
Da allora in poi dunque la nostra Madonna del Reni si era trovata sempre sull’altare dei Sette SS. Vescovi. Su questo altare si trovava quando il pittore siracusano Raffaele Politi, stabilitosi in Girgenti, ne faceva varie copie, due dellequali per commissione di un certo Hasperg furono inviate ad Amburgo, (25) alcune si trovano tuttora in Girgenti, e qualche altra forse a Sciacca. Allora il Politi deve aver chiesto di potere avere la tela del Reni nel suo studio: ma il Capitolo giustamente geloso di un’opera cotanto pregevole, proibiva che la tela si portasse fuori della Cattedrale o che si staccasse dall’altare. Però fu in seguito alle giuste osservazioi del Politi che da questo quadro venne tolto il cristallo che lo copriva, e che poteva danneggiare la tela. Poi fu il Vescovo Mons. Turano che (a motivo dell’umidità trovatasi in questo lato di Nord) nel 1883 faceva cambiare di posto i due sottoquadri, trasportando il Bambino dormente sulla croce all’altare dei Sette SS. Vescovi e la Madonna del Reni a quello di fronte dei SS. Dottori, dove rimase fino al principio della quaresima del 1921. Giacché in questa epoca si è dovuto asportare e riporre provvisoriamente in sacrestia, a causa dei lavori di scrostamento e di ripristino generale della Chiesa, che si vanno proseguendo ora in vicinanza dell’altare dei SS. Dottori; il quale ultimo è destinato anch’esso ad essere demolito.
Ai giorni nostri il quadro è stato ed è oggetto di studio amoroso da parte del Sig. Giuseppe Sinatra, uno di quei rari uomini che, nel discreto riserbo della propria vita, sanno equilibrare l’attività pratica e la quotidiana ed oculata cura del proprio commercio con l’elevazione assidua dello spirito verso qualche cosa di bello e di nobile. Egli — amatore delle belle pitture di paese in generale ed, in modo particolare, del nostro storico e vago paesaggio agrigentino, che ha esplorato e studiato con intuito di finissimo artista e col sussidio di un suo magnifico apparecchio fotografico a riflessione, negli aspetti suoi meno conosciuti e più belli : talché si direbbe che, di questo paesaggio disseminato di bellezze e di grandi memorie, egli sia oggi l’anima solitaria e contemplativa, — egli dunque si è dato con appassionato trasporto a voler cogliere col pennello e, meglio ancora, con la fotografia autocromatica il segreto direi quasi misterioso della suggestiva bellezza della nostra Madonna del Reni. Per cui, se è desiderabile, come è desiderabilissimo, che una larga diffusione si dia a questa dolce immagine, è pure da augurarsi che essa venga rivelata, cosi agli occhi ignari dei fedeli come a quelli sapienti degli artisti, quale appare dalle stupende positive ottenutene dal Sig. Sinatra. Nelle quali il Bambino è in tutta la calda morbidezza delle sue carni e in tutta la dolce euritmia del suo abbandono, la Madonna veglia sul sonno del Figliuoletto con quel veggente intuito di madre stampato sul pensoso suo viso, e tutte e due le figure si soavemente e si nobilmente atteggiate da suscitare in ogni anima un senso nostalgico di alta e cristiana serenità.
Salvatore La Rocca, La Madonna di Guido Reni della Cattedrale di Girgenti, estratto da “L’Ansia”, Girgenti, tipografia Formica1921
Note
1 PANZACCHI, Il libro degli artisti, Milano, 1902, p. 317
2 LAURICELLA, Notizie storiche del Seminario e del Collegio dei SS. Agostino e Tommaso di Girgenti dalla fondazione al 1860, Girgenti, 1897, p. 64 in nota
3 Le ricerche da me fatte si versarono: 1. sul testamento dei Sammarco, di cui nell’archivio della Sacra Distribuzione si conserva la scheda riguardante il legato da lui fatto alla Cattedrale girgentina (Stipulato addì 5 maggio 1793 agli atti di Notar G. B. Giuliana da Gallicani : vedi vol. 78 degli atti della sacra Distribuzione, p. 581); 2. sugli atti capitolari del tempo, dei quali si conservano volumi nel detto archivio della S. D., ma del quali potei, aiutato dal mio amico sac. Prof Giuseppe Catalano, consultare soltanto i volumi V e VI, e le ricerche non si poterono, come si avrebbero dovuto, estendere al VII giacché questo manca perché forse smarrito; 3. altre ricerche furono fatte all’uopo, ma con esito negativo, nell’archivio parrocchiale di Canicattì dai miei amici Arcip. Prof Angelo Ficarra e Sac. Prof. Diego Martines, che qui tutti ringrazio
4 vedi Registro del battesimi di quell’anno della Matrice di Canicatti.
5 GIOIA (P. AGOSTINO), Memora storiche di Canicattì, Palermo, 1919, p 80.
6 LAURICELI.A, LOC. Cit.
7 Ibidem
8 Procura stipulata agli atti di Not. Giuseppe Serio in Palermo il 12 febbraio VI ind. 1761.
9 Atti capitolari della Cattedrale di Girgenti. voi. V p. 253.
10 ibidem, voi. VI pp. 16 e 19.
11 Nella Puntiera, o registro di presenza del coro della Cattedrale di Girgenti dagli anni 1791-1795 trovasi questa nota : «a 27 luglio 1798 mori lil sig. Arcidiacono D. Desiderio Sammarco in Canicattì ad ore 20».
12 Scinà, Prospetto della Stori letteraria di Sicilia del sec. XVIII vol. unico, Com I, pag. 17, Palermo,1857.
13 « Nella Matrice di Canicattlìsi trova insieme coi libri da lui allora donati un suo ritratto che porta la seguente iscrizione « U. I. D. P. Desideri s. Marco La Torre Cannicattini, iam Aulite Matrone et Collegiatde Bcclesiae uansumarii, huius Matricis Collegiatae Ecclesiae Mansionarii, Canonici et Vicarii Generalis Cephaledii; Canonici et Archia Cathedralis Agrigentinae; qui studiosae iuventuti indigenti hunc Bibliotecam summo labore comparatam etiam nunc vivens donavit anno 1785
14 GIOIA, op cit., pag. 51
15 Atti Capitolari vol VI p.1
16 Ibidem p.8
17 GIOIA, op cit., pag. 50
18 Dico che questi due altari sorgevano perché oggi quello dei Sette SS vescovi colla relativa tribuna non estete più. essendo stato demolito pel ripristino della Cattedrale al suo primitivo stile nella primavera del 1914, e perché anche quello dei SS. Dottori è destinato, per le medesime ragioni, ad essere demolito forse fra qualche anno e sino da ora è tolto al culto
19 Dal verbale della visita fatta a questa Cattedrale dal vescovo Mons. Ignazio Amicò (vol. Registro vis 1667-1869, pag. 5,8 e 15 presso la Cancelleria vescovile) risulta che fino al luglio 1657, nel lato Nord del transetto (cioè al posto dove poi sorse l’altare del Sette ss. vescovi con la tribuna) non trovavasi altro che un altarino di S Marta della Grazia mediocremente ornato entro una piccola cappella
quattrocentesca, – quella del De Marinis, – che nel verbale perciò è detta di dritto patronale, il cui arco ornato d’intagli aprivasi, come oggi si può vedere, non nel centro della parete ma un po’ verso occidente e con un pavimento molto più basso del piano della chiesa. Nel lato opposto (cioè ove poi l’altare dei ss, Dottori, con la tribuna) si trovava, un altare sotto il titolo di Maria Maggiore e retrostante a questo, un altro altare mal tenuto entro una cappella ducentesca ma piccola ad angusta, la quale, contrariamente a quella del De Marinis aprivasi un po’ più verso oriente con un pavimento assai più alto del piano della chiesa. Cosi nel detto verbale, mentre non si fa mansione delle due tribune, è detto che alle due estremità del transatto aprivansi due cappellette diverse per architettura, per grandezza, per asimmetria dei loro ingressi e per il loro enorme dislivello col piano della Chiesa
20 Atti Capitolari vol VI pp.9, 11, 14
21 Ibid p. 8
22 Ibid p.9
23 Nell’adunanza del capitolo del 20 giugno 1771, in cui si deliberava il pagamento delle onze 60 al Sozzi, è detto che il nuovo quadro era già collocato e che quella somma veniva erogata per onze 20 dalla Sacra Distribuzione, 20 dalla Marammaz e 29 dalla Cappella di San Gerlando. Atti Capitolari vol VI p.155
24 PICONE, Memorie storiche agrigentine, p.813 e seg.
25 POLITI, Il Viaggiatore in Girgenti, 1826, p.67
Ibid p. 66