Poche persone si sono spinte addentro nei sotterranei di Agrigento, vuoi per paura, vuoi per buon senso, considerato il cattivo stato di salute in cui versavano e per questo diverse leggende si sono accavallate durante questi secoli soprattutto per il sotterraneo più importante, quello per intenderci considerato il “Labirinto”. Perché in effetti, consta di una serie di meandri in parte naturali, in parte fatti dall’uomo, più o meno grandi, ognuno dei quali si ramifica per collegarsi con altri ambienti.
Una delle leggende più avvincenti racconta che il famoso toro di Falaride sia stato nascosto in uno dei vari stanzoni del Labirinto, nel silenzio e nel buio perenne. Un’altra, racconta addirittura che dentro il Labirinto si trovi una “Carrozza tutta d’oro”.
Per ipogei agrigentini si intende una miriade di cunicoli scavati in buona parte dall’uomo sotto l’antica città di Akragas; ma se ne trovano anche fuori le mura.
La loro funzione era quella di raccogliere le acque sotterranee; quasi tutti hanno la forma di un parallelepipedo alto in media cm. 1,85 e largo cm. 80.
Il buio vi regna sovrano, il silenzio è rotto dal dolce tintinnio di gocce che trasudano dalle pareti e dalle volte o talora dal battito d’ali di qualche pipistrello. Gli ipogei sono tutti scavati nel tufo arenario conchiglifero, che caratterizza il sottosuolo agrigentino e non sempre è possibile visitarli per tutta la loro estensione, perché frane naturali o provocate dall’ uomo, ne ostruiscono il passaggio. Certe volte invece, è possibile arrivare fino alla fine dei cunicoli.
Il fondo melmoso talvolta lascia intravedere una cunetta centrale per la raccolta delle acque.
Nelle pareti si notano ancora perfettamente i colpi delle picconate, nonché il fumo delle lucerne ad olio, che messe in apposite nicchie, rischiaravano il pesante lavoro degli schiavi.
Narra, infatti, Diodoro che la gran massa di schiavi cartaginesi catturati dagli Acragantini nel 480 a.C. dopo la battaglia di Imera, venne utilizzata in lavori di pubblica utilità. Essi tagliarono pietre per pubblici edifici e scavarono canali sotterranei, per creare una rete idrica capace di soddisfare i bisogni sempre crescenti di acqua per usi potabili ed irrigui.
Ideatore di queste opere grandiose, come ci tramanda Diodoro, fu l’architetto Feace, il quale concepì un’intricata rete di ipogei che scendevano dalle alture che circondavano Akragas, sia dalla Rupe Atenea che dallo Sperone, sia dal colle di Girgenti che dal Monserrato.
Ma non tutti gli ipogei di Agrigento appartengono alla stessa epoca; quelli del Santuario Rupestre di Demetra, per esempio, sono molto più antichi e risalirebbero al VII secolo a.C. ad un periodo cioè anteriore addirittura alla fondazione della città.
Studiosi, come Marconi e Cultrera, ritengono che essi siano stati scavati, per rifornire di acqua le vasche del Santuario, destinate a cerimonie di purificazione.
E’ pensabile che anche in epoca romana si desse grande importanza alla realizzazione di ipogei, avendo essi mostrato grande validità nell’approvvigionamento di acqua.
Ipogeo degli Ulivi
Si trova in una piccola altura posta a circa 200 m. a nord-ovest dell’attuale Posto di Ristoro, nella proprietà D’Alessandro. Si entra da un’imboccatura piuttosto agevole che immette in un corridoio tortuoso e stretto. Il pavimento è abbondantemente coperto di fango e guano di pipistrelli, che vi abitano in numero rilevante. Dopo uno sviluppo di 32 m. l’ipogeo si biforca in direzione SE. Il ramo principale termina dopo 52 m., l’altro dopo circa 50 m. Entrambi si presentano in ottimo stato e conservano visibili tracce di una discreta attività di percolazione e raccolta d’acqua. L’altezza media dei cunicoli è di 1,65 m., la larghezza di cm. 72.
Ipogeo degli Archi
Si trova nella zona nord di Villaseta, nella ex proprietà Sciascia-Lumia e rifornisce di acqua abbondante un giardino di agrumi. L’ingresso custodito da una grata di ferro, immette in due vasche di notevoli proporzioni che raccolgono l’acqua. Ogni vasca è lunga circa m.12 e larga m.5. Quest’ambiente ha la volta sostenuta da due archi maestosi che contribuiscono ad accrescere l’interesse e il valore di questo acquedotto.
Oltre le vasche, l’ipogeo procede in modo abbastanza normale con il solito percorso tortuoso, che si sviluppa in direzione NE. Dopo circa m.80 un muro di fattura moderna ne impedisce la prosecuzione.
Ipogeo dei Rovi
Si trova nella Colimbetra, in direzione del tempio di Vulcano.
A circa m.2 dell’ingresso l’ipogeo si biforca. Il ramo principale si snoda in direzione EST-NE per 65 m. e sbocca all’esterno; il ramo secondario si eleva di m. 1,50 rispetto al primo e lo attraversa.
Non è stato possibile esplorarlo del tutto per la scarsa consistenza della pavimentazione nel tratto che passa sopra al ramo principale.
Abbondanti tracce di acqua abbiamo trovato nel tratto iniziale, che in alcuni punti era alta 20 cm. Anche qui pipistrelli e deposito di guano.
Mediamente i cunicoli sono alti m.1,68 e larghi cm.80.
ipogeo-giacatello
Ipogeo Giacatello
Tra i più conosciuti, si trova in contrada Giacatello e lo si raggiunge per un viottolo che si apre a lato della S.S. che conduce a S.Nicola.
Dall’ingresso si perviene dopo qualche metro ad un grande ambiente(m. 19×19, h.m.2,05) puntellato da ben 49 pilastri disposti in diverse file.
Il locale riceve luce ma anche acqua piovana, pietre, fango e sterpaglia, da lucernai posti in alto. Complessivamente l’ipogeo si presenta in buono stato.
I pilastri sono ancora ben compatti e conservano tracce di intonaco idraulico di cui erano rivestiti, come le pareti dell’ampio locale, onde rendere la pietra arenaria sufficientemente impermeabile.
In buono stato pure il mulino di epoca romana. Nell’ampio sotterraneo sboccano degli acquedotti provenienti da NO, dalle solite fattezze.
L’analisi delle strutture e dei resti chiarisce bene l’ipotesi del Griffo, secondo il quale in origine il locale dovette essere una grande cisterna e successivamente in epoca romana adibito a magazzino per grano, come lascia intendere la presenza del mulino.

Ipogeo del Purgatorio o Labirinto
Addentriamoci ora nel leggendario “Labirinto”, il cui ingresso principale si trova accanto alla chiesa del purgatorio, nella centrale via Atenea.
Senz’altro è il più grande ed anomalo ipogeo di Agrigento, che verosimilmente dovette servire agli Acragantini per più scopi.
E’ credibile che, oltre che per la raccolta di acqua, sia servito come cava di pietra.
Per la descrizione abbiamo preferito riferirci a quella straordinaria che ne fece il poeta Lionardo Vigo che a nostro parere, a distanza di ben 165 anni, rimane impareggiabile. Scrive dunque il Vigo:” Lì 17 Settembre 1827, insieme al dottore in medicina signor Giuseppe Serroy, tentai scendere nel Labirinto da una apertura che vedesi nella casa del sig. Pasquale Sclafani, ma era talmente da muriccio ostruito, che ne fu impossibile il penetrarvi. L’inutile tentativo raddoppiò il desiderio, e dalla casa del sig. Modica ficcandoci con fiaccole, fanali, e corde per una grotta di fianco, e poi per una buca del diametro di mezzo metro, scendemmo con una scala di dieci gradini.
Eravamo pallidi e credevamo gran danno rischiare per curiosità la vita nei penetrali del monte: ma lì giunti, animosi ci incamminammo l’un dopo l’altro. Ci voltolammo nel fango per un pertugio a precipizio lungo m.10 circa e largo meno di mezzo metro. Il fumo delle torce a vento soffocava, e zuppi, affumicati e brutti di limo, ci rialzammo alla prima stanza, e mi reputai felice nel poter camminare carpone. Nulla si potè ivi osservare. Passai ritto in una stanza seconda, e quel silenzio rotto dalle nostre voci echeggianti, dall’acqua che lenta gocciava, il buio dileguato dall’insolita luce ed il sentirci una città intera di sopra, accrescevano il diletto bizzarro di quella scena affatto nuova.
Ogni stanza, per lo più quadrilunga, comunica irregolarmente con altre tre o quattro, e queste con altre, talchè ognuna è centro a molte che la circondano. Ciascuna più o meno è alta da due in tre metri, larga da quattro sino a sei. L’antico suolo, ingombro dai caduti massi e dalla creta, è ineguale. Scende come la montagna ed è coperto da stalagmiti, il tetto orizzontale lo è di stalattiti.
Vedesi ancora nel tufo calcare il taglio dello scalpello che l’incavò. Le mura intermedie sono grosse da uno a due metri. Le comunicazioni non si guardano, non havvi vestigio di porte. Ad ora ad ora, incontransi nel tetto delle aperture otturate dalla terra caduta e che ha preso la forma di un cono. Così fidando nel mio filo di Arianna, d’una in altra cavità passando, vidi grandi massi avvallati e altri che minacciavano un precipizio.
A 15 m. sottoterra, fui chiuso dal monte e da uno stagno di acqua dolce e limpida. Chiunque sarebbe retrocesso:noi avanzammo.
Non posso tacervi ch’io avea sotto gli occhi, Dante, che iva nella città dolente, e quelle bolgie, più presto che camere, e quelle rupi stesse cadute e cadenti mi richiamavano alla memoria i divini carmi del ghibellino, che il dottore Serroy declamava, scuotendo la fiaccola e stendendo la corda.
Io consigliavo il ritorno, temendo che si turasse l’uscita: erano sordi tutti e predicavo al deserto, onde mi fu forza progredire, non sapeva più in quale direzione si camminasse. Non da dove eravamo venuti, né dove si andasse. Le camere si ripetevano e gli incomodi non minoravano.
A 50 m. vidi questa leggenda nel tufo: Y.Houel 9-1776.
Quello scritto mi rianimò e volli percorrere oltre la meta in cui Houel si era arrestato.
Penetrai quasi altrettanto; ma il pericolo di restare schiacciati e la monotonia ci fecero retrocedere. La sortita fu più disagevole della discesa: solo con l’aiuto delle dita delle mani e delle punte dei piedi, aggrappate e puntellate nel fango dal pertugio tondo, grondanti di sudore, ne rimettemmo, come Dio volle, sotto la scala, e quindi uscimmo a riveder le stelle”.
Tratto da “I sotterranei di Agrigento” di A.Dalli Cardillo e N.Sciangula – AAST
