Dopo più che trent’anni è tornato a Cammarata credeva di non poterla più riconoscere. Invece la riconobbe. Risalendo le complicate serpentine che della stazione portano in paese, intravide, per primo, attraverso i finestrini della corriera, l’antico castello baronale dove, in tenera età, aveva trascorso intere giornate insieme a coloro che ora non lo riconoscevano più, poi la tricentenaria chiesa madre si stagliò netta, possente.
Cammarata, il sogno vagheggiato da più di trent’anni, era ancora sua: scese della corriera, si guardò intorno. Ad attenderlo c’era qualche lontano parente. Gli uomini avevano ormai perdonato a Giuseppe Mangiapane la sua colpa. Ed il perdono l’ha dato anche il parroco del paese che, conosciuta, come noi, la vita di questo redivivo, lo addita ai fedeli come esempio della redenzione degli uomini.
Per questo, Giuseppe Mangiapane, si reca spesso in chiesa: per chiedere perdono a Dio di quella colpa che non era nelle sue intenzioni di commettere.
Lo troviamo seduto davanti all’uscio di una piccola modesta casa. Gli parliamo, ma sulle prime non risponde. Per lui esiste solo la lingua francese. Lì gli rivolgiamo la parola in francese. Sbarra gli occhi: ha solo compresa qualche parola. Risponde in un siciliano francesizzato. Stentiamo, in verità, a comprendere. Bisogna rivolgergli due o tre volte la medesima domanda. Poi finalmente, intuisce lo scopo della nostra visita.
“Fu nell’agosto del 1920 che lasciai Cammarata.
Avevo 22 anni e una gran voglia di lavorare. Avevo pensato parecchie volte all’America ma i soldi non mi bastavano per il viaggio. Mi consigliarono la Francia. Marsiglia fu la prima tappa.
Qui trovai subito lavoro presso i Vermon, una grossa ditta di costruzioni. Vi rimasi due anni e quando mi decisi a lasciarla parlavo discretamente il francese e la mia qualifica di semplice operaio era divenuta “specializzato”. Un gran vantaggio questo, per trovare lavoro altrove. Lione fu la seconda tappa. Mi occupai dapprima presso la ditta Grammon, poi dai Monè.
Qui cominciò la mia tragica vita. Un giorno, in pieno lavoro, un grosso cavo improvvisamente si spezzò. Fui colpito in pieno. Trasportato all’ospedale Hotel de Dieu vi rimasi parecchi giorni. Una mattina si presentò al mio capezzale un signore piccolo dai modi gentili. Era un medico dell’Istituto di assicurazioni “La Maternel”. Vuole raccontato il mio caso. Alla fine mi disse che l’ospedale non poteva visitarmi. Sarei dovuto andare alla clinica Saint Luc e, se volevo, accompagnato da un medico di mia fiducia.
Un medico – aggiunge Mangiapane guardandosi d’attorno – un medico! Non avevo neanche mezzo franco… Tuttavia il giorno dopo abbandonai l’Hotel de Dieu per recarmi a Saint Luc. Fui accolto con modo garbato. Dopo la visita il medico mi consigliò di farmi ricoverare. Rinunciai. Chi avrebbe pagato la retta giornaliera? Preferì – e mi venne concesso – di recarmi ogni mattina in ambulatorio. Ma quella ferita sembrava maledetta. Non voleva mai rimarginare, tanto che il medico finì con lo stancarsi e mi rilasciò, dopo due mesi circa, un certificato di guarigione. Non mi sentivo di riprendere il lavoro; la ferita mi tormentava. Mi rivolsi alla Camera del Lavoro di Lione. Fui visitato ancora una volta e mi venne riconosciuta la infermità non solo ma ciò fu reso noto anche all’Istituto delle assicurazioni, avendo la ferita diminuito le mie capacità lavorative”.
Giuseppe Mangiapane ha come un sussulto. Alza lentamente lo sguardo al cielo, poi continua:
“da quel giorno incominciò il mio calvario. L’Istituto delle Assicurazioni non volle sentirne di riconoscere la mia infermità; la Camera del Lavoro se ne lavò le mani consigliandomi di adire il tribunale. Disperato cercai di rivolgermi al Console Generale italiano di Lione: non ebbi fortuna.
“La legge, la legge” mi dicevano tutti. Adii il Tribunale; pratiche lunghe a non finire. Poi un giorno fui chiamato dall’Istituto per addivenire a un accordo. Fui accolto malissimo: ricordo che il direttore, dopo ore di attesa, mi rimandò a casa. Non comprendeva la mia lingua. Ritornò il giorno dopo con un interprete. La conclusione – ah quell’uomo, quel signor Misol – lo avevo seccato abbastanza per due anni, disperato, umiliato risposi con parole dure. Questa volta Misol mi comprese benissimo, chiamò il suo segretario e mi fece buttar fuori.
La fame mi spinge a ritornare a Marsiglia. Dai Vermon fu ricevuto con l’antico affetto. Ripresi il lavoro. Ma il mio destino era ormai segnato. Un giorno mentre sorbiva una birra, seduto al tavolo di un caffè, vedo avanzare un uomo. Era Misol… Mi guardò con fare sprezzante, felice forse del mio tragico destino, felice forse di vedermi mezzo finito. L’infortunio, l’Hotel de Dieu, San Luc, la Camera del Lavoro, il Console italiano, il tribunale, l’ufficio di Misol, il suo segretario, tutti questi ricordi balenarono nella mia mente. Non compresi più nulla. Misol era stata la mia rovina; portai la mano alla tasca dei pantaloni, estrassi la pistola, sparai. Per fortuna non lo colpii.
Fui tratto in arresto. Nell’aprile del 1927 giudicato. Nessuno disse una parola in mio favore. Il difensore d’ufficio che il tribunale mi aveva assegnato non volle aprire bocca. Ero italiano, per giunta, delinquente. Un anno dopo, a bordo di una vecchia carcassa, lasciavo Marsiglia per la Guiana francese, per l’Isola del Diavolo. Insieme ad altri dovevo trascorrere 12 anni”.
“E la Guiana ?” Gli domandiamo.
“ La Guiana: un inferno. Non so come abbia fatto sopravvivere a quella vita da bestie. Trattati malissimo, da forzati. Vitto pessimo, tutta roba avariata, puzzolente, piena di vermi. Il clima: spaventoso. Ci svegliavamo alle sei del mattino. Catene ai piedi, lentamente in fila indiana, ci conducevano nelle boscaglie per tagliare alberi. Un vero inferno qui. Il sole ci schiantava tutti. Gli insetti continuamente ci punzecchiavano. Qualcuno se rallentava il ritmo del lavoro veniva o richiamato o picchiato. I rettili in genere erano la nostra ossessione. Dopo quattro ore si iniziava il ritorno, poi il rancio orrendo. Riposo sino alle tredici all’ombra di un muro del penitenziario. Con il sole a picco si ritornava lavoro che terminava alle diciassette. Molti miei compagni di sventura cadevano svenuti, altri erano colpiti spesso di insolazione. La sera, dopo il monotono appello, il riposo tanto desiderato.
Quante volte fantasticai di evadere insieme ad altri forzati che fuggiti o furono acciuffati o finirono con l’essere divorati dai pescecani che investano le acque dell’isola del diavolo.
Quante volte sognai Cammarata, questo mio tranquillo paese: quante volte mentre attraversavo la boscaglia, mi rivolsi al buon Dio pregandolo di darmi le forze per resistere a tanto inferno.
Dio è grande – continua – e nella sua immensa misericordia mi ha aiutato. Scontare la mia pena. Un giorno mi dissero: “sei libero!”. Finalmente libero! Avrei potuto far ritorno in Francia e poi in Italia. Ma i soldi del viaggio? Dov’erano andati a finire i danari che il signor Misol durante la mia permanenza in carcere, forse pentito, aveva pensato farmi liquidare?
Il direttore dell’istituto di pena al quale non avevo mai dato noie mi procurò del lavoro in qualità di giardiniere presso alcuni suoi amici di Cayenna. “Lui non è come gli altri” diceva spesso. E non ero come gli altri, Dio lo sa. La guerra spezzò il mio sogno. Poi si apprese che si poteva rientrare in Francia perché la frangia aveva vinto la guerra.
La Francia aveva vinto la guerra sì, ma molti dei suoi uomini vivevano e vivono alla Guiana. È spaventoso!
Partii insieme ad alcuni funzionari che dopo tanti anni rientravano in patria, in famiglia. Tornato in patria anch’io, ma da chi andare? Gli uomini perdonano, però. È vero. Ed eccomi qui. Il resto lo sapete. Ne avete parlato anche voi, me l’hanno detto. Ma vi prego precisate che non ho ucciso nessuno per rubare pochi franchi. Questa è la mia storia, disgraziata, tragica storia. Non ho rubato, non ho ammazzato, precisatelo, ve ne prego”.
Ora tace Mangiapane. Guarda ancora intorno. Poi china la testa; la stringe fra le grosse callose mani e mormora: “mi fa tanto soffrire… E poi quei colpi non mi lasciano dormire”.
Lo ringraziamo, lo salutiamo; fa per alzarsi ma non vi riesce. Ci allontaniamo. Sull’angolo della piccola e stretta strada ci voltiamo.
Giuseppe Mangiapane è la, con la testa fra le mani: “Ah, che colpi”. Per questo lo raccomandiamo alle autorità del paese, al parroco, al sindaco. È un redivivo.
Franco Gagliano
In “Giornale di Sicilia” 25 luglio 1950