L’Olympieion sorgeva tra il tempio di Ercole quello dei Dioscuri sulla collina sacra di Akragas.
L’inizio della sua costruzione è fatto risalire, per opinione comune, al 480 a. C., anno della vittoria su Imera.
Sotto l’illuminata guida del tiranno Terone, gli agrigentini vivevano allora l’età del loro splendore.
Secondo la testimonianza degli scrittori antichi, i lavori, durati oltre settant’anni, si interruppero prima che l’edificio fosse completo. Ciò non toglie che l’opera destasse stupore e ammirazione: lo stupore e l’ammirazione che colgono ancora oggi chi si attardi a guardarne i poveri e sconvolti avanzi.
Lungo m. 113, 20 e largo m. 56,60 (un doppio quadrato) occupava una superficie di mq. 6407, sorgendo su un quadrilatero di grossi muri di fondazione della profondità massima di me. 6,60.
I cinque gradini del crepidoma si elevano, appunto su questo basamento che, agli angoli è rafforzato da pilastri triangolari, i quali raggiungevano il livello del pavimento e s’incuneavano nell’angolo interno, facendo sistema con le rimanenti strutture.
Si perveniva all’interno del tempio per mezzo di due porte trapezoidali (m. 3,45 alla base, m. 2,35 al sommo) ricavate negli intercolumni estremi della fronte orientale.
Altre due porte, con scalette che servissero a superare il declivio del terreno, potrebbero supporsi sul lato occidentale ma, purtroppo, manca qualsiasi elemento che possa illuminarci sulle vere strutture della fabbrica da questo lato.
Due settori trasversali dividevano la navata centrale in tre parti: pronao, cella propriamente detta ed opistodomo. La cella ipetra, larga m. 12,80, era delimitata da due file di pilastri quadrangolari (12 per parte) di m.4 circa di lato, poggiati su base modanate ad angolo retto e uniti da cortine di muro.
Il tempio era eptastilo, pseudoperiptero: un muro dello spessore di metri 1,79 si elevava su un plinto di due assise di conci; ad esso si addossavano dalla parte estrema delle semicolonne di stile dorico; all’interno, invece, in corrispondenza di quest’ultime, si innalzavano dei pilastri, che col muro e le semicolonne formavano un unico sistema costruttivo. Tra stilobate ed elevato correva una base continua modanata, alta metri 1,34.
Una delle caratteristiche principale del monumento è costituito dal fatto che le semicolonne non si elevavano a mezzo di grossi tamburi sovrapposti, ma erano formate da piccoli conci a cuneo, disposti a raggera. Esse erano alte metri 16,35, con un diametro all’imoscapo di metri 4,22 e di metri 3,25 al sommoscapo; le scanalature in numero di 10 (9+2/2) alla base, diventavano 11+2/3 al sommo, dovendosi ciò al fatto che le semicolonne si accartocciavano di più verso l’alto.
Le teorie sui vari particolari costruttivi, senza dubbio originali, del tempio di Giove si accavallano infinite. Alcune di esse hanno trovato largo credito e sono abbastanza note, perché possa qui trascurarne un esame particolareggiato.
Rilevo però soltanto che la questione su cui soprattutto si insiste nei diversi progetti ricostruttivi è quella della collocazione dei telamoni.
Sono questi, come è risaputo, delle gigantesche figure dell’altezza di metri 7,61, che nell’edificio avevano senza dubbio funzione di sostegno.
Sono costituiti da diversi conci di tufo arenario (lo stesso materiale impiegato per tutto l’Olympieion e per gli altri templi della collina sacra di Agrigento) distribuiti isodomicamente; alcuni di questi conci portano, poi, delle appendici a sezione quadrangolare, che, sporgendo dalla parte posteriore, costituiscono dei prolungamenti, per mezzo dei quali i telamoni venivano a formare parte integrante di un pilastro retrostante.
Ma dove, esattamente, erano collocati questi giganti?
Koldewaey e Puchstein li pongono all’esterno, negli intercolumni, facendoli poggiare sopra una sporgenza del muro.
Nel progetto Pace-Peirce essi invece sono collocati nell’interno della cella.
Marconi, avendo trovato in fortunati scavi resti di telamoni sempre all’esterno del tempio, aderisce alla concezione dei due archeologi tedeschi, sostituendo, però, alle sporgenze del muro dei brevi mensoloni, complicando così il problema della staticità.
Eseguivo il rilievo del tempio, quando mi venne fatto di rinvenire tra i ruderi il piede sinistro di un telamone a ridosso di un concio in tutto simile a quello che avevo trovato in altro punto del monumento e che avevo posto a coronamento del muro di cortina tra una semicolonna e l’altra, all’altezza di metri 10,65.
Poco discosto era la spalla di una finestra.
Mi balenò allora la soluzione di un altro grave problema: quello dell’illuminazione degli ambulacri del tempio, considerando che a questo scopo erano insufficienti le porte laterali. Cercai ancora in quella congerie di massi: vi riconobbi conci che formavano parte della gamba del gigante. Con questi elementi una sola tesi poteva sembrar insostenibile: che cioè tra una semicolonne e l’altra fossero ricavate nel muro di cortina delle finestre di metri 7,61 × 3,45, al centro delle quali si innalzassero i telamoni a sostenere sulle braccia ricurve il peso immane dei fastigi del tempo.
Anselmo Prado in Illustrazione Siciliana